Cristiani e musulmani in dialogo
-Storia - Teologia - Spiritualità
EAN 9788801057478
Il libro si colloca tra le tante voci che oggi, recependo le sollecitazioni del Magistero ecclesiale, esortano e stimolano al dialogo tra cristiani e musulmani.
Un dialogo interreligioso, innanzitutto, una decisa consapevolezza e certezza che per dialogare bisogna conoscersi, confrontarsi, aprire le menti e i cuori per raggiungere insieme traguardi degni della dimensione umana e spirituale delle comunità alle quali si appartiene. Dialogo che però esige un presupposto indilazionabile: l’adeguata conoscenza dei rispettivi patrimoni culturali nelle loro specificità e peculiarità.
La trattazione si sviluppa su due crinali: una parte espositiva e una parte nella quale prevalgono criteri di valutazione e di giudizio. Nella prima si sviluppa un percorso di illustrazione dei tratti salienti che caratterizzano l’islàm sin dalle sue origini, dando senso al sottotitolo, con il quale si annuncia che si intendono affrontare anche le problematiche strettamente connesse con la storia, con la teologia e con la spiritualità. Ma a mano a mano che ci si inoltra nella lettura, si constata che non si tratta di due ambiti distinti bensì di una unica narrazione dentro la quale le tre categorie del sottotitolo si intersecano con giudizi e altre istanze di valutazione per lo più di stampo filosofico-dottrinale di matrice occidentale o per lo meno non autenticamente islamica. Il che rende, a sua volta, alquanto acritiche alcune affermazioni di principio che emergono qua e là nel testo.
Pur essendo accuratamente articolata, l’esposizione dei concetti gioca su due fronti tra i quali è a volte difficile identificare una linea di demarcazione. Si ha per così dire l’impressione che si stia parlando dell’islàm soverchiati da istanze culturali ad esso estranee, una sorta di razionalizzazione e concettualizzazione di una fenomenologia religiosa che ha un suo specifico lessico e, soprattutto, una sua singolare visione della storia pervasa da istanze teofaniche che la caratterizzano. In una simile impostazione di fondo, finiscono con il prevalere categorie e spinte più del pensiero e delle istanze cristiane degli Autori che non una più pertinente registrazione delle attese che animano il comune sentire della comunità musulmana. Lo si percepisce dall’insistenza con la quale si martella sulla “religione del Profeta”. Il che potrebbe, di fatto, costituire un problema di comprensione oggettiva non tanto del fenomeno “islàm” in sé, suscettibile di molteplici equivoci e letture, quanto di quella che è essenzialmente la coscienza che del loro Libro hanno i musulmani sia di origine araba sia divenuti tali in seguito a diversi eventi storici di conquista e di islamizzazione. Per la ummah, infatti, non c’è primariamente “la religione del profeta”, bensì “la religione di Dio”. Del resto non si può nemmeno asserire che “il termine islàm stia a significare la religione naturale, che è già praticata da Abramo in quanto adoratore del Dio unico”. Né la religione di Abramo né quella di qualsiasi musulmano è o può essere considerata “una religione naturale”. Un punto sul quale gli Autori non convincono del tutto è, in questa parte, la scarsa attenzione per i significati intrinseci della terminologia coranica, in particolare, e di quella che ricorre nei vari Commenti al Corano e nelle diverse testimonianze che conferiscono valore di consenso e di condivisione della sunnah, o tradizioni di detti e opere attribuiti a Mu?ammad.
In tale ottica ci si rammarica che si svolga una semplificazione delle regole essenziali della lingua araba non sempre lucida e appropriata. il verbo shahida non significa “osservare”, bensì “testimoniare, professare”. Terminologia impropria si riscontra altresì nell’espressione “il termine islâm significa “sottomesso”, o il Libro è “la matrice cosmica, celeste, di qualsiasi altro libro o testo sacro”. La umm al-kit?b non è “la matrice della scrittura”, ma la matrice della rivelazione progressiva e definitiva che si è fatta Libro o Corano. Se proprio si vuole ricorrere al termine “scrittura”, andrebbe specificato che si tratta delle sacre Scritture monoteistiche giudaica, cristiana e musulmana che, inglobate nella loro presunta e originaria rivelazione, sono superate e sostituite. Cosa ci autorizzerebbe ad affermare che il linguaggio del Corano è “passionale, poco metafisico, molto esistenzialista” se poi si puntualizza che ciò non può essere condiviso da chi considera il Corano “una dettatura soprannaturale da parte di Dio”, asserzione, questa, che nessun musulmano condividerebbe? In nessuna parte si dice che “Dio detta o ha dettato” il Corano! Perché hayât significherebbe “rinascita” e non semplicemente “vita”?
La succinta analisi dei valori linguistici si esterna qua e là con una difettosa traslitterazione, che si dovrebbe evitare se si ha la chiara convinzione che, come già detto, la lingua è funzionale alla comprensione dei concetti. Sorprende perciò trovare i termini dhamma, ua, ia, tanuin, i’jâz, borhan, rak’a, ra’ka, Šu’ayb, hayât, arkan, jihad, zakat, Yasîd II, per Yazîd II, Ramadan, ijmaa, Id alfitr, nikàh, ecc. Per la modificazione di un grafema, inoltre, non ci sono soltanto suffissi e prefissi ma anche infissi, o aggiunte di altre lettere nel corpo delle tre radicali, come è il caso delle forme verbali derivate, ad esempio.
