Perché Dio permette il male e la sofferenza? Che cosa ci attende dopo la morte? Come conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica? Sono alcune delle tante domande, scomode e affascinanti al tempo stesso, che vengono spesso rivolte a monsignor Gianfranco Ravasi. Il celebre biblista ne ha raccolte centocinquanta, offrendo a ciascuno di questi interrogativi, che accompagnano il cammino di credenti e non credenti, una risposta chiara e argomentata. Affrontare con le corrette coordinate metodologiche i testi della tradizione giudaico-cristiana è la condizione imprescindibile per rispondere non solo alle domande più spinose e cruciali, ma anche a interrogativi insoliti e curiosi: Gesù ha mai riso? Sapeva leggere e scrivere? Quali lingue parlava? Monsignor Ravasi guida il lettore nel mistero della vita e della fede, e tra le innumerevoli sfumature di quel capolavoro irripetibile che è la Bibbia.
INTRODUZIONE
Il fiore delle domande, il frutto delle risposte
«Le risposte sono capaci di darle tutti, a fare le vere domande ci vuole un genio.» Oscar Wilde, raffinato scrittore inglese dell'Ottocento, ma anche fulminante «battutista», coglieva con questa frase un aspetto della conoscenza umana che quasi un secolo prima aveva già intuito un autore moralista francese, il Duca di Lévis, nella sua raccolta di Massime, precetti e riflessioni: «L'ingegno di un uomo si giudica meglio dalle sue domande che dalle sue risposte». Ebbene, questo che il lettore ha tra le mani è soprattutto un libro di domande, non so quanto geniali ma certamente significative, che mi sono state rivolte lungo un ampio arco di anni da persone che non ho quasi mai incontrato direttamente, ma con le quali ho dialogato attraverso i giornali o la televisione proprio accogliendo i loro interrogativi religiosi o filosofici.
L'ars interrogandi
Spesso si trattava di quesiti inattesi che io stesso non mi ero mai posto e che persino, in qualche caso, mi sorprendevano. Altre volte erano questioni ai miei occhi del tutto marginali e secondarie che invece venivano considerate da molti rilevanti. Non di rado era no domande così radicali, fondanti e assolute da far confessare a me stesso l'insufficienza della mia risposta nell'atto di stenderla. C'erano, certo, anche interpellanze polemiche o provocatorie, talora striate di malizia. Sono anch'esse il sale del confronto. Noi non avremmo l'unico pronunciamento esplicito «politico-economico» di Gesù di Nazaret, divenuto capitale nella storia sociale dell'Occidente, se non ci fosse stata quella domanda lanciata «per coglierlo in fallo nel discorso» da farisei ed erodiani: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» (Mc 12,13-17).
Ci sono stati anche non pochi interrogativi retorici, e non tanto perché la risposta fosse ovvia, quanto piuttosto perché chi scriveva cercava solo una conferma che collimasse con la sua idea, facendo quindi sospettare della sostanziale inutilità della risposta stessa. A questo proposito — sia pure in chiave spirituale — vale ]'altra bella «battuta» di un collega novecentesco di Wilde, Clive Staples Lewis, morto nel 1963: «Spesso diciamo che Dio non risponde alle nostre domande; in realtà siamo noi che non ascoltiamo le sue risposte». Infine, nello spettro così variegato dei miei interlocutori si intravedeva talora una punta di sarcasmo che cercava di smitizzare la stessa domanda, forse per evitare di rifletterci seriamente e di scoprire elementi che costringessero a cambiare concezioni o scelte. È un po' quello che era accaduto ai discepoli di Cristo dopo che egli, spazzando via i sogni di un messianismo trionfale, aveva annunciato di andar incontro a un arresto, a un processo e a una fine ingloriosa: «Essi non capivano queste parole che restavano per loro così misteriose da non riuscire a coglierne il senso. Avevano, perciò, timore di interrogarlo su questo argomento» (Lc 9,44-45).
È, allora, giusto — sia pure in modo molto semplificato — interrogarci sull'interrogazione, per abbozzare una piccola grammatica o teoria della domanda, nella consapevolezza che essa è l'anima del dialogo e, quindi, della convivenza umana e sociale. Si scopre, così, che esiste una vera e propria ars interrogandi che conferma la sostanziale validità dell'asserto di Wilde. Già lo stesso lessico nelle varie lingue mostra le diverse iridescenze del tema: in italiano, ad esempio, domandare, chiedere, consultare, interpellare, postulare, indagare, cercare, scrutare e così via, non si coprono l'un l'altro e non sono sinonimi pieni tra loro. Suggestiva, ad esempio, era la distinzione latina, che imparavamo sui banchi di scuola, tra quaerere, «domandare per sapere», e petere, «chiedere per avere».
