Pensiero greco e cultura araba
(Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie)EAN 9788806156572
Esaurito
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DETTAGLI DI «Pensiero greco e cultura araba»
Tipo
Libro
Titolo
Pensiero greco e cultura araba
Autore
Gutas Dimitri
A cura di
D'Ancona C.
Traduttore
Martini C.
Editore
Einaudi
EAN
9788806156572
Pagine
275
Data
2002
Collana
Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie
COMMENTI DEI LETTORI A «Pensiero greco e cultura araba»
Recensioni di riviste specialistiche su «Pensiero greco e cultura araba»
Recensione di Carlo Saccone della rivista Studia Patavina
Uscito nel 1998 con un titolo più lungo e assai esplicativo (Greek thought, Arabic thought: the Graeco-Arabic translation movement in Baghdad and early Abbasid society, 8th-10th c.), questo bel volume ambisce da un lato a fare il punto su un settore di ricerche storiografiche che ha certamente conosciuto forti progressi negli ultimi decenni (M. Ullmann, F. Sezgin, G. Endress, F. Rosenthal, J. Van Ess per fare qualche nome); dall’altro, fornire una chiave interpretativa nuova e originale al ben noto e vasto fenomeno delle traduzioni di testi scientifici e filosofici provenienti dall’eredità greco-ellenistica in arabo.
A complemento del primo obbiettivo, l’A. fornisce una preziosa appendice: “Opere greche tradotte in arabo. Guida bibliografica per argomenti”, ossia non l’elenco delle opere tradotte, ma, settore per settore (agricoltura, alchimia, filosofia, medicina ecc.) la bibliografia essenziale (rassegne, studi ecc.) che permette allo studioso di iniziare il suo percorso nella delicata materia sotto la guida dei migliori specialisti. L’indagine dell’A. non si ferma al prodotto del “movimento di traduzione”, ma analizza attentamene le condizioni sociali, politiche e religioso-ideologiche che lo resero possibile. Già nel titolo inglese troviamo una importante chiave di lettura: le traduzioni non nacquero in modo casuale o per sommatoria di singoli sforzi disparati e non coordinati, al contrario. Tutta l’ipotesi interpretativa del Gutas poggia sull’idea che vi fu, nel periodo considerato, un vero e proprio “movimento” di traduzione con relativi, patroni, ideologia e regia. Tentare di fornire in poche righe il senso di questa interpretazione non è facile, perché non si renderebbe giustizia alla vastità di indagine, alla ampiezza di prove documentali e di fonti storiche citate o solo richiamate in questa densa ricerca. In sostanza, è la tesi del Gutas, il movimento delle traduzioni nasce da una regia ben precisa, quella della corte dei califfi della prima era abbaside (dal 750 in poi) e si regge, o meglio è informata dalla “ideologia imperiale sassanide” dell’Iran pre-islamico di cui i califfi abbasidi in qualche modo, ma pare consapevolmente, si sentissero i continuatori. La stretta alleanza tra potenti famiglie iraniche (Barmecidi, Nowbakht, Tahiridi) con i primi califfi abbasidi, cui esse forniranno il nerbo dell’amministrazione e dell’esercito; la posizione della stessa Baghdad, fondata dagli Abbasidi a poca distanza da Ctesifonte, l’antica capitale sassanide; la forte preminenza dell’elemento iranico -anche in forme di una sorta di radicato nazionalismo “revanscista”- nel primo secolo abbaside, un elemento che era stato determinante nel rovesciamento della precedente dinastia califfale degli Omayyadi di Damasco, intrisa di nazionalismo arabo; la ancora debole presa dell’Islam in tutto l’Oriente iranico, in gran parte ancora zoroastriano, manicheo o comunque non-islamico nel periodo considerato: si tratta di una serie di fattori che in parte spiegano le condizioni in cui la corte califfale abbaside assume, secondo l’A., la “ideologia imperiale sassanide”. Ecco, di questa ideologia era parte integrante -e qui è il fulcro di tutta la interpretazione del Gutas- un progetto culturale di vasta portata che aveva nella traduzione il suo strumento principale. Alla base di tutto, facciamo un salto indietro, c’è l’idea -corrente nella letteratura zoroastriana- che Alessandro Magno durante la sua spedizione in Oriente avesse razziato i libri sacri dell’Avesta e dei suoi commentari disperdendoli fuori dell’Iran: in tal modo si sarebbe successivamente “fecondata” una sapienza straniera (greca, indiana) che in realtà, è “figlia” dell’unica divina sapienza contenuta nella divina rivelazione di Zoroastro. La politica culturale degli imperatori sassanidi portò conseguentemente in primo piano lo strumento della traduzione, attraverso il quale l’Iran mazdeo si sarebbe potuto finalmente “riappropriare” di una sapienza che altre genti gli avevano indebitamente sottratto. Questa ideologia imperiale sassanide, si diceva, verrà fatta propria dai primi califfi abbasidi, portati al potere s’è detto sull’onda di un forte nazionalismo iranico revanscista e anti-arabo. Questi califfi peraltro si circondano di funzionari, dignitari e mawali (clientes) persiani, talora sono essi stessi di origini persiane, come è il caso di al-Ma’mun, di madre iranica; insomma l’atmosfera filo-iranica secondo il Gutas non può non avere influito su questa politica culturale. In fondo, i califfi abbasidi non faranno che mettere il Corano –testo divino secondo il dogma esistente ab aeterno- al posto dell’Avesta, e ragionare come se tutte le scienze e tutta la filosofia prodotta dagli antichi ne fossero una derivazione di cui era urgente “riappropriarsi”. Oltretutto i bizantini secondo la rappresentazione del mondo intellettuale abbaside, non si erano mostrati degni eredi dei grandi “saggi di Grecia”; anzi il cristianesimo è volentieri, “ideologicamente” certo, rappresentato come nemico della filosofia. Ciò spiega in parte l’apparente contraddizione tra la politica bellicista anti-bizantina e il filo-ellenismo culturale degli Abbasidi. I quali, con il menzionato al-Ma’mun portano avanti un disegno di accentramento politico e insieme culturale-dogmatico, che vuole sottrarre alla comunità dei dottori della legge l’ultima parola in fatto di dogma a favore del califfo. A questo disegno diveniva funzionale promuovere la conoscenza e la discussione dei dogmi dei dottori attraverso la dialettica greca, anche per mettere in riga le pretese dell’establishment religioso di avere il monopolio in materia. Establishment che naturalmente fu quanto mai restio ad appoggiare per non dire apertamente ostile alla svolta accentratrice del califfo: memorabili sono le rivolte del popolino di Baghdad aizzato da dottori e predicatori