In mezzo allo stress che ci travolge, i rituali conferiscono chiarezza e ordine, profondità e colore alla nostra vita, rendendo anche più profonde le relazioni con gli altri. Grün descrive i rituali più belli che portano alla quiete interiore, al senso più profondo dell'esistenza. Per sapersi fermare e per trovare una nuova voglia di vivere.
INTRODUZIONE
Da alcuni anni si è risvegliato un nuovo bisogno di rituali. Non si tratta soltanto di rituali religiosi che vengono celebrati insieme nelle funzioni liturgiche e che oggi spesso sono anche strutturati in maniera più consapevole. Si tratta in misura crescente anche di rituali personali, che danno un’impronta alla quotidianità, e di rituali che segnano la vita in una famiglia, in un’azienda e nella società. Nelle grandi manifestazioni come i mondiali di calcio o le Olimpiadi si praticano rituali comuni. L’assistere a una gara ottiene così una sua qualità particolare ed è molto di più di una semplice presenza passiva. I rituali nelle grandi manifestazioni, anche nel mondo della musica, della cultura pop e dello sport, esprimono il bisogno degli esseri umani di andare oltre questo mondo e di aprirlo a una trascendenza che spesso si intuisce e in cui si crede in maniera vaga. Sono forme di una religiosità moderna nascosta.
Negli ultimi anni anche la scienza si è occupata in maniera più intensa e sotto nuovi aspetti del tema dei ‘rituali’. Hanno studiato i rituali la psicologia, la sociologia, la teologia e la scienza delle religioni. Il sociologo Karl Gabriel li descrive, in una definizione che abbraccia tutti questi approcci scientifici, come «azioni stilizzate e ripetibili nei punti di passaggio e di frattura tipici della quotidianità moderna».
Ci sono rituali personali ed estremamente individuali: nei momenti di passaggio del giorno e della notte, da un giorno all’altro e da un anno all’altro. E ci sono tipici rituali di passaggio di cui parla la scienza delle religioni e che sono noti in tutte le culture: per la nascita e per la morte di una persona, per il diventare adulti, a metà della vita e nel passaggio alla vecchiaia.
In questo libro non desidero occuparmi della discussione scientifica sui rituali. Mi sono sufficienti alcune immagini che descrivono l’essenza dei rituali. Alcuni mettono in collegamento le parole ‘rito’ e ‘rituale’ anche con la parola greca arithmos, che significa ‘numero’. Un rituale è allora qualcosa che è stato messo in conto, che dà una struttura. La radice dell’indiano antico rtah, a cui la parola è collegata dal punto di vista etimologico, significa ‘adeguato, giusto’. I rituali, quindi, realizzano qualcosa di adeguato all’essere umano e al suo ritmo di vita, qualcosa di giusto e corretto per lui. Ma, meglio che con una definizione, l’essenza dei rituali ci è mostrata da alcune immagini o semplicemente dagli approcci che descrivono un’esperienza.
I rituali spalancano il cielo sopra la nostra esistenza. Sono qualcosa di più di abitudini quotidiane e più di un semplice comportamento di routine consolidato. Per la loro origine hanno sempre una radice religiosa. Vogliono spalancare il cielo sopra la nostra esistenza. Mostrano che tutta la nostra vita si svolge al cospetto di Dio e che il nostro struggimento più profondo mira ad andare oltre questo mondo, in direzione del mistero di Dio. I rituali portano il cielo in terra, nel bel mezzo della vita quotidiana. Ci trasmettono la vicinanza benefica e amorevole di Dio, che significa il cielo per noi.
I rituali chiudono una porta e ne aprono un’altra. Questa immagine vale per i tipici rituali di passaggio: per la nascita e per la morte, per il giorno e per la notte, per il lavoro e per il tempo libero. Se alla sera la porta del giorno non viene chiusa, non possiamo aprirci in maniera adeguata alla notte. Il giorno continuerà a influenzare la notte e non di rado non ci lascerà dormire bene, se non lo concludiamo con consapevolezza. Dobbiamo chiudere la porta con il passato, in modo da poter essere interamente dove siamo proprio ora. Soltanto se si chiude la porta delle cose vecchie, si apre un accesso alle cose nuove, una porta per l’attimo presente. I rituali, perciò, ci rendono in grado di essere completamente nell’attimo. Chi non chiude mai le porte è sempre in corrente. Ma ciò non fa bene né alla sua anima, né al suo corpo. La nostra vita ha bisogno di spazi chiusi, affinché si sviluppi, affinché diventi possibile l’incontro e affinché possiamo aprirci all’attimo attuale.
