La chiesa coreana è l'unico esempio di evangelizzazione partita non da missionari religiosi ma da semplici uomini di cultura autoctoni, e il ruolo svolto dai laici coreani non ha eguali. Dalla fine del diciottesimo secolo, poi, il cattolicesimo trovò terreno fertile soprattutto tra le classi meno abbienti e le categorie più indifese (donne e contadini) alle quali il cristianesimo riservava un trattamento egualitario. Tutto ciò finiva per rompere i rigidi schemi di casta della società del tempo, per cui il cristianesimo entrò immediatamente in conflitto con le autorità: da qui una lunga serie di persecuzioni che portarono alla tortura e all'uccisione di migliaia di martiri. Oggi il cattolicesimo in Corea sta vivendo un periodo di grande fertilità, e la visita di papa Francesco è motivo di grande gioia e nuovo fervore.
INTRODUZIONE
La chiesa in Corea nacque e si sviluppò sotto l’iniziativa del laicato, e passarono molti anni prima che un clero stabile fosse presente nel territorio. Ciononostante la predicazione del Vangelo è continuata e le comunità hanno prosperato pur subendo brutali persecuzioni. Molto prima del concilio Vaticano II e del decreto sull’apostolato della laicità, Apostolicam actuositatem (1965), in Corea già si metteva in pratica un’idea di apostolato laicale. Questo rende la chiesa coreana un caso unico al mondo.
La visita di papa Francesco è di grande significato per il popolo coreano, anche perché è al suo primo viaggio in Asia e ha scelto di venire proprio in Corea. Possiamo davvero sentire tutto il suo amore per la chiesa coreana. È una buona occasione per noi di imparare da papa Francesco che tanto rivolge i suoi sforzi e le sue preghiere agli ultimi di questa terra.
Il viaggio del papa in Corea non è solo un grande evento per la chiesa cattolica, ma anche una buona notizia per tutto il nostro paese. Sia la Conferenza episcopale coreana sia il governo hanno cercato di invitare il papa in Corea perché crediamo che la sua visita non sia solo un’occasione speciale per rinsaldare lo spirito di unità della nostra chiesa, ma è una grande opportunità per rinnovare tutto il nostro paese.
Crediamo che non sarà solo fonte di gioia per i fedeli cattolici, ma anche una festa nazionale attraverso la quale tutte le persone possono condividere una nuova speranza.
La Conferenza episcopale ha istituito un comitato di preparazione della visita papale. Lo stesso governo ha costituito un team per cooperare con la chiesa. Eppure la preparazione più importante non è nelle manifestazioni e nelle decorazioni esterne, ma è una riforma interna.
L’ultima volta che un papa visitò la Corea risale a venticinque anni fa. La prima visita di papa Giovanni Paolo II è avvenuta nel maggio 1984 quando la chiesa cattolica coreana festeggiava il suo duecentesimo anniversario. Fu il primo papa a visitare la Corea. Egli vi tornò nel 1989 per partecipare al 44° Congresso eucaristico internazionale, mostrando grande amore e interesse per la chiesa coreana tanto da visitare il nostro paese per ben due volte. I giovani in quel momento si trovavano a combattere per la democrazia contro una dittatura militare; attraverso il messaggio di pace del papa hanno trovato consolazione e coraggio nella loro battaglia. Quella visita diede un nuovo stimolo alla crescita della chiesa coreana perché da quel momento anche persone senza alcun credo religioso cominciarono a mostrare grande interesse per il cattolicesimo. Grazie alla visita di papa Giovanni Paolo II, la chiesa coreana ha fatto un grande passo verso l’evangelizzazione della società.
Preghiamo affinché la visita di papa Francesco rappresenti un nuovo inizio sia per la chiesa coreana che per la chiesa universale. Non è solo una visita pastorale per il nostro popolo, ma un annuncio che la chiesa coreana dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano nell’evangelizzazione e pacificazione di tutta l’Asia. Speriamo anche che diventi una buona occasione per presentare un’immagine dinamica della chiesa coreana e della nostra società in tutto il mondo.