sotto la regia di Ibn Hanbal. Il califfo al-Ma’mun adotterà, coerentemente col suo disegno accentratore e verrebbe da dire “papista”, una teologia ufficiale (la mu’tazilita), creerà un tribunale dell’inquisizione (mihna); al contempo -aspetto intimamente contraddittorio che forse avrebbe meritato qualche maggiore approfondimento- favoriva e promuoveva il libero dibattito teologico sulla base delle greche armi della dialettica, riservandosi “l’ultima parola”. Quel che i Gutas fa emergere con chiarezza è dunque la cornice politica e ideologica del “movimento” delle traduzioni che doveva immettere la linfa vitale dell’eredità greca nello stantio e ancor primitivo dibattito teologico dell’epoca. Le traduzioni dunque diventano uno snodo strategico della politica culturale del califfo. Queste avverranno dal greco in arabo, e talora con passaggi per lingue intermedie (pahlavico, siriaco). Ora, tutto questo appare all’A. come un vero e proprio “movimento” guidato dall’alto, con una ben individuabile regia politica, con una ideologia di cui s’è detto e un contesto di lotta ideologica, e in un ambiente sociale di riferimento costituito dalla società intellettuale di Baghdad e di altri centri minori dei secoli d’oro dell’età ‘abbaside’, in cui i nuovi fermenti dovevano seminare l’inquietudine tra i dottori tradizionalisti abituati all’idea che tutta la scienza era nelle Scritture.
A costo di qualche inevitabile brutale semplificazione o impoverente schematizzazione, pensiamo di avere dato alcune delle linee fondamentali del discorso del Gutas. Che ha il pregio di fare giustizia di alcuni luoghi comuni, come ad esempio quello secondo cui furono le traduzioni dal greco ad avviare una riflessione scientifica e filosofica nel mondo musulmano. Al contrario, secondo l’A. “fu lo sviluppo di una tradizione scientifica e filosofica araba che generò la richiesta su vasta scala di traduzioni dal greco (nonché dal siriaco e dal pahlavi); non furono le traduzioni a dar vita alla scienza e alla filosofia, come si dice di solito”. Così come l’altro luogo comune, quello di un ruolo sostanzialmente passivo di pura “conservazione” del lascito greco da parte della cultura araba e della successiva “trasmissione” al mondo latino medievale, non regge all’analisi condotta negli ultimi decenni su tante opere arabe e sulle modalità di produzione, sviluppo e fruizione del prodotto culturale nel mondo musulmano medievale. Il lavoro del Gutas fa ampiamente il punto sulla società araba del periodo considerato, e a ragione ne sottolinea la grande vivacità e creatività culturale.
Detto questo la tesi principale del Gutas non ci convince sino in fondo, per quanto, si diceva, il suo saggio appaia un esempio raffinato di ricerca storica, encomiabile per l’ampiezza di riferimenti a fonti e documenti, per l’argomentazione brillante e ben costruita, per la profondità di orizzonti ermeneutici. C’è sembrato in fondo, per andare al nocciolo della questione, che la sua tesi sia poco “economica”. E mi spiego. I territori conquistati dalle armate arabe nei primi cento anni dopo la morte di Maometto, dall’Egitto al Mediterraneo Orientale, da Gibilterra alla Valle dell’Indo, corrispondono com’è noto a bacini di civiltà antichissimi e che, soprattutto, ancora per molto tempo dopo la conquista musulmana conserveranno una loro autonoma individualità cultura, etnica, religiosa e persino linguistica. La accademia persiana di Gondeshapur, grande centro di studi medici e astrologici, era viva ancora fino a quando fu fondata Baghdad, che finirà per attrarre i suoi ingegni; così come saranno vivacissimi (anche dopo la fondazione di Baghdad) grandi centri di cultura persiana tradizionale come ad esempio Marw in Asia Centrale. La lingua e la religione mazdea non solo continueranno a prosperare per secoli, ma la maggiore letteratura (in lingua pahlavi) verrà prodotta proprio in epoca islamica tra il VIII e l’XI secolo. Non diversamente stanno le cose per il mondo cristiano-siriaco e greco; quest’ultimo è vero, dopo la grande figura di S. Giovanni Damasceno conosce un rapido declino. Ma non è così per quello cristiano-siriaco: il nestorianesimo prospererà ancora per secoli. I centri di studio legati a queste e altre civiltà religiose (la armena, la ebraica ad esempio) continueranno ad operare per qualche secolo, fianco a fianco, con i grandi centri di cultura arabo-islamica che, come si può intuire si svilupparono sempre di più e in ogni parte dell’ecumene musulmana a partire dall’epoca abbaside. Centri in cui -lo studio del Gutas ce lo documenta ad abundantiam- la presenza e la collaborazione come docenti, traduttori ecc. di cristiani nestoriani e ebrei, di zoroastriani e manichei fu una costante. Con l’andare del tempo avanzò un fenomeno che il Gutas certo conosce ma che sembra un po’ sottovalutare: l’arabizzazione massiccia di tutti i territori tra l’Egitto e la Mesopotamia. Anche là dove questo non avvenne, come nei territori iranici (ove il pahlavi evolve nel neo-persiano, ma non viene soppiantato dall’arabo), le élites colte sono comunque arabizzate o quantomeno bilingui; l’elite persiana alla corte dei primi califfi abbasidi era sicuramente ampiamente arabizzata. Ecco il punto, la persistenza delle antiche scuole e dei centri di cultura risalenti al periodo preislamico doveva fare i conti da un lato con l’affermarsi di nuovi centri e nuove scuole in cui l’arabo era omai la sola lingua “veicolare”, dall’altro con un pubblico colto sempre più arabizzato. L’arabo in epoca abbaside è oramai la lingua delle scienze per eccellenza, anche non religiose. Il rischio che il patrimonio di opere studiate per secoli in questi centri di origini preislamiche divenisse semplicemente muto e inaccessibile, dunque inutilizzabile, dovette essere sufficiente per innescare un movimento “spontaneo” di traduzione di tutto ciò che si poteva tradurre nella nuova e universale lingua di cultura: l’arabo. A questo movimento “spontaneo”, certamente contribuì in primis l’elite economica e politica, interessata a non perdere il patrimonio di conoscenze tecniche e scientifiche conservate in questi centri; e la corte califfale poté anche assumere in certi periodi, almeno fino all’850, e per scopi connessi con la lotta politico-ideologica, un ruolo propulsore cosciente e attivo, come ben documenta il Gutas. Ma, come egli stesso ammette, il “movimento delle traduzioni” in arabo, ossia nella nuova lingua ufficiale dell’impero arabo, ebbe inizio ben prima dell’avvento degli Abbasidi.
