"Una vera e propria oasi di bellezza e di luce che emoziona tutti coloro che vi si accostano provenendo da ogni regione della terra": sono i Musei Vaticani, uno scrigno di inestimabili tesori artistici nello Stato più piccolo del mondo. A condurci in questa ideale visita tra le sterminate collezioni e gli splendidi edifici che le ospitano, frutto del mecenatismo di vari pontefici, è un accompagnatore d'eccezione: il cardinale Gianfranco Ravasi. La sua non vuole essere una guida minuziosa e sistematica o una trattazione storico-critica, ma la condivisione di "un itinerario narrativo personale" animato dallo stupore, arricchito di affascinanti suggestioni culturali e curiosi aneddoti. In queste sale, dove si incontrano "bellezza e verità, estetica e trascendenza, immagine e mistero, realtà e simbolo", confluiscono come in un immenso oceano innumerevoli fiumi. Dalle lontananze misteriose dell'arte egizia alle grandi sculture dell'antichità classica, come il Laocoonte, dai sarcofagi etruschi a quelli romani e paleocristiani, alle originali testimonianze di terre e civiltà remote, come un insolito crocifisso eschimese, una singolare statua precolombiana del "serpente piumato", il dio Quetzalcóatl, o una piroga cerimoniale di un'isola delle Salomone. Si arriva così al cuore delle raccolte, rappresentato dalla Pinacoteca Vaticana e da quella "sequenza di vere e proprie epifanie di arte e fede" che sono gli appartamenti papali e le cappelle.
PREMESSA
Inizierò con un antefatto ambientato nella città dove più a lungo ho vissuto, Milano. Lì per una ventina d'anni sono stato il direttore (tecnicamente il «Prefetto») della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, voluta dal cardinale Federico Borromeo, il celebre personaggio dei Promessi Sposi, cugino di san Carlo, un'istituzione inaugurata 1'8 dicembre 1609. Immaginiamo di essere al tramonto di una giornata qualsiasi, dopo che i visitatori sono defluiti e prima che sulle sale e sui dipinti esposti scenda il velo del silenzio e soprattutto scatti il sistema protettivo degli allarmi. In quello spazio di tempo limitato mi piaceva spesso avviarmi in solitudine alla ricerca di qualcuno dei quadri che più amavo e che erano anche tra i più importanti della pinacoteca: dal Musico di Leonardo al cartone della Scuola di Atene di Raffaello o alla Madonna del padiglione di Botticelli.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Immagini irrevocabili
C'era, però, una tela di modeste proporzioni (31 x 47 cm) che mi attirava ancor di più, non solo per l'autore che ai nostri giorni vive di una popolarità quasi mitica, Caravaggio, ma per il soggetto rappresentato, la Canestra di frutta. Tutti la conoscono per le infinite riproduzioni che ha ricevuto. Lo stesso cardinale Federico, nel codicillo successivamente allegato al testamento del 1607 nel quale assegnava l'opera in eredità all'Ambrosiana, la descriveva così: «In campo bianco è dipinto un Canestro di frutti parte ne' rami con le loro foglie, et parte spiccato da essi fra i quali vi sono due grappoli d'uva uno di bianca et l'altro di nera, fichi, mele, et altri di mano di Michele Agnolo da Caravaggio». Egli l'aveva talmente amata da sognare di scovarne un'altra simile da porre in parallelo, ovviamente invano.
Nell'isolamento di quelle sere, mentre sulla città scendeva il sudario dell'oscurità che attutiva ogni rumore, quella che poteva essere una delle prime «nature morte», si svelava in tutta la sua carica «metafisica»: nel turgore vitale dei frutti e nello splendore dei colori si insinuava già il tarlo della corruzione, espressa attraverso le foglie che avvizzivano e la mela che si bacava. Contemplato da pochi palmi di distanza, quel cesto di frutta si trasfigurava nella parabola della vita e della morte, la scena idealmente si animava e si imprimeva non solo negli occhi ma anche nell'anima. Sono quelle che un grande poeta, col quale ho avuto la fortuna di intessere un'amicizia, Mario Luzi, definiva «le immagini irrevocabili» in una sua lirica-testamento poco conosciuta:
Vorrei passare questa soglia, sostenuto da poche, sostanziali acquisizioni e dalle immagini irrevocabili per intensità e bellezza che sono rimaste come retaggio.