Certo è che alla radice della domanda sta la ricerca di senso che è strutturale allo stesso esistere umano, come diceva il celebre protagonista dell'Apologia di Socrate di Platone: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta». È proprio per questo che il bambino è implacabile coi suoi «Perché?». In lui pulsa allo stato puro e non e ancora sterilizzato — come accade invece all'adulto superficiale disincantato o deluso — il desiderio di sapere, l'ansia di capire, la curiosità della scoperta. Tutte le domande serie partecipano di questa esigenza radicale e in qualche modo esprimono l'interrogazione di fondo sul senso ultimo dell'esistenza, sulle scelte decisive, sui valori da ricercare. Senza il fiore delle domande, che sbocciano come tanti petali, non si ha poi il frutto (non sempre automatico e sicuro) delle risposte, che indicano una strada o una meta nell'itinerario della vita.
Proprio per questo la domanda è l'anima della religione, non solo perché la preghiera è supplica, richiesta, invocazione di aiuto di rivelazione: si pensi ai Salmi biblici o alla prassi arcaica dell'interrogazione oracolare della divinità, anche nel caso di richieste molto concrete, come una guerra da intraprendere (1 Sam 14,37) o l'esito di una malattia (2 Re 8,8). C'è un'altra e più profonda motivazione nella domanda religiosa ed è quella di sondare il mistero di Dio, la sua trascendenza e «incomprensibilità». Straordinario, a questo riguardo, è il libro biblico di Giobbe, che è un'ideale ininterrotta interrogazione lanciata verso un cielo apparentemente muto: «Interrogami pure» dice Giobbe al Signore «e io risponderò, oppure domanderò io e tu ribatterai» (13,22). Alla fine Dio spezza il suo silenzio e ironicamente interpella così il suo interlocutore: «Se sei un uomo valoroso, cingiti i fianchi, io ti interrogherò e tu mi istruirai!» (38,3). E l'approdo sorprendente sarà appunto in un imponente discorso epifanico divino, presente nei capitoli 38 e 39 del libro e paradossalmente costruito su una sequenza di domande che il Signore rivolge a Giobbe e che in sé custodiscono in nuce la risposta attesa.
È curioso questo ricorso all'interrogativo per formulare una soluzione. Certo, in sé può anche essere un metodo per esaltare l'insondabilità del mistero o almeno la sua inesauribilità. Si è soliti dire che un ebreo risponde a una domanda opponendo un'altra domanda. Attraverso la via dell'interrogazione si celebra però la dinamicità della ricerca religiosa per cui, come dice il Salmista, «nella luce si vede altra luce» (36,10), in un crescendo che conosce tappe di rivelazione acquisita, ma spinge anche a un ulteriore e insonne procedere in avanti. Un po' come accade in amore, ove la conquista è sempre «in-finita» perché infinita è l'esperienza e infinito è l'oggetto. Il Cantico dei Cantici, il poema biblico dell'amore, si conclude non con l'abbraccio, ma con un'ulteriore corsa: «Fuggi, amato mio, simile a gazzella o a cerbiatto, sopra i monti dei balsami!» (8,14).
Talvolta, però, la domanda rivolta a Dio ricade su chi la lancia verso l'alto. Resta, così, come un artiglio — richiamato in qualche modo dal segno grafico occidentale del punto interrogativo — che lacera carne e anima. È il caso tipico delle domande che si levano dai sofferenti e che hanno il loro modello in questo avvio del Salmo 13: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nell'anima mia addenserò pensieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno? Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?». Sono le domande della sofferenza, del male di vivere, della desolazione e della disperazione che spesso si raggrumano nel semplice e lacerante «Perché?», parallelo al «Fino a quando?», reiterato quattro volte dal Salmista. L'interrogazione può, dunque, avere connotati esistenziali forti e può allargarsi sino ai fondamenti della propria identità. Significativa, ad esempio, è la domanda che Cristo lascia serpeggiare tra i suoi seguaci: «Ma voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Un quesito analogo a quello che ciascuno può rivolgere a se stesso — «Ma tu chi sei?» — nell'intimità esclusiva della propria coscienza. Sono questi, gli interrogativi che possono scompigliare la vita, o spettinare l'ordinata banalità quotidiana, o sommuovere il quieto vivere delle abitudini.
A epilogo della riflessione sul valore alto della domanda, è necessario aggiungere una considerazione che riguarda tutte le scienze, sia tecniche sia umanistiche. È ciò che spiega in modo nitido un altro scrittore, il romanziere francese Honoré de Balzac, nella sua opera La pelle di zigrino (1831): «La chiave di tutte le scienze è indiscutibilmente il punto di domanda. Dobbiamo la maggior parte delle grandi scoperte al Come? E la saggezza nella vita consiste forse nel chiedersi, a qualunque proposito, Perché?».