In sostanza, ci sembra, la parte più delicata e forse discutibile della tesi dell’A. sia rinvenibile nel ruolo centrale -nella genesi del movimento di traduzione- che egli attribuisce alla presunta assunzione da parte di califfi abbasidi della menzionata “ideologia imperiale sassanide”. In ogni epoca, la rapida decadenza e la progressiva sparizione di una lingua è stato un incentivo più che sufficiente a innescare un “movimento di traduzione” di tutto ciò che si stimava meritevole di essere salvato o ricordato. Tanto più in zone e territori dove esisteva una tradizione culturale -più esattamente diverse tradizioni culturali in varie lingue- di antico e consolidato prestigio, che, da un certo momento in poi, semplicemente continueranno a lavorare con un’altra lingua, la lingua dei vincitori. I persiani, i greci, i nestoriani di lingua siriaca che lavorarono per un paio di secoli come traduttori dalle rispettive lingue in arabo, ci documentano questo passaggio inevitabile dalle vecchie alla nuova cultura arabizzata e “universale” dell’ecumene musulmana. Una cultura che, a riprova, fornirà la propria lingua, l’arabo, anche ai grandi pensatori ebrei del medioevo spagnolo: Mosè Maimonide, Ibn Gabirol; per non parlare della letteratura araba cristiana, che nasce perché evidentemente gli stessi cristiani arabi di ogni osservanza da un certo momento in poi non potranno che passare all’arabo. Il “movimento di traduzione” ha forse questa più semplice, banale se si vuole, ma “economica” spiegazione.
Se si vuole cercarne una di ordine più ideologico, senza scomodare l’“ideologia imperiale sassanide”, si può ricordare un ben noto passo coranico in cui Allah dice: “Vi è stato dato il Corano e la Sapienza (hikma)”; un passo che andrebbe avvicinato a un celebre detto di Maometto, caro a tutti gli scienziati e gli gnostici dell’Islam: “Cerca la sapienza, anche se dovessi andare di qui fino in Cina!”. Si può naturalmente discutere sul valore della parola “sapienza” (hikma), che per molti dottori allude all’insegnamento pratico di Maometto, ovvero la sua condotta (sunna) esemplare. Ma in questa idea di una “sapienza” concessa da Dio agli uomini e che questi, però, devono andare affannosamente a cercarsi finanche in Cina, c’è abbastanza per spiegare, ideologicamente e più “economicamente”, la grande corsa alla traduzione che inizia -lo ricorda il Gutas- ben prima degli Abbasidi.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
A complemento del primo obbiettivo, l’A. fornisce una preziosa appendice: “Opere greche tradotte in arabo. Guida bibliografica per argomenti”, ossia non l’elenco delle opere tradotte, ma, settore per settore (agricoltura, alchimia, filosofia, medicina ecc.) la bibliografia essenziale (rassegne, studi ecc.) che permette allo studioso di iniziare il suo percorso nella delicata materia sotto la guida dei migliori specialisti. L’indagine dell’A. non si ferma al prodotto del “movimento di traduzione”, ma analizza attentamene le condizioni sociali, politiche e religioso-ideologiche che lo resero possibile. Già nel titolo inglese troviamo una importante chiave di lettura: le traduzioni non nacquero in modo casuale o per sommatoria di singoli sforzi disparati e non coordinati, al contrario. Tutta l’ipotesi interpretativa del Gutas poggia sull’idea che vi fu, nel periodo considerato, un vero e proprio “movimento” di traduzione con relativi, patroni, ideologia e regia. Tentare di fornire in poche righe il senso di questa interpretazione non è facile, perché non si renderebbe giustizia alla vastità di indagine, alla ampiezza di prove documentali e di fonti storiche citate o solo richiamate in questa densa ricerca. In sostanza, è la tesi del Gutas, il movimento delle traduzioni nasce da una regia ben precisa, quella della corte dei califfi della prima era abbaside (dal 750 in poi) e si regge, o meglio è informata dalla “ideologia imperiale sassanide” dell’Iran pre-islamico di cui i califfi abbasidi in qualche modo, ma pare consapevolmente, si sentissero i continuatori. La stretta alleanza tra potenti famiglie iraniche (Barmecidi, Nowbakht, Tahiridi) con i primi califfi abbasidi, cui esse forniranno il nerbo dell’amministrazione e dell’esercito; la posizione della stessa Baghdad, fondata dagli Abbasidi a poca distanza da Ctesifonte, l’antica capitale sassanide; la forte preminenza dell’elemento iranico -anche in forme di una sorta di radicato nazionalismo “revanscista”- nel primo secolo abbaside, un elemento che era stato determinante nel rovesciamento della precedente dinastia califfale degli Omayyadi di Damasco, intrisa di nazionalismo arabo; la ancora debole presa dell’Islam in tutto l’Oriente iranico, in gran parte ancora zoroastriano, manicheo o comunque non-islamico nel periodo considerato: si tratta di una serie di fattori che in parte spiegano le condizioni in cui la corte califfale abbaside assume, secondo l’A., la “ideologia imperiale sassanide”. Ecco, di questa ideologia era parte integrante -e qui è il fulcro di tutta la interpretazione del Gutas- un progetto culturale di vasta portata che aveva nella traduzione il suo strumento principale. Alla