I rituali esprimono sentimenti che altrimenti non vengono mai espressi. Invitano a fare e dire qualcosa davanti a un’altra persona, cosa che di solito non faremmo. Ci fanno varcare la soglia per l’altro. Superano la soglia dell’inibizione che proviamo spesso quando diciamo qualcosa di molto personale all’altro. Nel caso di un augurio di compleanno, però, osiamo dire di più, una forma fissa del genere ci ‘permette’ e ci rende più facile il diventare confidenziali. I rituali rendono possibile e creano l’intimità. Ma ci donano anche la sicurezza che non dobbiamo dire nulla di più di quanto riusciamo a dire. Ci invitano a esprimere ciò che sentiamo in quel momento e ciò che proviamo per l’altro.
I rituali rendono più profonde le relazioni. Nei rituali personali – per esempio quando si festeggia un compleanno, un onomastico, un anniversario – è in gioco la nostra relazione con l’altro. Colui che festeggia viene visto, percepito. Quello che costituisce la sua essenza viene espresso in parole. Ciò rende più profonda la relazione con l’altro. Quando un rituale è riuscito – per esempio una festa di compleanno – le relazioni esistenti diventano più profonde e ne nascono di nuove tra le persone che festeggiano. Ormai le aziende hanno scoperto che l’eliminazione dei rituali – non di rado per motivi di razionalizzazione – nuoce alle prestazioni dei dipendenti. Quando le relazioni interpersonali in azienda non vengono prese in considerazione, anche il rendimento cala.
I rituali fondano identità. Incomincio la giornata con il mio rituale personale. Per così dire, celebro la mia giornata e la mia esistenza. Sento che vivo in prima persona, invece di essere vissuto. Ho voglia di dare alla mia vita una certa forma, un’impronta chiara. Nei rituali mi sento e faccio l’esperienza di me stesso. I rituali, però, non fondano soltanto l’identità personale dell’individuo. Quando si svolgono nel rispettivo ambiente sociale, fondano o rendono più profonda anche l’identità di una famiglia o di un’azienda. Ci danno la sensazione che la forma nella quale viviamo insieme agli altri è qualcosa di importante e non soltanto di esteriore. L’esperienza che facciamo è questa: prendiamo ancora sul serio la nostra convivenza, la apprezziamo. Per questo la esprimiamo con dei rituali. Gli antichi dicono: la nostra vita è una festa perenne. Per questo la celebriamo nei rituali e in tal modo veniamo a contatto con le radici della nostra vita e della nostra identità personale e comune. I rituali creano un tempo e uno spazio sacri. Il sacro è ciò che è sottratto alla quotidianità profana del mondo. È qualcosa su cui questo mondo del quotidiano, con tutte le sue pretese, non ha alcun potere. Secondo l’interpretazione dei greci, soltanto il sacro può guarire. Il tempo sacro è un tempo che mi appartiene, al quale il mondo non ha accesso, del quale gli altri non possono disporre. Il tempo sacro che mi prendo quando compio il rituale mi lascia respirare liberamente. Nessuno, in questo momento, vuole qualcosa da me. Le preoccupazioni per le altre persone non sono importanti. Compio questo rituale nel tempo e in esso vivo un tempo sacro che è sottratto all’accesso del tempo consueto, misurato e valutato sotto l’aspetto dell’utilità. Heiko Ernst una volta ha detto: nel rituale «il mondo per un po’ di tempo si calma e noi in esso». Il tempo sacro è sempre anche un tempo di riposo, un tempo in cui partecipiamo del riposo sabbatico di Dio. Il tempo sacro che ci dona il rituale ci libera da ogni pressione delle scadenze. Vi regna non chrónos, il tempo misurato e scandito che rispetta il cronometro e che – secondo il mito dell’antichità – vorrebbe divorarmi, bensì kairós: tempo piacevole, tempo donato, tempo di grazia, che posso godere. Nel tempo sacro entro in contatto con il nucleo intatto dentro di me. Qui sperimento che in me esiste uno spazio sacro, sottratto alla presa del mondo. I rituali sono segni commemorativi. Portano ciò che so con la mente nel mio cuore e nel mio intimo. Mi ricordano