Un'oasi di 44 ettari
Vorrei adesso spostare l'obiettivo nell'altra città in cui ora vivo, Roma, anzi, in uno spazio molto particolare incastonato nella capitale d'Italia. È il più piccolo Stato sovrano che esista sulla faccia della terra, lo Stato della Città del Vaticano. Sono solo 44 ettari (0,44 kmq): il Principato di Monaco occupa 2,02 kmq e la Repubblica di San Marino, che sembra così minuscola, in realtà si estende per 61,16 kmq. Di questo mini-regno io sono uno dei poco più di 500 cittadini; anzi, sono uno dei 120 cardinali che eleggo
no il capo di questo Stato minimo che è, però, paradossalmente presente in tutto il mondo sotto l'espressione «Santa Sede», una presenza assicurata dalla Chiesa cattolica. Tutte le volte che varco quel confine attraverso uno dei quattro valichi aperti, rimango sempre impressionato per il saluto marziale che mi rivolgono quelle Guardie svizzere che sono lì dal 22 gennaio 1506, quando sul trono pontificio sedeva Giulio II, Giuliano della Rovere. Allora erano 150 giovani cattolici provenienti dal cantone svizzero di Uri. Ora fanno quasi parte del paesaggio di questo Stato col loro complesso abbigliamento multicolore che si dice ideato da Michelangelo.
Un paesaggio molto originale è, per altro, quello della Città del Vaticano, occupato com'è per l'80 per cento da monumenti storico-artistici e giardini, un caso unico al mondo, una vera e propria oasi di bellezza e di luce che emoziona tutti coloro che vi si accostano provenendo da ogni regione della terra. Quando dalle finestre del mio appartamento mi affaccio sul colonnato del Bernini, sulla basilica di San Pietro, sulla cupola di Michelangelo e sull'imponente ed elegante Palazzo Apostolico, soprattutto se nel cielo fa capolino anche la luna, l'emozione è sempre la stessa, uguale a quella vissuta per la prima volta negli stessi istanti da quei pellegrini o turisti che laggiù stanno scattando le loro foto ricordo.
Il vero vessillo di questo Stato non è tanto la sua bandiera bipartita gialla e bianca con le chiavi di san Pietro decussate, sormontate dal triregno, la tiara papale usata fino a Paolo VI. L'insegna fondamentale è, in realtà, quella della fede cattolica: qui infatti convergono le moltitudini per venerare la tomba di Pietro, «pietra» angolare della Chiesa secondo la promessa di Cristo (Matteo 16,18), e per incontrare e ascoltare il suo successore, il vescovo di Roma e papa della Chiesa universale. C'è, però, un altro segno che attira folle di credenti e di non credenti da tutto il pianeta ed è appunto l'arte, la bellezza, consapevoli o meno della paradossale ma sostanziale verità delle parole che Dostoevskij ha scritto nei Demoni (1873): «L'umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere ... Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui».