base di tutto, facciamo un salto indietro, c’è l’idea -corrente nella letteratura zoroastriana- che Alessandro Magno durante la sua spedizione in Oriente avesse razziato i libri sacri dell’Avesta e dei suoi commentari disperdendoli fuori dell’Iran: in tal modo si sarebbe successivamente “fecondata” una sapienza straniera (greca, indiana) che in realtà, è “figlia” dell’unica divina sapienza contenuta nella divina rivelazione di Zoroastro. La politica culturale degli imperatori sassanidi portò conseguentemente in primo piano lo strumento della traduzione, attraverso il quale l’Iran mazdeo si sarebbe potuto finalmente “riappropriare” di una sapienza che altre genti gli avevano indebitamente sottratto. Questa ideologia imperiale sassanide, si diceva, verrà fatta propria dai primi califfi abbasidi, portati al potere s’è detto sull’onda di un forte nazionalismo iranico revanscista e anti-arabo. Questi califfi peraltro si circondano di funzionari, dignitari e mawali (clientes) persiani, talora sono essi stessi di origini persiane, come è il caso di al-Ma’mun, di madre iranica; insomma l’atmosfera filo-iranica secondo il Gutas non può non avere influito su questa politica culturale. In fondo, i califfi abbasidi non faranno che mettere il Corano –testo divino secondo il dogma esistente ab aeterno- al posto dell’Avesta, e ragionare come se tutte le scienze e tutta la filosofia prodotta dagli antichi ne fossero una derivazione di cui era urgente “riappropriarsi”. Oltretutto i bizantini secondo la rappresentazione del mondo intellettuale abbaside, non si erano mostrati degni eredi dei grandi “saggi di Grecia”; anzi il cristianesimo è volentieri, “ideologicamente” certo, rappresentato come nemico della filosofia. Ciò spiega in parte l’apparente contraddizione tra la politica bellicista anti-bizantina e il filo-ellenismo culturale degli Abbasidi. I quali, con il menzionato al-Ma’mun portano avanti un disegno di accentramento politico e insieme culturale-dogmatico, che vuole sottrarre alla comunità dei dottori della legge l’ultima parola in fatto di dogma a favore del califfo. A questo disegno diveniva funzionale promuovere la conoscenza e la discussione dei dogmi dei dottori attraverso la dialettica greca, anche per mettere in riga le pretese dell’establishment religioso di avere il monopolio in materia. Establishment che naturalmente fu quanto mai restio ad appoggiare per non dire apertamente ostile alla svolta accentratrice del califfo: memorabili sono le rivolte del popolino di Baghdad aizzato da dottori e predicatori sotto la regia di Ibn Hanbal. Il califfo al-Ma’mun adotterà, coerentemente col suo disegno accentratore e verrebbe da dire “papista”, una teologia ufficiale (la mu’tazilita), creerà un tribunale dell’inquisizione (mihna); al contempo -aspetto intimamente contraddittorio che forse avrebbe meritato qualche maggiore approfondimento- favoriva e promuoveva il libero dibattito teologico sulla base delle greche armi della dialettica, riservandosi “l’ultima parola”. Quel che i Gutas fa emergere con chiarezza è dunque la cornice politica e ideologica del “movimento” delle traduzioni che doveva immettere la linfa vitale dell’eredità greca nello stantio e ancor primitivo dibattito teologico dell’epoca. Le traduzioni dunque diventano uno snodo strategico della politica culturale del califfo. Queste avverranno dal greco in arabo, e talora con passaggi per lingue intermedie (pahlavico, siriaco). Ora, tutto questo appare all’A. come un vero e proprio “movimento” guidato dall’alto, con una ben individuabile regia politica, con una ideologia di cui s’è detto e un contesto di lotta ideologica, e in un ambiente sociale di riferimento costituito dalla società intellettuale di Baghdad e di altri centri minori dei secoli d’oro dell’età ‘abbaside’, in cui i nuovi fermenti dovevano seminare l’inquietudine tra i dottori tradizionalisti abituati all’idea che tutta la scienza era nelle Scritture.
A costo di qualche inevitabile brutale semplificazione o impoverente schematizzazione, pensiamo di avere dato alcune delle linee fondamentali del discorso del Gutas. Che ha il pregio di fare giustizia di alcuni luoghi comuni, come ad esempio quello secondo cui furono le traduzioni dal greco ad avviare una riflessione scientifica e filosofica nel mondo musulmano. Al contrario, secondo l’A. “fu lo sviluppo di una tradizione scientifica e filosofica araba che generò la richiesta su vasta scala di traduzioni dal greco (nonché dal siriaco e dal pahlavi); non furono le traduzioni a dar vita alla scienza e alla filosofia, come si dice di solito”. Così come l’altro luogo comune, quello di un ruolo sostanzialmente passivo di pura “conservazione” del lascito greco da parte della cultura araba e della successiva “trasmissione” al mondo latino medievale, non regge all’analisi condotta negli ultimi decenni su tante opere arabe e sulle modalità di produzione, sviluppo e fruizione del prodotto culturale nel mondo musulmano medievale. Il lavoro del Gutas fa ampiamente il punto sulla società araba del periodo considerato, e a ragione ne sottolinea la grande vivacità e creatività culturale.
