Oggi l'omelia è un messaggio a rischio, un discorso pubblico che perde consensi. Fare la morale oltre che perdente è antievangelico, e la sola dottrina non è in grado di nutrire la vita cristiana. Il contesto fortemente mediatizzato, poi, ci ha resi uditori insieme distratti e raffinati, soggetti a una vera e propria mutazione antropologica: comunicare è prima di tutto incontro (essere-con) e scambio. Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, scrive: «Rinnoviamo la nostra fiducia nella predicazione, che si fonda sulla convinzione che è Dio che desidera raggiungere gli altri attraverso il predicatore» (n. 136). Un invito a chiarire il «come» e soprattutto il «Chi» dell'omelia. E per i francescani a chiedersi che cosa significhi oggi «annunciare ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso» (Regola bollata IX). Una Chiesa in uscita non può non ripensare il proprio linguaggio e stile comunicativo.
PREFAZIONE
di Paolo Martinelli
L’omelia, la Parola, la carne
Il libro di padre Ugo Sartorio è davvero utile a comprendere il senso dell’omelia e ad affrontare con intelligenza pastorale le difficoltà che oggi possono incontrare coloro che per ministero sono chiamati a predicare e ad annunciare la parola del Signore. Il suo testo, assai piacevole alla lettura, offre anche riflessioni interessanti riguardo alla sensibilità proveniente dall’esperienza spirituale francescana circa il modo di predicare.
Molto opportunamente si propongono considerazioni concrete circa la difficoltà del nostro tempo riguardo ad alcuni temi specifici delle omelie. Il rapido, radicale, cambiamento in atto dal punto di vista culturale, sociale e antropologico, che ha portato al prevalere di un accomodante appiattimento sull’immediato, ci costringe a ripensare profondamente taluni temi classici della predicazione, come ad esempio quello dei «novissimi» e dell’«escatologico».
Questo prezioso volume si riferisce in modo interessante anche alla preoccupazione pastorale degli ultimi sommi pontefici a questo proposito. San Giovanni Paolo II, papa Benedetto XVI e ora papa Francesco si sono espressi lungamente intorno al tema della omelia, considerandolo momento fondamentale, sia dal punto di vista liturgico che pastorale. Soprattutto il notevole spazio dedicato da papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium a questo proposito è una chiara testimonianza dell’importanza dell’ufficio di predicazione nella chiesa.
Nel leggere le pagine di padre Ugo Sartorio, mi ha colpito soprattutto l’idea fondamentale espressa già nel titolo, in cui si parla dell’omelia come evento comunicativo. In effetti questa espressione connette la predicazione stessa alla natura del cristianesimo, il quale nel suo inizio – come ricordano papa Benedetto e papa Francesco – non è «una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1; Evangelii gaudium, 7).
L'omelia è evento comunicativo perché il cristianesimo stesso è un fatto che accade nel tempo e nello spazio. Essa è efficace, innanzitutto, non perché retoricamente perfetta, ma se fa eco al carattere di evento del cristianesimo stesso; ossia se indica la presenza amorosa di Cristo che riaccade ora nella nostra vita personale e comunitaria. Questo carattere specifico della predicazione cristiana ha una sua potente verifica nel fatto che l’omelia è riferita liturgicamente alla parola di Dio in quanto proclamata all’interno della celebrazione eucaristica, mostrando così l’intrinseco legame tra Sacra Scrittura e sacramento. Ciò risulta essere in realtà paradigmatico per ogni autentico accostamento alle Sacre Scritture. Ogni approccio a esse dovrebbe sempre partire dal fatto che questa Parola è innanzitutto celebrata, poiché è espressione del Dio-che-parla (Origene) qui e ora.
Giustamente Benedetto XVI ha ricordato quanto sia necessario che «l’omelia ponga la Parola di Dio proclamata in stretta relazione con la celebrazione sacramentale» (Sacramentum caritatis, 46). Con ciò si mostra la Parola-carne, non la parola come discorso generico, ma appunto come «evento» che attrae e coinvolge.
La spiritualità francescana esalta di fatto questo legame. Basti notare qui il nesso profondo che viene intuito e vissuto dal Santo di Assisi tra parola di Dio e sacramento eucaristico, tra il «Verbo» e la «carne». Sappiamo che il tema dell’eucaristia è assolutamente dominante negli scritti dell’Assisiate e come, sulla scorta della grande tradizione patristica, sicuramente percepita dal nostro Santo, le parole del Signore siano per lui oggetto della più grande venerazione in analogia all’atteggiamento adorante davanti all’eucaristia. Colpisce osservare, ad esempio, nella lettera di san Francesco A tutto l ’ Ordine affermazioni riguardo alla « riverenza verso il corpo del Signore» (FF 217) e quelle circa la «venerazione per la Sacra Scrittura» (FF 224-225), poiché nelle parole della Scrittura si deve onorare «il Signore che le ha pronunciate» (FF 225).
Questo ci permette di comprendere, come ha affermato Benedetto XVI nella esortazione apostolica Verbum Domini, che la parola di Dio innanzitutto coincide con il Verbo fatto carne, ossia con la persona di Gesù Cristo stesso (cf. n. 7). Tutta la Sacra Scrittura va letta e spiegata in questa prospettiva profondamente trinitaria e cristocentrica. Questo riveste un profondo significato per l’omelia: infatti, quella Parola che viene proclamata e spiegata è sempre il «Verbo fatto carne» (Gv 1,14), pane spezzato per la vita del mondo (cf. Gv 6).
