Ha ancora senso parlare di un cristianesimo possibile, credibile, senza cadere nel disincanto dell’immediato o nel sogno dell’utopia? Perché attardarsi su una questione che si ritrae dalle evidenze delle statistiche, mostrando una vitalità della religione da far impallidire qualsiasi ipotesi di crisi? Qualcuno potrebbe osservare che si è in presenza della inveterata abitudine ad ingigantire problemi marginali, visto che nella storia si sono alternati con una regolarità fisiologica periodi come questi. Eppure, l’avvertenza da parte di molti di essere al tramonto di una certa forma di cristianesimo è più di una semplice sensazione1. È la consapevolezza che nasce dal fatto che stiamo vivendo un mutamento d’epoca2, più che un’epoca di mutamenti e, di conseguenza, la necessità di avviare un ripensamento, una ri-scrittura della novità della proposta cristiana. La stessa vivacità culturale del cristianesimo nei diversi contesti continentali3, mentre pone in risalto i tentativi di una teologia che superi forme monoculturali del pensiero occidentale e nordatlantico, lascia trasparire la delicatezza di una crisi di credibilità che può condurre o ad una riscoperta della originalità del vangelo o a un percorso di declino e deterioramento progressivo, il cui rischio è un inspiegabile autoisolamento. In altre parole, l’interrogativo se siamo davvero gli ultimi cristiani4, apre una questione a dir poco essenziale nella riflessione teologica dei nostri giorni. Le risposte possono essere diverse e molteplici, ma ciò che si delinea è una complessità del panorama teologico5 che non autorizza a banalizzare il momento storico, perché né la contrazione sul passato né l’atteggiamento di chi si accontenta di sfiorare il reale, è in grado di sostenere l’urto di una domanda di senso nuova che è nascosta nelle attese e negli eccessi di ricerca della postmodernità. Vivere oggi da cristiani non è affatto facile, per il fatto che «ciò che costituisce il diventare e l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido atemporalmente, ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in mutamento e deve continuamente dar prova di sé»6.
Non si tratta di attribuire colpe o responsabilità al vorticoso mutamento che ha colonizzato interi ambiti della vita, sottoponendola alla pressione delle scelte nel chiaroscuro dei modelli interpretativi; né di scaricare il peso delle responsabilità storiche su principi ideologici e pratici guidati esclusivamente dalla razionalità. Piuttosto, è necessaria una capacità di discernimento consapevole: l’annuncio e la prassi della vita cristiana non possono essere la semplice ripresa di decisioni anteriori da applicare in situazioni e contesti differenti e modificati. La convinzione di una continuità fine a se stessa è, in realtà, una falsa immagine di tradizione che dimentica la creatività fedele nel processo di trasmissione del credere.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Ha ancora senso parlare di un cristianesimo possibile, credibile, senza cadere nel disincanto dell’immediato o nel sogno dell’utopia? Perché attardarsi su una questione che si ritrae dalle evidenze delle statistiche, mostrando una vitalità della religione da far impallidire qualsiasi ipotesi di crisi? Qualcuno potrebbe osservare che si è in presenza della inveterata abitudine ad ingigantire problemi marginali, visto che nella storia si sono alternati con una regolarità fisiologica periodi come questi. Eppure, l’avvertenza da parte di molti di essere al tramonto di una certa forma di cristianesimo è più di una semplice sensazione.
È la consapevolezza che nasce dal fatto che stiamo vivendo un mutamento d’epoca, più che un’epoca di mutamenti e, di conseguenza, la necessità di avviare un ripensamento, una riscrittura della novità della proposta cristiana. La stessa vivacità culturale del cristianesimo nei diversi contesti continentali, mentre pone in risalto i tentativi di una teologia che superi forme monoculturali del pensiero occidentale e nordatlantico, lascia trasparire la delicatezza di una crisi di credibilità che può condurre o ad una riscoperta della originalità del vangelo o a un percorso di declino e deterioramento progressivo, il cui rischio è un inspiegabile autoisolamento.
In altre parole, l’interrogativo se siamo davvero gli ultimi cristiani, apre una questione a dir poco essenziale nella riflessione teologica dei nostri giorni. Le risposte possono essere diverse e molteplici, ma ciò che si delinea è una complessità del panorama teologico che non autorizza a banalizzare il momento storico, perché né la contrazione sul passato né l’atteggiamento di chi si accontenta di sfiorare il reale, è in grado di sostenere l’urto di una domanda di senso nuova che è nascosta nelle attese e negli eccessi di ricerca della postmodernità. Vivere oggi da cristiani non è affatto facile, per il fatto che «ciò che costituisce il diventare e l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido atemporalmente, ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in mutamento e deve continuamente dar prova di sé». Non si tratta di attribuire colpe o responsabilità al vorticoso mutamento che ha colonizzato interi ambiti della vita, sottoponendola alla pressione delle scelte nel chiaroscuro dei modelli interpretativi; né di scaricare il peso delle responsabilità storiche su principi ideologici e pratici guidati esclusivamente dalla razionalità.
Piuttosto, è necessaria una capacità di discernimento consapevole: l’annuncio e la prassi della vita cristiana non possono essere la semplice ripresa di decisioni anteriori da applicare in situazioni e contesti differenti e modificati. La convinzione di una continuità fine a se stessa è, in realtà, una falsa immagine di tradizione che dimentica la creatività fedele nel processo di trasmissione del credere.
La conseguenza è che le decisioni teoretiche ed etiche non possono muoversi sul solo consenso di teoremi già codificati, ma devono confrontarsi con le domande che la cultura pone. «La testimonianza collettiva va costruita sulla base di analisi della società contemporanea». Ciò implica alcune premesse. L’istanza di entrare nel conflitto interpretativo del reale è senza dubbio importante per comprendere le potenzialità del Vangelo e la significatività della sua proposta nei circuiti delle vicende della contemporaneità. Anzi, si può affermare che è pertinente all’autocomprensione della profezia ecclesiale la lettura della cultura nella sua concretezza esistenziale. Se la Chiesa è soggetto dell’evento della comunicazione del Vangelo, se attiva il desiderio di senso e provoca la conversione della cultura, è perché una delle sue funzioni storico-culturali si situa a livello delle domande che incidono sulla ricerca di identità. Tale attenzione è propria della contestualità della riflessione teologica.
La qual cosa, di per sé, non è nuova nella storia della teologia, se non per il fatto che la crescente complessità socio-culturale con i suoi effetti di moltiplicazione dei sistemi interpretativi, chiama in causa l’esigenza di una adeguazione costante della sua pertinenza teoretica, nonostante il rischio, reale o presunto, di una frammentazione contenutistica. Al tempo stesso, il processo di autonomia dei diversi campi del sapere richiede alla teologia una certa capacità a gestire una simile complessità, al di fuori della quale il contributo che la riflessione teologica può offrire alla ricerca potrebbe risultare ininfluente o inadeguato alle domande della storia. «Assume la complessità chi non legge la storia a partire da uno schema ideologico precostituito, chi si lascia inquietare e provocare dai ‘sentieri interrotti’ del vivere e del patire umano, chi accetta di sopportare il peso di non avere diagnosi già fatte e terapie già pronte».