Detto questo la tesi principale del Gutas non ci convince sino in fondo, per quanto, si diceva, il suo saggio appaia un esempio raffinato di ricerca storica, encomiabile per l’ampiezza di riferimenti a fonti e documenti, per l’argomentazione brillante e ben costruita, per la profondità di orizzonti ermeneutici. C’è sembrato in fondo, per andare al nocciolo della questione, che la sua tesi sia poco “economica”. E mi spiego. I territori conquistati dalle armate arabe nei primi cento anni dopo la morte di Maometto, dall’Egitto al Mediterraneo Orientale, da Gibilterra alla Valle dell’Indo, corrispondono com’è noto a bacini di civiltà antichissimi e che, soprattutto, ancora per molto tempo dopo la conquista musulmana conserveranno una loro autonoma individualità cultura, etnica, religiosa e persino linguistica. La accademia persiana di Gondeshapur, grande centro di studi medici e astrologici, era viva ancora fino a quando fu fondata Baghdad, che finirà per attrarre i suoi ingegni; così come saranno vivacissimi (anche dopo la fondazione di Baghdad) grandi centri di cultura persiana tradizionale come ad esempio Marw in Asia Centrale. La lingua e la religione mazdea non solo continueranno a prosperare per secoli, ma la maggiore letteratura (in lingua pahlavi) verrà prodotta proprio in epoca islamica tra il VIII e l’XI secolo. Non diversamente stanno le cose per il mondo cristiano-siriaco e greco; quest’ultimo è vero, dopo la grande figura di S. Giovanni Damasceno conosce un rapido declino. Ma non è così per quello cristiano-siriaco: il nestorianesimo prospererà ancora per secoli. I centri di studio legati a queste e altre civiltà religiose (la armena, la ebraica ad esempio) continueranno ad operare per qualche secolo, fianco a fianco, con i grandi centri di cultura arabo-islamica che, come si può intuire si svilupparono sempre di più e in ogni parte dell’ecumene musulmana a partire dall’epoca abbaside. Centri in cui -lo studio del Gutas ce lo documenta ad abundantiam- la presenza e la collaborazione come docenti, traduttori ecc. di cristiani nestoriani e ebrei, di zoroastriani e manichei fu una costante. Con l’andare del tempo avanzò un fenomeno che il Gutas certo conosce ma che sembra un po’ sottovalutare: l’arabizzazione massiccia di tutti i territori tra l’Egitto e la Mesopotamia. Anche là dove questo non avvenne, come nei territori iranici (ove il pahlavi evolve nel neo-persiano, ma non viene soppiantato dall’arabo), le élites colte sono comunque arabizzate o quantomeno bilingui; l’elite persiana alla corte dei primi califfi abbasidi era sicuramente ampiamente arabizzata. Ecco il punto, la persistenza delle antiche scuole e dei centri di cultura risalenti al periodo preislamico doveva fare i conti da un lato con l’affermarsi di nuovi centri e nuove scuole in cui l’arabo era omai la sola lingua “veicolare”, dall’altro con un pubblico colto sempre più arabizzato. L’arabo in epoca abbaside è oramai la lingua delle scienze per eccellenza, anche non religiose. Il rischio che il patrimonio di opere studiate per secoli in questi centri di origini preislamiche divenisse semplicemente muto e inaccessibile, dunque inutilizzabile, dovette essere sufficiente per innescare un movimento “spontaneo” di traduzione di tutto ciò che si poteva tradurre nella nuova e universale lingua di cultura: l’arabo. A questo movimento “spontaneo”, certamente contribuì in primis l’elite economica e politica, interessata a non perdere il patrimonio di conoscenze tecniche e scientifiche conservate in questi centri; e la corte califfale poté anche assumere in certi periodi, almeno fino all’850, e per scopi connessi con la lotta politico-ideologica, un ruolo propulsore cosciente e attivo, come ben documenta il Gutas. Ma, come egli stesso ammette, il “movimento delle traduzioni” in arabo, ossia nella nuova lingua ufficiale dell’impero arabo, ebbe inizio ben prima dell’avvento degli Abbasidi.
In sostanza, ci sembra, la parte più delicata e forse discutibile della tesi dell’A. sia rinvenibile nel ruolo centrale -nella genesi del movimento di traduzione- che egli attribuisce alla presunta assunzione da parte di califfi abbasidi della menzionata “ideologia imperiale sassanide”. In ogni epoca, la rapida decadenza e la progressiva sparizione di una lingua è stato un incentivo più che sufficiente a innescare un “movimento di traduzione” di tutto ciò che si stimava meritevole di essere salvato o ricordato. Tanto più in zone e territori dove esisteva una tradizione culturale -più esattamente diverse tradizioni culturali in varie lingue- di antico e consolidato prestigio, che, da un certo momento in poi, semplicemente continueranno a lavorare con un’altra lingua, la lingua dei vincitori. I persiani, i greci, i nestoriani di lingua siriaca che lavorarono per un paio di secoli come traduttori dalle rispettive lingue in arabo, ci documentano questo passaggio inevitabile dalle vecchie alla nuova cultura arabizzata e “universale” dell’ecumene musulmana. Una cultura che, a riprova, fornirà la propria lingua, l’arabo, anche ai grandi pensatori ebrei del medioevo spagnolo: Mosè Maimonide, Ibn Gabirol; per non parlare della letteratura araba cristiana, che nasce perché evidentemente gli stessi cristiani arabi di ogni osservanza da un certo momento in poi non potranno che passare all’arabo. Il “movimento di traduzione” ha forse questa più semplice, banale se si vuole, ma “economica” spiegazione.