che Dio mi è vicino, è dentro di me. Abbiamo bisogno di segni commemorativi del genere, per non dimenticare che siamo realmente figli e figlie di Dio. Ci fanno prendere coscienza del fatto che Dio ci accompagna, ci protegge e ci benedice nel nostro cammino. Da bambino mi commuovevo quando mio padre, durante le passeggiate assieme, si toglieva il cappello ogni volta che passava vicino a una chiesa. Davanti a quel gesto sentivo che per mio padre erano importanti anche altre cose. La chiesa gli ricordava che nella vita ciò che conta in fondo è Dio. Anche per noi, quindi, le molte chiese accanto alle quali passiamo possono essere dei segni commemorativi che ci dicono: apri gli occhi, Dio ti circonda, il cielo si spalanca sopra di te. Anche nelle città, ancora oggi, il suono delle campane ci ricorda che dobbiamo fermarci. Le campane non vogliono soltanto invitarci alla messa o a una preghiera. Ci ricordano anche quale suono vogliamo dare alla nostra esistenza. In molti paesi e in molte città esiste ancora lo scampanio al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Ricorda l’antica preghiera, l’Angelus, in cui meditiamo le parole dell’angelo a Maria.
I rituali creano una patria. Danno e rafforzano la sensazione di essere a casa. Compio gli stessi rituali che hanno compiuto i miei genitori e i miei nonni. Ciò mi dona un senso di continuità e rafforza la fiducia nel fatto che partecipo della forza della vita e della fede dei miei antenati. Vedo sempre degli anziani confratelli che seguono con grande fedeltà i rituali della quotidianità conventuale. Ciò dona loro la sensazione di essere inseriti nel tutto della comunità e della sua tradizione. Per le persone anziane che vivono sole i rituali sono un modo di trovare un equilibrio con se stesse e la propria vita, e di sentirsi a casa. La patria qui non è intesa nel senso di nostalgia sentimentale, bensì come la intende la lingua tedesca in base all’etimo della parola. Il tedesco scorge un collegamento tra la patria (Heimat), la propria casa (Heim) e il mistero (Geheimnis). Si può essere a casa dove dimora il mistero. La vera patria è là dove mi circonda il mistero di Dio. Nei rituali ho la sensazione di non essere solo. Compio i rituali per sincerarmi che Dio mi è vicino, che il suo amore affettuoso mi circonda.
I rituali sono il sincerarsi che la mia vita riesca. Sappiamo che la riuscita dell’esistenza non dipende dall’accendere una candela o dalla meditazione mattutina. Eppure, accendendo una candela esprimiamo che la luce di Dio splende nella mia oscurità, che la sua luce è più forte di ogni tenebra, che il suo amore supera il gelo di questo mondo. Con il rituale esprimo il fatto di essere sotto la promessa di Dio e la sua promessa è che la mia vita riuscirà. Così Dio ha promesso a Giacobbe sulla scala che porta al cielo: «Non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto» (Gen 28,15). Dio farà anche per noi quello che ci ha detto. Nel suo Figlio Gesù Cristo ci ha promesso salvezza e redenzione. Le riceviamo. La nostra vita forse riuscirà in maniera diversa da come ci eravamo immaginati, ma riuscirà. Compiendo il rituale esprimo la mia fede nella promessa di Dio che la mia vita sia integra e completa.
I rituali sono un luogo di incontro con me stesso e con Dio. I rituali mi portano a contatto con me stesso e con il centro di me stesso. Facendo qualcosa che non può essere usato dal mondo, che non ha alcuna utilità esteriore, vengo a contatto con me stesso, con il mio nucleo interiore autentico. Raggiungo il centro di me stesso. Ho la sensazione di essere in me e di essere in equilibrio. E i rituali sono il luogo in cui incontro Dio. Infatti compio il rituale perché credo che Dio mi è vicino. Il rituale mi apre nei confronti del Dio presente. Mi permette l’incontro con Dio. Nel rituale smetto di scappare da me stesso e da Dio. Mi fermo e trovo stabilità. E rivolgo l’orecchio verso l’interno, confidando nel fatto che Dio è in me e intorno a me, che mi circonda e che desidera parlarmi.