In tal senso, il legame tra la Parola e la «carne», implica il riconoscimento dell’imprescindibile orizzonte sacramentale di tutta la rivelazione cristiana. Per questo Benedetto XVI ha parlato di sacramentalità della Parola (Verbum Domini, 56). Il metodo sacramentale con cui la rivelazione ci raggiunge implica sempre un segno fragile, attraverso il quale il Mistero di Dio si offre alla nostra libertà. Ecco le parole più intense a questo proposito di Benedetto XVI:
La Parola di Dio si rende percepibile alla fede attraverso il «segno» di parole e di gesti umani. La fede, dunque, riconosce il Verbo di Dio accogliendo i gesti e le parole con i quali Egli stesso si presenta a noi. L ’ orizzonte sacramentale della Rivelazione indica, pertanto, la modalità storico-salvifica con la quale il Verbo di Dio entra nel tempo e nello spazio, diventando interlocutore dell’uomo, chiamato ad accogliere nella fede il suo dono. La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto (Verbum Domini, 56).
È quindi proprio la dimensione sacramentale della rivelazione a farci comprendere la natura di evento del cristianesimo: esso accade e sorprende la nostra libertà, convocandoci e facendoci crescere ogni giorno di più proprio come membra del suo corpo.
In tal modo si chiarisce la natura dell’omelia come evento comunicativo: non si tratta di spiegare teorie da mettere poi in pratica; il predicatore non è un indottrinatore, né un seduttore. L ’ omelia è atto liturgico perché è espressiva della natura di evento del cristianesimo. Il predicatore allora è innanzitutto testimone del fatto che la parola di Dio è diventata Uno di noi (Verbum Domini, 11). È lui, infatti, colui al quale ogni omelia deve ultimamente riferirsi, poiché è lui che risponde come nessun altro alla domanda di compimento che alberga nel cuore dell’uomo di oggi, perché alberga nel cuore dell’uomo di sempre.
L'umile e decisivo compito di colui che predica è quello di ricordare che Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cf. Col 3,16)4.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
L’omelia evento comunicativo
Esordio «al positivo»
Oggi l’omelia non gode di buona fama, anche se questo non è un motivo sufficiente per giudicare la predicazione omiletica contemporanea di bassa lega, assolutamente scoraggiante, evento induttore di sonno più che di profonde sollecitazioni spirituali. In verità siamo di fronte a un problema di sempre, non fosse altro per il fatto che non è mai stato facile parlare in pubblico facendosi ascoltare oppure, dall’altra parte, appartenere alla truppa degli ascoltatori evitando ogni sorta di distrazione o di «sonnambulismo». Lo testimonia la Didascalia degli apostoli, del III secolo, che prevedeva, nelle assemblee eucaristiche, diaconi addetti a controllare che i fedeli non si addormentassero durante l’omelia, per non parlare di quando Cesario di Arles (prima metà del VI secolo) ordinò di chiudere le porte della chiesa perché i fedeli non se ne andassero dopo la lettura del Vangelo. A quanto pare, niente di nuovo sotto il sole!
Guardando ai nostri giorni, limitatamente al contesto della chiesa italiana, è da ritenere una risorsa di bene incalcolabile il fatto che nelle circa 25 mila parrocchie che ne costituiscono l’intelaiatura di fondo – a cui si aggiungono innumerevoli santuari e le molte chiese officiate da religiosi – vi sia ogni santa domenica, la mattina, quasi a ogni ora, la possibilità di partecipare alla messa ascoltando un’omelia che cerca di far risuonare il Vangelo. Un’opportunità tutta italiana questa, non più fruibile negli stessi termini dentro altri contesti geografici e religiosi, soprattutto in Nord Europa. Tutti conosciamo la lettura sociologica che indica un mondo in ripresa se non in accelerazione dal punto di vista religioso, nel solco della rivincita di Dio evocata negli anni ’90 da Gilles Kepel: oggi vi è sicuramente più religione rispetto a cinquant’anni fa, tanto che qualcuno si mostra preoccupato di fronte a una vera e propria «proliferazione del credere» in un mondo «furiosamente religioso». Però, dentro uno scenario planetario di lievitazione (a volte incontrollata e non senza derive fondamentalistiche) del religioso, l’Europa costituirebbe un’eccezione, anche se, appunto, in questa eccezione che vede la secolarizzazione ancora galoppante e in grado di fare terra bruciata, l’Italia costituirebbe un’eccezione nell’eccezione. Non perché da noi tutto vada per il meglio e non sia evidente una perdita progressiva della forma ecclesiale della fede, ma perché persiste, a oltranza, un «cattolicesimo popolare fortemente ecclesiale» in grado di fare da mediazione tra l’istanza individuale –che pure slitta a lato della fede e ne attutisce la presa –, e l’istanza sociale e comunitaria, sempre più neutra quando non ostile alla fede.
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Don GIOVANNI PIAZZA il 21 novembre 2018 alle 10:34 ha scritto:
un argomento interessante