Se si vuole cercarne una di ordine più ideologico, senza scomodare l’“ideologia imperiale sassanide”, si può ricordare un ben noto passo coranico in cui Allah dice: “Vi è stato dato il Corano e la Sapienza (hikma)”; un passo che andrebbe avvicinato a un celebre detto di Maometto, caro a tutti gli scienziati e gli gnostici dell’Islam: “Cerca la sapienza, anche se dovessi andare di qui fino in Cina!”. Si può naturalmente discutere sul valore della parola “sapienza” (hikma), che per molti dottori allude all’insegnamento pratico di Maometto, ovvero la sua condotta (sunna) esemplare. Ma in questa idea di una “sapienza” concessa da Dio agli uomini e che questi, però, devono andare affannosamente a cercarsi finanche in Cina, c’è abbastanza per spiegare, ideologicamente e più “economicamente”, la grande corsa alla traduzione che inizia -lo ricorda il Gutas- ben prima degli Abbasidi.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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Laura Balestra il 19 settembre 2010 alle 12:44 ha scritto:
Recensione da DIALEGESTHAI (http://mondodomani.org/dialegesthai/)
PENSIERO GRECO E CULTURA ARABA
di Dimitri Gutas
(Recensione a cura di Laura Balestra)
L’analisi di Gutas è tesa a determinare le cause storiche e sociali del movimento di traduzione dei testi della classicità ellenistica, dal greco all’arabo, sorto e promosso dalla dinastia ‘abbāside di Baghdad tra il 750 e il 950 d.C., movimento che si esaurirà in epoca Būyde, quando la scienza e la filosofia arabe divengono autonome e capaci di produrre composizioni originali in arabo senza più l’ausilio dei metodi e dei contenuti della cultura greca. L’avvicendamento dinastico tra Umayyadi e ‘Abbāsidi costituisce per l’autore il fondamento originante la vasta officina filologica che operò per oltre due secoli nella nuova capitale dell’impero. Il movimento di traduzione dal greco all’arabo si configurò come fenomeno sociale e politico complesso, non facilmente inquadrabile entro schemi e categorie universali. L’opera di Gutas bipartisce la trattazione in due sezioni: la prima intitolata Traduzione e impero, la seconda Traduzione e società. “In parte a causa dell’impero, tutte le culture sono coinvolte l’una con l’altra, nessuna è unica e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche.” In epigrafe al testo è posta questa citazione di Said, funzionale all’espressione relazionale che Gutas ravvisa tra potere e cultura nel mondo arabo.
Al tempo dei califfi Umayyadi, la cultura dominante era quella del cristianesimo greco-ortodosso della Costantinopoli imperiale, sostanzialmente ostile alle forme del sapere greco, considerato pagano da alcuni dei massimi esponenti dell’ortodossia costantinopolitana come Giovanni Damasceno, che non faceva certo mistero del suo disprezzo verso tutto ciò che poteva essere categorizzato sotto il nome di ‘ellenismo’. In un clima intellettuale di tal genere era impossibile concepire un qualunque movimento di traduzione dei testi secolari greci in arabo: i cristiani di lingua greca di Damasco, capitale del califfato Umayyade, rivolgevano le loro cure letterarie a generi compositivi quali l’omelia, le quaestiones, i racconti agiografici, perdendo volontariamente memoria di temi e stilemi tipici della letteratura greca precedente, considerata pagana o non-ortodossa secondo i dogmi propri della cristianità bizantina. Nell’organizzazione statale e in campo culturale gli Umayyadi si avvalsero delle strutture e dei funzionari bizantini acquisendo, dunque, da essi lo scarso interesse per la classicità. Difatti le attività di traduzione dal greco all’arabo in tale periodo, seppur non inesistenti, erano tuttavia rare, fortuite, non organizzate né volutamente pianificate. La salita al potere della dinastia ‘Abbāside e “il trasferimento del califfato da Damasco all’Iraq centrale – ossia da un territorio di lingua greca a un territorio di lingua non greca – ebbe la conseguenza paradossale di permettere la conservazione dell’eredità classica greca, che i bizantini altrimenti avrebbero estirpato” , e fu proprio con i primi califfi ‘abbāsidi che ebbe inizio un movimento intenzionale di traduzione. Il secondo califfo ‘abbāside al-Manşūr (754-775) fondò nel 762 la capitale del nuovo impero, Baghdad, la quale, nel corso dei due secoli di dominio della “dinastia benedetta”, divenne il principale centro di potere e cultura del mondo islamico. Ma in che modo questa “translatio imperii” potè considerarsi a fondamento del movimento di traduzione fiorito alla corte degli ‘Abbāsidi? In realtà esisteva già una tradizione politica e culturale sassanide che, precedentemente all’avvicendamento dinastico ‘abbāside, aveva autonomamente sviluppato un’attività di traduzione dal greco, le cui orme i nuovi dominatori ebbero modo di ricalcare. Ma il fenomeno di traduzione non si esaurisce certo in una semplicistica acquisizione di tal genere. Determinante fu la componente politica e ideologica imperiale diffusa dai primi califfi ‘abbāsidi, al- Manşūr e al-Mahdi. Giunti al potere a seguito di un’estenuante guerra civile, i nuovi califfi furono coinvolti nel difficile tentativo di pacificare le fazioni e le coalizioni avverse che avevano partecipato alla cosiddetta “rivoluzione ‘abbāside”. Tale operazione politica venne condotta “[…] diffondendo l’idea per cui la dinastia ‘abbāside, oltre ad essere discendente dal Profeta – e a soddisfare con ciò sia le esigenze dei musulmani sunniti che di quelli sciiti -, era al tempo stesso la dinastia che succedeva alle grandi dinastie imperiali antiche dell’Iraq e dell’Iran, dai babilonesi fino ai Sassanidi, i loro diretti predecessori.” Quale, dunque, il legame tra politica ‘abbāside e avvio del movimento di traduzione greco-arabo? Benchè il sovrano sotto il quale l’attività di traduzione raggiunse la massima fioritura fu al-Ma’mūn, due fonti storiche arabe riferiscono la munificenza del primo califfo, al-Manşūr, nel dedicarsi alle scienze, nel patrocinare traduzioni e nel possedere libri tradotti da lingue straniere in arabo. La pa/shj e)pisth/mhj de/spoina (pàses epistèmes dèspoina), l’astrologia , fu in questo periodo al centro delle traduzioni dei trattati di