Ecco, allora, varcato il confine di questo Stato, presentarsi davanti al visitatore i Musei Vaticani, una denominazione nella quale significativo è proprio il plurale, come si scoprirà inoltrandosi in questi spazi mirabili e continuamente mutevoli. Nella settimana antecedente alla prima venuta delle Guardie svizzere a Roma, il 14 gennaio 1506, da un terreno agricolo di un colle situato tra il Colosseo e Santa Maria Maggiore, era affiorato l'impressionante gruppo marmoreo del Laocoonte che papa Giulio II aveva voluto acquisire subito e collocare nell'altura detta «Colle del Belvedere» in Vaticano. Per convenzione si pone questo atto a ideale pietra fondante o a seme generativo dei Musei Vaticani, che da allora sono cresciuti come un albero gigantesco i cui rami s'allargano fino a raggiungere la contemporaneità. O piuttosto essi sono simili a un corpo vivo che ininterrottamente respira, avanzando in potenza, abbellendosi, arricchendosi di nuove vesti, ma anche subendo ferite e amputazioni, come è accaduto in passato. Un corpo inserito in un paesaggio straordinario, fatto di edifici storici, accompagnato da biblioteche e archivi unici al mondo, immerso in parchi lussureggianti, collocato all'ombra di una basilica che ha il primato su tutte le altre della terra.
Nelle sale delle nove Muse
Ritorniamo per un momento alla scena milanese di apertura: essa ci permette di spiegare il senso di questo libro. Lo diciamo subito: questo scritto non vuole essere una guida per visitare l'orizzonte così vasto e complesso delle sterminate collezioni d'arte vaticane. Si pensi, tanto per fare un esempio, che i soli marmi e bronzi esposti sono numerati in 4416 soggetti; in uno soltanto di questi musei, il Pio-Clementino, le opere presentate tra sculture, rilievi, pitture e mosaici sono 1626! Negli Stati Uniti solo con questi materiali si riuscirebbe ad allestire una decina di musei... Le pagine che seguiranno non vogliono neppure essere un testo storico-critico: la bibliografia sui Musei Vaticani è immensa e suppone un palinsesto molto variegato di competenze. Qui, infatti, si attua in pienezza il significato del termine greco Mouseion, ossia luogo dedicato alle Muse e alle loro arti o discipline, come lo era il monte Elicona nella classicità ellenica.
Proprio nell'appena citato Museo Pio-Clementino si apre una sala simbolica dedicata a queste figlie mitologiche di Mnemosine e di Zeus, nove sorelle che incarnavano le arti e il pensiero in tutte le loro sfumature, come accadrà nelle varie attribuzioni che ciascuna di esse riceverà nella tradizione: dalla poesia epica di Calliope alla storia di Clio, dalla drammaturgia di Melpomene alla danza di Tersicore, dal canto sacro di Polimnia alla poesia amorosa di Erato, dalla commedia di Talia alla lirica monodica di Euterpe, fino alla celestiale Urania che presiedeva all'astronomia. Non per nulla il sovrano ellenistico Tolomeo II Filadelfo, che regnò in Egitto dal 285 al 246 a.C., aveva costituito ad Alessandria d'Egitto, oltre alla celebre biblioteca, una vera e propria università destinata a divenire successivamente la sede del neoplatonismo, denominandola appunto Mouseion, ampliata poi dall'imperatore romano Adriano (117-138 d.C.).
Ora, uno dei 73 libri che costituiscono la Bibbia, la Sapienza, composto proprio ad Alessandria attorno al 30 a.C., ci conserva forse l'elenco delle discipline là insegnate: «la struttura del mondo e la forza dei suoi elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, i cicli dell'anno e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle bestie selvatiche, la forza dei venti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e la proprietà delle radici, tutte le cose nascoste e quelle manifeste» (7,17-21). Il museo nell'accezione attuale si è, invece, prevalentemente ristretto attorno alle opere artistiche e già questo arco è così variegato che risulta quasi impossibile perlustrarlo criticamente in pienezza.
Ho, allora, pensato di proporre a chi mi vorrà seguire in questa casa delle Muse che sono i Musei Vaticani un'esperienza analoga a quella che vivevo in quelle sere davanti alla Canestra di Caravaggio. È, dunque, un itinerario narrativo personale - questa volta non solitario ma condotto insieme al lettore - durante il quale verranno scelte per ciascuna delle tante raccolte o dei vari spazi artistici che attraverseremo alcune «immagini irrevocabili per intensità e bellezza», come diceva Luzi.
