Oltre che essere «banale», il male può diventare «abituale», fino a diventare «vera cultura, con capacità dottrinale, linguaggio proprio, maniera di procedere peculiare». Queste le parole di papa Francesco, che ha sorpreso un po' tutti dicendo che «la corruzione non può essere perdonata». Ma allora cosa ne è del perdono instancabile di Dio? Cosa intende il papa affermando «peccatori sì, corrotti no»? La sua riflessione, coltivata e maturata fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires, si concentra sulla differenza qualitativa tra peccato e corruzione, e su come per guarire dalla corruzione ci voglia una svolta di vita qualitativamente alternativa.
Il discorso ha grandi risvolti anche sul piano civile, dove il dibattito su questo tema è ormai consunto e quasi disarmato. È necessario leggere la corruzione in modo nuovo, fuori da un moralismo che produce solo effimera indignazione. Occorre piuttosto puntare diritti alla «struttura interna» della corruzione, per tentare di far compiere un salto di qualità alla nostra coscienza civile.
INTRODUZIONE
Abbiamo scoperto che il male può essere «banale», in quel senso tragico – non sempre compreso adeguatamente – datole da Hannah Arendt, ma il punto ancora più sconvolgente è che il male può diventare «abituale», farsi sistema e ambiente intriso di azioni pianificate proprio per propagare la malvagità. E tutto questo senza clamore e senza che quasi ce ne accorgiamo. Fino a diventare «vera cultura, con capacità dottrinale, linguaggio proprio, maniera di procedere peculiare». Queste ultime sono parole di papa Francesco, il quale dopo averci catturato e persuaso con la buona notizia di un Dio cristiano che non si stanca mai di perdonare, ci ha sorpresi un po’ tutti, in alcuni ha destato meraviglia e in altri ha perfino creato sconcerto, quando ha detto che «il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata». Ma allora cosa ne è del perdono instancabile di Dio? Cosa intende dire papa Francesco quando afferma «peccatori sì, corrotti no»? Tutta la sua riflessione sulla corruzione, puntualmente coltivata e maturata fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires, e quindi per nulla improvvisata e men che meno sprovveduta tanto sul piano della conoscenza del fenomeno che sul piano del discernimento etico-teologico, non mira a gettare nell’agone mediatico una frase a effetto ma a portare la nostra meditazione sulla distinzione qualitativa tra il peccato e la corruzione. È questa distinzione il punto focale delle sue meditazioni: pignole nella individuazione della natura specifica della corruzione ma altrettanto nette nell’esigere un radicale cambiamento nella mentalità, nello stile di vita e relazionale, nel costume e nell’agire effettivo della persona corrotta. Se la corruzione è qualitativamente diversa dal peccato, è chiaro che anche per guarire dalla corruzione ci vuole una svolta di vita qualitativamente alternativa.
Ma per comprendere fino in fondo la posta in gioco, papa Francesco opera un passaggio decisivo: da una lettura impersonale e anonima della corruzione, guida la riflessione al cuore dell’uomo corrotto. Dalla corruzione all’uomo corrotto: solo così possiamo comprendere perché il perdono diventi una realtà non più scontata né data per sicura. Perché è vero che Dio non si stanca mai di perdonare, ma è pure vero che l’uomo corrotto, catturato nella spirale del male abituale della corruzione, si stanca invece di cercare il perdono. Diventa impermeabile alla profezia del perdono.
Ciò significa che nell’uomo corrotto vengono compromesse le condizioni di base e per prima, appunto, quella del riconoscimento del proprio stato che ha eretto la corruzione a habitat ed ethos. Per questo, fa capire papa Francesco, il perdono rischia di diventare un sentiero interrotto per l’uomo corrotto. Ci vuole qualcosa di più: la conversione, nel duplice senso di «svolta di vita» e «cambiamento esistenziale». Allora sarà possibile ricostituire le condizioni di base per accogliere la profezia del perdono.