Teucro, Doroteo, Tolomeo, sotto al-Manşūr. Così come fiorenti furono gli studi condotti su discipline quali contabilità, topografia, matematica, geometria, alchimia, algebra, agricoltura, ottica, medicina, alcune delle quali ritenute necessarie all’educazione professionale dei segretari amministrativi, dei giuristi e degli ingegneri. La società ‘abbāside, sin dalla sua formazione, si presentava composita ed eterogenea, al suo interno coesistevano molti gruppi etnici appartenenti a molte religioni distinte e questo sincretismo culturale e religioso stabilì lo sviluppo, internamente al movimento di traduzione, di un interesse specifico nei confronti di alcune scienze, in primis l’arte dialettica, il ğadal. Risalirebbe al secondo califfo ‘abbāside, al-Mahdi, la commissione della traduzione dei Topici di Aristotele, opera i cui contenuti erano ritenuti funzionali alla necessità di risolvere e contrastare, attraverso l’arte dell’argomentare, le opposizioni ereticali, dottrinali e, più in generale, religiose che si originarono all’interno dell’impero ad opera dei gruppi manichei e marcioniti. Quando eccellere nella disputa d’argomento dottrinale divenne basilare a fini politici ecco che il movimento di traduzione trovava il proprio avvio, seppur circoscritto e settoriale. “Se nei dibattiti religiosi generati dalla politica ‘abbāside la traduzione dei Topici di Aristotele fu cercata per procurarsi una guida in arabo sul metodo della disputa, la traduzione di altri testi fu cercata, in seguito, per acquisire informazioni di contenuto da usare in questi dibattiti teologici”. Questa l’origine della traduzione della Fisica aristotelica. Esisteva dunque una forte interdipendenza tra vicende politiche e opera di traduzione dei testi greci in arabo, di quegli specifici testi che avessero avuto una utilità tale da fornire ai califfi gli strumenti dialettici e teologici per poter intervenire, a ragione, entro le dispute dottrinali dell’impero. Ma l’impulso alle traduzioni non recava solo motivazioni di ordine storico, bensì anche di ordine individuale. Non solo la politica o la religione, ma sovente le passioni e gli interessi personali dei singoli califfi o dei funzionari di corte contribuivano ad incentivare la produzione di versioni arabe di testi di vario argomento, permettendo la conservazione di opere e trattatelli come quello sulla falconeria, divertimento prediletto del califfo al-Mahdi. In breve tempo si incoraggiò e radicò un’attitudine specifica a ricercare al di fuori della tradizione araba informazioni su ogni questione. Mecenati e promotori del movimento di traduzione furono i califfi ‘abbāsidi e le loro famiglie, i cortigiani, i funzionari dell’amministrazione statale e militare, gli eruditi e gli scienziati, appartenenti a vari gruppi etnici e religiosi: musulmani e cristiani, popoli di lingua araba, persiana e siriaca. “Le traduzioni dei testi greci non cristiani in arabo furono effettuate sia a partire dagli originali greci sia da intermediari siriaci o persiani (in pahlavi)”. L’entourage dei traduttori comprendeva persiani convertiti all’Islam, cristiani di lingua aramaica o siriaca, giacobiti, nestoriani, evidentemente dei religiosi a cui i califfi commissionarono, inizialmente, dei lavori. Successivamente tradurre divenne per alcuni una vera e propria professione, molto richiesta, ambita e, soprattutto, altamente remunerata. Il salario mensile di un traduttore di professione si aggirava intorno ai 24000 dollari americani. Un esercito di traduttori professionisti dilagò nell’impero ‘abbāside. Sempre più esperti, con una conoscenza via via più dettagliata e specifica del greco, capaci di tradurre non solo ad verbum (letteralmente), ma anche creativamente, rielaborando e revisionando i testi, contaminando generi, metodi e contenuti diversi. Il capitolo forse più interessante del testo di Gutas e, allo stesso tempo, più significativo nell’ambito del rapporto tra politica e movimento di traduzione è quello relativo al califfato di al-Ma’mūn. Settimo califfo della dinastia abbaside, generale vittorioso salito al potere a seguito di una guerra civile fratricida, ad esso è comunemente attribuito il ruolo di iniziatore del movimento sistematico di traduzione dal greco all’arabo. In realtà, si è detto come già al-Manşūr avesse contribuito all’avvio della traduzione di alcuni testi di Aristotele, ma, si chiede Gutas, cosa potè suscitare l’impressione che si dovesse ad al-Ma’mūn l’adozione della traduzione come forma propagandistica della politica imperiale?
“Tradurre è sempre un’attività culturalmente creativa […]. Ogni cosa che ha a che fare con la traduzione ha una rilevanza e un significato per la cultura di destinazione che sono differenti da quelli della cultura da cui trae origine ciò che viene tradotto. La decisione di tradurre qualcosa e il momento in cui tradurla, la decisione di che cosa e come tradurre e la recezione del passo tradotto, sono tutte determinate dalla cultura di destinazione e quindi significative per quest’ultima.” . Cos’era significativo tradurre al tempo di al-Ma’mūn? Politicamente e religiosamente nell’816-17 l’Islam era assurto a religione universale dell’impero in virtù anche della vasta opera di proselitismo avviata nei sei califfati precedenti, ma “il califfo di Dio” , volle imporre “un’interpretazione assolutistica dell’Islam, con il califfo posto come arbitro ultimo del dogma. Ciò non aveva assolutamente precedenti nella storia islamica […]”. Simile in ciò agli imperatori romani e bizantini, al-Ma’mūn intervenne in campo politico, militare, religioso e fiscale stabilendo una forte centralizzazione dei poteri statali detenuti ed accentrati nell’unica figura del sovrano, manifestando la volontà di non subordinare la sua autorità ad alcuno, sottomettendo tutte le autorità particolari preesistenti alla propria. La religione divenne fondamento dell’autorità regia e quest’ultima, a sua volta, ne fu custode. La politica propagandistica del settimo califfo, varata secondo due direttive principali che lo vedevano unico e vero difensore dell’Islam, nonché giudice supremo della sua veritiera interpretazione, condusse da un lato alla dichiarazione di una guerra