Certo, io posso ora varcare le soglie delle varie sale quando è calato il silenzio e la folla delle migliaia di visitatori quotidiani è defluita. Eppure credo che, anche in mezzo a quella massa vociante, simile a un'intera città che si comprime ogni giorno in ambienti solenni e sontuosi, spesso distraendosi e affidandosi all'occhio artificiale delle macchine fotografiche o dei cellulari, sia possibile ritagliarsi un'oasi di isolamento interiore e sostare davanti ad alcune «immagini irrevocabili». Esse, più che sulla retina dell'occhio, si imprimono nella mente e nell'anima e permettono di vivere un'esperienza che non è solo di un generico estetismo, perché, come confessava quell'importante pittore francese che è Georges Braque nel suo scritto Il giorno e la notte (1952), «la scienza rassicura, l'arte invece è fatta per turbare». Un'esperienza esistenziale dalla quale non si esce indenni.
Un piccolo mondo di meraviglie
Presenterò, quindi, percorrendo tutti i Musei Vaticani, una selezione di opere seguendo una trama certamente personale ma credo anche rappresentativa del mondo di meraviglie che insieme attraverseremo. Se posso permettermi una comparazione per illustrare il genere letterario delle pagine che seguiranno, vorrei rimandare alle note che personaggi differenti per sensibilità, cultura e nazionalità compilavano nel Sette e Ottocento compiendo in Italia quello che veniva definito come il Grand o Petit Tour. Alcuni di loro sapevano anche dipingere e fissavano su tavole o schizzi ciò che contemplavano.
Pur vivendo ormai in un tempo in cui l'immagine dominante è quella fotografica, io mi affiderò invece alla descrizione in parole, consapevole che molte delle opere che farò sfilare (ma non tutte) fanno parte di una precedente memoria iconografica dei miei lettori, talora apparsa per la prima volta nei manuali scolastici o nei volumi d'arte. L'apice assoluto di questo genere letterario è stato raggiunto dal Viaggio in Italia di Goethe il quale, sotto le mentite spoglie di un commerciante e pittore di Lipsia, Jean Philippe Móller, parte il 3 settembre 1786 dalla sua città per superare le Alpi ed entrare nel nostro paese (l'opera venne pubblicata tra il 1816 e il 1829). Il genio dello scrittore di Francoforte riesce a «dipingere» a parole un incessante panorama di bellezze artistiche e naturali ma anche di vicende umane, colorandole col gusto del pittoresco, della quotidianità, del riso e delle lacrime. Ogni itinerario, d'altronde, comprende una ricerca e una scoperta, e chi viaggia - soprattutto all'interno di un museo - deve esercitare la virtù, sempre più rara ai nostri giorni così superficiali e distratti, dello stupore. Lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton sosteneva che «il mondo non perirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia».
L'urlo muto di Caravaggio
La capacità di contemplare, di ammirare e di meravigliarsi dovrebbe essere l'atteggiamento costante con cui procedere sia davanti a capolavori supremi come gli affreschi michelangioleschi della Sistina, sia di fronte a piccoli reperti marmorei che generano echi inattesi, come la Lady Gradiva che era venuta incontro allo scrittore tedesco Jensen e a Freud, il padre della psicanalisi. Una meraviglia che si alimenterà durante una lunga serie di tappe in almeno sette musei legati a nomi di papi eppure dedicati a capolavori e a opere varie dell'antichità classica greca e romana, con una sorprendente puntata anche nell'orizzonte egizio ed etrusco. Ci sarà, persino, la possibilità di varcare gli oceani e di approdare in Polinesia o nel Messico azteco e in tante altre regioni delle terre più remote attraverso lo sterminato patrimonio del Museo Etnologico.