Ma la novità va colta anche sul piano civile, dove il dibattito sulla corruzione – dobbiamo ammetterlo – è ormai consunto e quasi disarmato, perché egli offre anzitutto una indicazione di metodo. Papa Francesco mostra in altri termini che occorre leggere e capire la corruzione in maniera nuova, fuori dai soliti schemi moralistici che non producono niente se non reazioni tanto indignate quanto effimere. Se ci siamo arenati civilmente nei confronti della corruzione, tanto da poterne parlare come di una realtà con la quale convivere, e che qualcuno perfino «comprende» in quanto connaturale all’essere umano, è perché effettivamente la nostra capacità di leggerla e di conoscerla rimane alla superficie e facilmente si espone a letture o minimalistiche o fatalistiche. Invece una accurata lettura della corruzione è in grado di svelarne già da subito la specifica «qualità malefica». Occorre, dopo aver dipinto lo scenario della corruzione, puntare diritti alla «struttura interna» della corruzione. Ed è questo che ci sta proponendo papa Francesco. E dobbiamo riconoscere che è una buona opportunità per far compiere un salto di qualità anche alla nostra coscienza di cristiani e più ampiamente alla nostra coscienza civile di fronte alla corruzione.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
Metamorfosi della corruzione
Prendere sul serio la corruzione rifuggendo tanto dalle visioni minimalistiche quanto da quelle moralistiche, significa anzitutto prendere in considerazione il suo significato sostanziale, ossia quel significato che la collega all’intero antropologico e ancor prima all’intero ontologico. Detto in altri termini occorre partire dalla costatazione che, da che ne abbiamo notizia, gli uomini hanno sempre preso le mosse per la loro immaginazione simbolica e intellettiva dal confronto con una realtà della quale essi stessi sono impastati, che si presenta costitutivamente segnata dal nascere, svilupparsi e corrompersi e infine morire.
L’uomo si è sempre interrogato intorno alla realtà generale della corruzione di tutto quello con cui ha a che fare e del suo proprio essere vitale. Anzi, la meditazione intorno alla sua stessa corruttibilità intesa come il venir meno per disintegrazione delle sue forze, del suo corpo, della sua salute, della sua razionalità, della sua dinamicità, come il dissolversi progressivo di quegli elementi che ne costituiscono l’integrità e il movimento interiore, all’interno di una parabola destinata inesorabilmente a finire, è sempre stata la prima fonte di tutta la sua inquietudine ma anche della sua ispirazione. Di più: è stata la porta che gli ha dischiuso l’atmosfera tragica in cui si risolve la sua vicenda umana. Che più volte gli ha fatto toccare con mano la sua inconsistenza, la sua vulnerabilità radicale, la sua assoluta esposizione all’annientamento, più che come un passaggio puntuale (la morte), piuttosto come un processo lento ma inarrestabile che lo accompagna giorno dopo giorno.
Prima della corruzione morale, l’uomo fa esperienza diretta della corruzione del suo essere, della degenerazione della sua consistenza, del disfacimento anzitutto delle sue energie fisiche e delle sue abilità cognitive e tecniche. La malattia ad esempio è sempre stata assunta come cifra emblematica dell’esperienza del corrompersi, del degenerare, del sentire attaccata e compromessa la propria integrità e la propria abilità. L’immaginario simbolico umano ha sempre rappresentato l’idea generale della corruttibilità del tutto, proprio come l’avvento di una malattia, di un male che progressivamente si impadronisce di te e ti devasta. Cercare di sconfiggere, o comunque di rallentare, di differire il più possibile il processo di devastazione, è sempre stata la grande ambizione degli uomini, vero luogo della loro inventiva dapprima rudimentale ma oggi assai raffinata tramite l’apparato delle più sofisticate tecnologie.
Il termine stesso di corruzione ha avuto dunque la sua prima gestazione nel campo dell’essere in generale e in quello particolare dell’essere stesso dell’uomo. Da qui la coscienza della sua caducità, della sua finitezza e alla fine della sua mortalità.