L'accrescimento del sapere si fonda su una continua interrogazione alla quale subentra una risposta che contiene, a sua volta, la possibilità di un'altra domanda, ed è su questa piramide altissima che si riesce a contemplare spazi sempre più vasti della realtà. È significativo che la stessa tradizione religiosa di Israele si fondi su un continuo «interrogarsi-rispondere» delle generazioni, come accade nella celebrazione della Pasqua: «Quando verranno i vostri figli vi interrogheranno: Che significato ha per voi questo rito?, voi direte loro...» (Es 12,26-27). E la risposta è, certo, commemorativa di un passato, ma è anche la giustificazione di un presente di libertà e l'apertura di uno scenario futuro, verso la piena liberazione messianica. È quello che in ebraico si chiama zikkarón, «memoriale», nel quale il figlio interroga il padre per «ricordare i giorni del tempo antico e meditare gli anni lontani» (Dt 32,7), ma soprattutto per raccogliere un testimone che lo condurrà verso un nuovo orizzonte di comprensione, di speranza e di salvezza.
L'ars respondendi
«L'arte di interrogare non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna già aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa.» Questa acuta osservazione di Jean-Jacques Rousseau nella sua Nuova Eloisa (1761) riassume il primo movimento della nostra riflessione sull'ars interrogandi, un esercizio della mente e della vita assolutamente necessario per crescere intellettualmente e spiritualmente. Ora, però, dobbiamo scendere anche lungo l'altro versante del dialogo: alla domanda deve succedere la risposta. Anzi, come sopra facevamo sospettare, spesso già nell'interrogativo si cela il germe della soluzione. Franz Kafka nei suoi Diari, pubblicati postumi, giungeva al punto di affermare che «le domande che non si rispondono da sé nel nascere non avranno una risposta».
È un po' quello che i nostri maestri ci suggerivano quando ci invitavano, prima di metterci a scrivere il compito d'esame, a leggere accuratamente il titolo del tema o la formulazione del problema o l'enunciato della tesi da dimostrare. Kafka, però, faceva anche intuire che ci sono domande senza risposta: esse, infatti, ci rivelano il nostro limite creaturale, sono una sferzata che fustiga l'arroganza dell'onniscienza o dell'hybris, cioè della sfida all'arbitrio supremo nel decidere bene e male, vero e falso, giusto e ingiusto secondo risposte dettate da convenienza o da mera vanità e superficialità. Tuttavia, c'è un'altra assenza di risposta che ha una genesi più immediata. «Guardai» dice il profeta Isaia «ma non c'era nessuno, tra costoro proprio nessuno capace di consigliare, nessuno da interrogare per avere una risposta» (41,28).
La fine dei maestri, come la cosiddetta «morte del padre» e l'estinguersi delle ideologie, ha introdotto nella società contemporanea l'orrore per le risposte nette e definite, lo sberleffo per la certezza, la passione per il relativo. «La verità, qualunque essa sia, non vi farà liberi» affermava la filosofa contemporanea Sandra Harding, ribaltando il celebre detto di Gesù nel Vangelo di Giovanni (8,32). In questa prospettiva non ci sono risposte «vere» ma probabili e, quindi, le domande fondamentali vengono esorcizzate, evitate e persino disprezzate proprio perché esigono repliche basate sulle categorie di un pensiero forte e sostanziale.
C'è, però, anche una più modesta assenza di risposta: essa nasce dall'aumento esponenziale delle persone sgarbate e superficiali che negano ogni approccio serio, che si tuffano nell'ottundimento dei luoghi comuni e che scelgono il rigetto di tutto ciò che inquieta la calma piatta della loro coscienza e della loro mente.
«L'uomo sapiente sa quel che dice, mentre lo stupido dice quel che sa» ironizza un aforisma giudaico. Con questa consapevolezza, che è anche certezza dei propri limiti, la persona saggia offre le risposte che conosce in modo puntuale e completo, essenziale e documentato. Emblematica è la figura del re Salomone che alla regina di Saba «rispose a tutto quanto gli chiedeva; non ci fu parola o realtà tanto nascosta che Salomone non riuscisse a spiegarle» (2 Cr 9,2). Talvolta, però, ci può essere anche la giusta negazione di una risposta, e non tanto per il riconoscimento del limite della nostra sapienza e conoscenza. È interessante notare che nel nostro ordinamento giudiziario esiste «la facoltà di non rispondere». Gesù stesso si avvale di tale facoltà davanti al tribunale del Sinedrio che lo interroga: «Anche se vi rispondo, non mi crederete e, se vi dovessi interrogare io, non mi rispondereste» (Lc 22,67-68).