imperialistica contro gli infedeli (bizantini) al fine di sottrarre loro vasti territori per espandere il dominio della Dar al-Islam, dall’altro alla sottrazione volontaria di ogni autorità in materia religiosa agli studiosi di teologia per concentrarla nelle sue mani. Il movimento di traduzione fu nuovamente funzionale all’ideologia imperiale. Sebbene tale movimento non fosse novità ascrivibile al “califfo di Dio”, perché già attivo in precedenza, molte fonti e molti resoconti lo definivano, tuttavia, come propulsore di tale attività traduttiva, probabilmente in relazione all’aggressiva politica “filellenica” da lui condotta contro i Bizantini considerati campioni dell’oscurantismo immemore delle proprie radici classiche greche. Il Cristianesimo, considerato componente limitante nel circuito della cultura di Bisanzio, fu attaccato e deriso: come poteva essere concepibile per una civiltà di medici, astronomi, diplomatici, matematici, segretari e maestri, credere che un uomo che, al pari degli altri mortali, aveva mangiato, bevuto, urinato, defecato, sofferto fame e sete, che si era vestito e svestito, aumentato e diminuito di peso, poi crocifisso e ucciso fosse il Signore Creatore, Dio provvidente, eterno, increato? La civiltà di Bisanzio, erede di Atene e di Roma viveva nell’irrazionalità, secondo al-Ma’mūn, ed era colpevole di aver gettato nelle oscure segrete dell’oblio le tracce di quelle geniali menti greche che i musulmani stavano invece recuperando diffondendone l’antica voce attraverso le versioni arabe. Se i cristiani consideravano tedio Ippocrate e Galeno, al-Ma’mūn li riportava in auge, se i cristiani bizantini proibivano la filosofia e la medicina in preda a un terrore per la ragione, spesso contraria ai dogmi, al-Ma’mūn era il ragionevole e razionale difensore della verità, se i bizantini osteggiavano la lettura e la trasmissione di Aristotele, al-Ma’mūn lo sognava fornirgli direttive sull’uso del ra’y (giudizio personale) nella formulazione del discorso migliore e sulla definizione del bene secondo l’intelletto (‘aql). Il famoso sogno di Aristotele, riportato da Gutas in due versioni esegetiche, giustificava da un lato la politica razionalistica del califfo e spiegava dall’altro l’attività di traduzione volta ad affidare il corpus delle versioni dal greco all’autorità del sovrano e ad assicurare ad Aristotele il primato culturale e razionale su tutti gli altri pensatori antichi. Stabilendo in tal modo il primato assoluto dell’intelletto (‘aql) e del giudizio personale (ra’y) in tutti gli ambiti, compreso quello religioso – per cui filosofia e ragione erano superiori alla stessa šarī’a – al-Ma’mūn istituì il principio di universalità e sovranazionalità della Ragione. Ma quale rischio poteva annidarsi e celarsi in questo, per alcuni, spregiudicato uso di ra’y e ‘aql, scevro da qualsiasi implicazione e sorveglianza di tipo religioso e quale riflesso poteva riverberarsi sul movimento di traduzione dal greco all’arabo? Due le questioni da chiarire. Nel IX secolo non esisteva ancora una delineazione di pensiero religioso nell’Islam tale da potersi definire “ortodossia” e, come spiega Gutas a p.186 del testo, l’ideologia califfale stabiliva delle dottrine imposte dall’alto solo in via occasionale e non intenzionale, non esisteva ancora una fede cristallizzata su dogmi o posizioni ortodosse che redigesse un’ipotetica lista di opere proibite nella lettura e nella traduzione perché considerate “eretiche”. E non si può nemmeno chiamare in causa la mihna, l’inquisizione islamica, che, al tempo di al-Ma’mūn, fu strumento essenzialmente politico al servizio dell’ideologia califfale e non religioso, o solo in via secondaria o parallela religioso , dissimile in quest’aspetto, nella sua origine e nel suo sviluppo, dall’Inquisizione occidentale. L’accentramento assolutistico di al-Ma’mūn, mirato a far confluire ogni potere nelle mani del califfo e a debellare ogni intralcio o opposizione ipotizzabile come lesiva degli interessi dello Stato – e lo Stato era il califfo – si servì della mihna come arma per evitare la demolizione dell’architettura politica e ideologica teorizzata e, successivamente, realizzata dal “califfo di Dio”. Sottomettere popoli era facile, più arduo assoggettarne le menti. Il pensiero del dinasta sassanide Ardašir ibn-Babak mise in guardia il nuovo califfo dal potere terribile di una mente non schiava quanto il corpo, che pur soggiogata poteva costantemente essere attiva e tagliente nell’infliggere danno ai detentori del governo assoluto. In secondo luogo, nella Baghdad del IX secolo non esisteva dibattito o opposizione tra “fede” e “ragione” alla maniera occidentale. Questa la voce del più grande filosofo arabo dell’epoca, al-Kindī: “Non dobbiamo vergognarci di apprezzare la verità e di farla nostra da qualunque parte provenga, anche se viene da razze distanti e nazioni differenti da noi. Per chi cerca la verità, nulla è più importante della verità; la verità non dà discredito a nessuno, chi ne parla o la comunica non ne viene disprezzato. Nessuno è diminuito [nella sua condizione] dalla verità; piuttosto, la verità nobilita tutti”. Non sorprende, di certo, la posizione “illuminata” del filosofo che, attivo nella Bayt al-Hikma, la grande biblioteca di Baghad, aveva reso accessibile, con traduzioni e proprie opere originali, il pensiero greco al mondo arabo. Ma per comprendere come non solo le menti più illuminate dell’Islam ‘abbāside, ma anche quelle di matrice più radicalmente tradizionalista fossero aperte alla Verità, da qualunque parte essa provenisse, non osteggiando in tal modo il movimento di traduzione, né l’acquisizione araba delle scienze greche, Gutas cita anche le riflessioni dello studioso tradizionalista, contemporaneo di al-Kindī, Ibn-Qutayba: “[…] La via verso Allah non è unica, […] le strade verso di Lui sono molte e le porte del bene sono larghe… La conoscenza è il cammello errante del credente; gli fa del bene, dovunque egli la tragga: non si deve disprezzare la verità, anche se tu la sentissi dai politeisti […] le opportunità sono fugaci come le nuvole… Ibn-‘Abbās [lo zio del Profeta] disse: «Prendi la sapienza da chiunque tu la senta […]»”.