I supporti a questa considerazione sono innumerevoli, ma colpisce sempre, anche i più giovani, l’impresa filosofica di Platone che ha condotto tutta la sua meditazione alla ricerca di una spiegazione e di un argine a questa corruttibilità del tutto e dell’uomo in special modo. Tutto il suo pensiero è un grandioso tentativo di esplorare i modi per far fronte ma anche per sfuggire alla corruzione e alla degenerazione di ciò che è. Da qui nasce quella «brama dell’essere» (Fedone, 66 C 2) incarnata nella riflessione umana alla ricerca di «quell’essere che sempre è e non muta per generazione o per corruzione» (Repubblica, VI, 485 B 1-3). I problemi più importanti della riflessione dell’uomo, afferma Platone, risultano strettamente legati al problema della generazione, della corruzione e dell’essere delle cose, e in particolare al problema di fondo del perché esse nascono, perché sono e perché si corrompono. Ebbene Platone afferma, per bocca del suo maestro Socrate, di essere partito da giovane proprio da questi problemi di fondo e di aver cercato di risolverli sulla scia delle indagini condotte dai sapienti che l’avevano preceduto.
Ma ciò che ha caratterizzato l’esistenza di Platone è anche il fatto di essere stato messo duramente a confronto con il male della corruzione morale e politica contro la quale continuamente ha visto infrangersi il suo progetto di una buona politica e di una buona Repubblica. Anzi, Platone giunge a ritenere che il politico retto, che intende fermamente rispettare le leggi, alla fine non incontra che la rovina e la sconfitta da parte del suo stesso popolo. Molta parte della sua vita infatti fu impegnata anche a dare corpo al suo ideale etico-politico e ogni volta tuttavia egli ha sperimentato come tale ideale potesse diventare facile preda della corruzione del denaro, del potere fine a se stesso, del costume e dell’ambizione smodata degli uomini.
In un certo senso Platone è il primo a insegnarci tutta la tragicità e tutta la pesantezza della corruzione (ontologica, antropologica, morale) nella nostra vicenda umana. Ma egli ci insegna anche che la coscienza della condizione di corruzione è direttamente proporzionale all’anelito di ricerca di liberazione da questa stessa condizione. Per lui la corruzione non è l’ultima parola inesorabile sulla nostra vicenda terrena. Però senza un’acuta coscienza dello spessore della corruzione che ci costituisce e attraversa, diventa quasi impossibile cercare vie di liberazione e forme di vita alternative. Se non mi accorgo di vivere in una realtà completamente distorta, tanto dal punto di vista delle ragioni quanto da quello valoriale, finirò per pensare che questa realtà completamente falsata è l’unica realtà vera. È uno degli insegnamenti del famoso mito platonico della caverna.
Diviene indispensabile allora iniziare un’opera dedicata a prendere coscienza delle dimensioni, della natura, dello spessore, delle implicazioni della corruzione e della corruttibilità alla quale siamo esposti. Tuttavia bisogna che questa presa di coscienza non finisca per schiacciarci, poiché potremmo cadere nella persuasione che allora non c’è nulla da fare, che la corruzione è un male invincibile, che la corruttibilità del tutto e di tutti, è semplicemente un destino.