In che senso il Corano nella sua forma attuale sarebbe lungo circa quattro quinti del Nuovo Testamento? Quali sarebbero “le sure raccolte da Maometto e non assolutamente autentiche” rispetto a quelle che effettivamente costituiscono il Corano come è oggi?
Dicevo che a fronte di un’esposizione qua e là approssimativa delle realtà proprie del mondo islamico reale, traluce una pregiudiziale attribuzione di categorie mentali e filosofiche e antropologiche della tradizione occidentale. Lo si può notare a p. 15 dove si afferma: «Ed è proprio il ritmo veloce che a volte riduce la realtà o un evento alla sua stessa concretezza e nudità reale. Così, nel linguaggio coranico, le realtà spazio-temporali ricevono una collocazione circolare, meta-storica. Tutto è orientato in senso protologico o in senso apocalittico».
L’efficace e auspicabile momento di un dialogo interreligioso o meramente culturale è a parer mio compromesso da una esposizione non del tutto oggettiva dei valori fondativi dell’islàm. Sulla base di quale comprensione testuale si potrebbe asserire che alla luce di sura 56,77 “il Corano sarebbe un Libro che toccare non possono neanche i puri?”
Come si potrebbe dire crudamente a un musulmano che il Corano «è la rivelazione di Dio a Maometto, la diretta ed esclusiva Parola divina comunicata attraverso la mediazione dell’angelo Gabriele» e subito dopo asserire che «la rivelazione coranica è radicata in un’esperienza soggettiva del Profeta che si sente afferrato da Dio. Il contenuto del Corano è comunicato a Maometto in forma diretta e verbale: non vige neanche la categoria biblica dell’ispirazione»? Quali sono le 13 volte in cui Gesù è presentato con il nome Gesù Cristo? Che relazione con la fede islamica avrebbe l’asserzione che “Gesù morì in modo naturale e fu chiamato da Dio a sé”? Cosa si intende sottolineare là dove si asserisce che, stando a sura LXXXVII,19, “Abramo ha un solo libro sacro” se il testo coranico dice semplicemente “tutto ciò è contenuto negli antichi fogli, i fogli di Abramo e di Mosè”?
L’espressione “sigillo dei profeti” è presente solo in sura XXXIII,40 e non anche in sura LXI,6, come è detto a p. 41.
Molto più interessante e corretto è il capitolo II, dove le tematiche del dialogo entrano nel vivo dei Documenti del Magistero e delle diverse Chiese Orientali o comunque a diretto contatto con la maggioranza della popolazione musulmana. Buone le analisi su con chi dialogare, essere coscienti del tipo di dialogo che si deve e si vuole instaurare, come agire per la sua promozione, dove cogliere alcuni segni positivi della sua attuazione nonostante le ombre e le sfide che inevitabilmente comporta nella frammentazione del mosaico musulmano e nelle non totali aperture di parte della Chiesa che rifiuta di essere dialogante. Ma se s’insiste nel sottolineare che di difficile e insormontabile approccio sono anche alcune istituzioni comunitarie e sociali della compagine islamica, in modo particolare il complesso istituto del matrimonio, che non contempla indissolubilità, prevede ripudio, divorzio, poligamia e mal digerisce una qualsiasi forma di pianificazione familiare, quale tipo di dialogo si potrebbe instaurare in siffatto ambito tra un cristiano e un musulmano?
Suggestive e degne di attenzione sono a loro volta le pagine che gli Autori dedicano al mondo della mistica musulmana, dove l’interiorizzazione dell’amore per Dio travalica il caduco, per disperdere e frammentare gli orizzonti del tempo e dello spazio nell’infinitudine della contemplazione e della piena fruizione del volto e del cuore di Dio, come tanti mistici della tradizione della Chiesa hanno a loro volta dimostrato. In questa sezione dedicata alla spiritualità che l’islàm potrebbe essere capace di promuovere grazie all’esaltazione e sublimazione che del medesimo hanno realizzato i ??f?, viene dato ampio rilievo, come di ragione, alla figura di Cristo come possibile mediatore in un più sostenuto dialogo interreligioso tra musulmani e cristiani, favorendo “uno scambio osmotico tra Vangelo e Corano, sufismo e mistica cristiana”. Un martirio di desiderio, in fondo, che per i cristiani può divenire martirio di sangue, come dimostrano non pochi degli eventi che si stanno consumando nell’irragionevole follia religiosa, e forse non soltanto tale, dei militanti di ISIS.
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2018
(http://www.pul.it)
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stefano rota il 1 settembre 2018 alle 17:04 ha scritto:
oggi ilo confronto ed il dialogo sono sempre più minati dalle paure che ciascuno ha dell'altro, dalle notizie che vengono diffuse dai mass-media, dagli avvenimenti catastrofici provocati principalmente dagli attentati terroristici. Bisogna recuperare il dialogo per poter diffondere la pace.