C'è un silenzio da opporre allo stupido: «Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non divenire anche tu simile a lui» (Prv 26,4), anche se subito dopo lo stesso autore sapiente di Israele ribadisce la necessità della risposta in altri casi o contesti: «Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza, perché egli non si creda saggio» (26,5). Così, Gesù — che pure aveva replicato a chi lo voleva «cogliere in fallo», come sopra si è visto — oppone un gelido silenzio non solo al tribunale giudaico («egli taceva e non rispondeva nulla», Mc 14,61) ma anche a Pilato, stando almeno all'evangelista Marco che, a differenza di Giovanni (il quale, nei vv. 18,33-38 del suo Vangelo, riferisce invece una più articolata risposta di Gesù), annota: «Pilato gli domandò: Tu sei il re dei Giudei? Ed egli rispose: Tu lo dici! I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo: Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano! Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito» (15,2-5). La stessa scena muta si ripete di fronte al volgare e banale re Erode Antipa davanti al quale Cristo è trascinato: «Lo interrogò facendogli molte domande, ma Gesù non rispose nulla» (Lc 23,9).
Possiamo, infine, notare che ci dev'essere un certo stile nel rispondere: chiarezza, essenzialità, rigore. Lo ricordava già un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide, in una sua lezione rivolta a un ideale discepolo: «Parla, o giovane, se c'è bisogno di te, non più di due volte se sei interrogato. Compendia il tuo discorso: molte cose in poche parole» (32,7-8). Ha origine da qui il lapidario motto popolare latino Intelligenti pauca, divenuto proverbiale anche nell'italiano «A buon intenditore poche parole». La brevità, allora, sarà anche la costante delle nostre risposte, affidate a un profilo sintetico della questione più che a un approfondimento sistematico, che pure è legittimo ma in altri contesti e secondo altri generi letterari (si pensi solo a quei capolavori supremi che sono i Dialoghi di Platone). Gli antichi Latini erano convinti che Dictum sapienti sat est, cioè che «Al sapiente una sola parola basta» (così Plauto nel suo Persa, v. 729 e nel Truculentus, v. 644, e anche Terenzio nel Phormio, v. 541). Similmente san Colombano (540 circa-615) esortava: Cum sapiente loquens perpaucis utere verbis (Carmen monostichum, v. 46). Sì, dialogando con chi è intelligente si devono usare poche parole. E la persona intelligente capirà che, anche nelle nostre risposte, esistono ampi spazi di ulteriore approfondimento personale.
«E non cessiamo di interrogarci ancora e ancora»
Eccoci ora davanti alle domande dei nostri lettori, domande di natura teologica o, più genericamente, religiosa e morale. Certo, le risposte sono segnate da una prospettiva chiara: è quella del cristianesimo con le sue radici ebraiche, che getta luce su interrogativi non sempre esclusivi di questa fede, ma spesso condivisi da altri Credo, anche se talora aperti ad approdi diversi. Sono non di rado domande universali, che attanagliano il cuore dell'uomo e della donna in quanto tali e che hanno ricevuto risposte anche in altre sedi, secondo prospettive di natura puramente razionale o filosofica. Sicuro è che le nostre risposte, proprio perché ancorate al cristianesimo e a quel «grande codice» della nostra cultura occidentale che è la Bibbia, non condividono il pessimismo che esprimeva il celebre scrittore tedesco dell'Ottocento Heinrich Heine nel suo Lazzaro: «E non cessiamo di interrogarci / ancora e ancora, / finché una manciata di terra / ci chiude la bocca... / Ma questa è una risposta?».
Noi guarderemo — almeno per quanto concerne la risposta finale e definitiva — oltre la pala del becchino e il silenzio soffocante della morte, consapevoli però che è necessario «non cessare di interrogarci ancora e ancora» sul vivere e sul morire. Vorremmo, allora, porre a suggello di questa lunga premessa, prima di intraprendere il nostro itinerario all'interno della piccola foresta di domande e risposte che stanno davanti a noi nelle pagine che seguiranno.
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Ing. Lorenzo Benvenuti il 1 novembre 2014 alle 02:12 ha scritto:
Un bel libro che, partendo da domande puntuali, affronta temi di ampio respiro, in modo chiaro ed accattivante. I riferimenti alla Scrittura ancorano tutte le risposte, mostrando sempre l'intenzione dell'autore di tener viva e presente la Parola di Dio ad ogni nostra questione.