Ma il punto di partenza rimane la presa di coscienza della corruttibilità. E allora questa per noi oggi diventa una questione tutt’altro che astratta. Secondo Zygmunt Bauman essa costituisce forse l’asse trasversale delle grandi mutazioni in cui è coinvolto il nostro tempo. Consiste nella paradossale assunzione della corruzione delle cose, degli oggetti ma anche dei legami, come di un dato positivo! Si tratta di un rovesciamento epocale. Per le fonti di senso della nostra cultura occidentale la corruzione ha sempre rappresentato una figura prepotente del male di essere e di vivere: per noi la corruzione è invece diventata una caratteristica da auspicare, da incentivare e perfino da procurare. Il pensiero unico del consumismo infatti si regge sulla deperibilità e corruttibilità degli oggetti e dei legami. Niente deve durare e niente deve essere pensato nell’orizzonte della incorruttibilità. Per «l’arte di consumare la vita» si deve postulare la necessità di disfarsi in fretta delle cose e delle relazioni. E per potersene disfare bisogna che esse siano «biodegradabili» o forse anche soltanto «degradabili». La filosofia dell’autentico «ciclo economico» del consumismo, «l’unico che garantisce davvero il funzionamento dell’economia – è quello del “compralo, goditelo, buttalo via”…». Nella risimbolizzazione consumistica l’incorruttibilità non è più un valore, né qualcosa da bramare. Nello stesso tempo affinché ciò diventi plausibile e possibile, deve nel contempo essere affermata, come in effetti il consumismo sta facendo, la generale «mercificazione» di tutto, ivi compresa quella della persona. Tutto deve poter essere trattato alla stregua di merce e quindi comprato, usato quel tanto che serve e poi gettato. Del resto, il corruttore adopera proprio questa logica e da essa si sente legittimato.
Sulla scia di queste considerazioni molto concrete, è evidente che per noi oggi è diventato più difficile agire per promuovere una presa di coscienza dell’intera portata della corruzione e anzitutto della sua negatività. Queste pratiche quotidiane indotte dal pensiero unico consumistico certamente influiscono sulla nostra fatica di leggere e rappresentare simbolicamente e moralmente tutto il male incarnato dalla corruzione a ogni livello. È opportuno tenerne conto.
In questo senso la prima urgenza che ci si impone è quella di riprendere ed esplicitare le fonti morali che, pur sottoposte a questo poderoso attacco del consumismo, sono ciò che costituisce la linfa vitale per la nostra ricerca di una vita buona, di una vita condotta in autenticità. Così da ri-prendere coscienza che la corruzione è la prima grande minaccia all’autenticità cui aspiriamo. Occorre metter mano, mediante una pedagogia popolare, all’attivazione ed esplicitazione del quadro di fondo delle nostre vite e delle intuizioni morali e spirituali che sorreggono le nostre esistenze affinché esse non rotolino via verso l’insensatezza. Ciò è provocato dal fatto che l’operazione consumistica di stravolgimento del disvalore della corruzione in valore, non ci sta facendo vivere né meglio né bene. La nuova sofferenza umana tipica dei nostri giorni, infatti, sembra provocata sempre di più proprio dall’accettazione e promozione della corruttibilità di tutto: ci getta in un’angoscia continua che si autoalimenta perché quando niente può essere incorrotto, tutto diventa inconsistente e non vale la pena di vivere per niente. Anche i legami, in special modo i legami d’amore, vengono travolti dal vortice della corruzione così che non ci si impegna più di tanto nel coltivarli, con l’esito che alla fine non possiamo più contare su nessuno. Ma questo non poter contare su nessuno trasforma la nostra convivenza in un inferno: tutto diventa un pretesto per interrompere la comunicazione, per fuggire, per bruciare i legami.
Ebbene, se stiamo male è perché le nostre intuizioni morali e spirituali ci dicono che la corruzione non può essere trasformata in valore. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che ogni volta che pronunciamo questa parola lo facciamo pensando quasi automaticamente a una deviazione e perversione dell’azione umana, evidentemente perché essa indica, nel nostro profondo, «qualcosa che ci preoccupa e addirittura ci inquieta gravemente». Ma oggi bisogna che queste intuizioni trovino una rinnovata cittadinanza nei nostri discorsi interpersonali, nei nostri scambi quotidiani, nelle nostre riflessioni e nelle nostre argomentazioni. Per dirla con Charles Taylor, il filosofo più impegnato in quest’opera di esplicitazione della nostra ricerca di autenticità, «noi abbiamo bisogno di nuovi linguaggi di risonanza personale per tornare a rendere vivi per noi cruciali beni umani».