Cardinale Andrew Yeom Soo-jung
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
VITA IN COREA
Ero già stato in Corea due anni fa per curiosità personale (avevo vissuto in Cina, in India e Giappone, mi mancava l’altro grande paese asiatico), e in quell’occasione intervistai per la prima volta Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul, che nel febbraio del 2014 sarebbe diventato il nuovo cardinale coreano. Ho vissuto a Seoul nel quartiere di Hongdae, dove c’è la più alta concentrazione di bar, pub, discoteche e ristoranti che abbia mai conosciuto al mondo. È un vivace quartiere studentesco, una piccola oasi giovanile al centro della grande metropoli, ma oltre alle sedi universitarie all’interno di questa cittadella si possono osservare un gran numero di chiese. La mattina, soprattutto di domenica, se ci si trova a passare accanto una di queste, si viene investiti da una piccola folla. I cristiani in Corea sono uno su tre. Di questi, un terzo è cattolico. Un recente sondaggio ha mostrato come il cattolicesimo sia la religione che i coreani ritengono più affidabile, perfino più del buddismo. La notizia sorprendente invece è che quella considerata meno affidabile è la sua «cugina carnale», il protestantesimo. Se ben il settantaquattro per cento dei coreani infatti ripone fiducia nella chiesa cattolica, solo il venti per cento ha un simile atteggiamento nei confronti della chiesa protestante, e siccome questa percentuale è più o meno la stessa del numero dei protestanti in Corea se ne può dedurre quanto sia grave il livello di sfiducia per questa parte della cristianità. Ci sono ovviamente delle ragioni. Tra queste sicuramente quella di un’evangelizzazione aggressiva e un marketing a dir poco ribaldo (basta osservare la sera lo skyline di Seoul, o Pusan, dall’alto per avere un’idea dell’infinita distesa di croci illuminate, color rosso, che certamente non esprimono modestia e discrezione di intenti) che la fa somigliare più a un’impresa commerciale che non a un’istituzione animata dalla fede più autentica. La più grande congregazione di Seoul, la Yoido Church, ammonisce apertamente i fedeli dal pensare che la ricchezza sia un peccato: tanto coerente è il pastore capo e fondatore di questa congregazione – il settantottenne David Yonggy Cho – che proprio recentemente è stato condannato a tre anni di prigione per appropriazione indebita (12 milioni di dollari) ed evasione fiscale.
I cattolici continuano invece ad avere un’ottima reputazione, specialmente per i vari impegni di volontariato che svolgono e, nonostante una leggera flessione negli ultimi anni, il numero dei fedeli è sempre in aumento: alla fine dell’Ottocento erano poche migliaia ora sono più di cinque milioni. Il periodo di grande crescita di vocazioni è stato certamente quello del dopoguerra. Quando si parla di dopoguerra in qualsiasi altra parte del mondo ci si riferisce al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, qui invece si intendono gli anni che seguono la Guerra tra le due Coree, quella del 1950-53.
E non si può non restare ammirati, quando si parla di Corea del Sud, dalla grande capacità che ha avuto questo paese di risorgere dalle proprie ceneri (la Corea era letteralmente in ginocchio dopo la guerra del 1950-53, tanto che negli anni ’60 perfino la «rivale» Corea del Nord la superava in Pil): resta famosa la frase che pronunciò il generale Douglas MacArthur: «Questo paese non ha un futuro, non risorgerà neppure tra cento anni». Oggi la Corea del Sud è la quindicesima economia al mondo per prodotto interno lordo.
Due anni fa, per un colpo di fulmine, ho cominciato a studiare la lingua coreana perché affascinato dalle agili geometrie di questo straordinario alfabeto, l’hangul. L’alfabeto coreano è stato letteralmente inventato a tavolino da un gruppo di studiosi su ordine di Sejong il Grande (tra il 1443 e il 1444) ed è anche grazie a questo nuovo vettore comunicativo se il cristianesimo riuscì a diffondersi con facilità tra le classi meno abbienti e con un basso livello di istruzione.
l re Sejong lamentava il fatto che la gente comune ignorasse i complessi caratteri cinesi che venivano utilizzati dalla classe colta. Le persone comuni non avevano modo di presentare le loro lamentele al autorità se non attraverso la comunicazione orale e non potevano lasciare ai posteri la sapienza acquisita in campo agricolo e le conoscenze accumulate in anni di duro lavoro. Per queste ragioni e per la voglia di possedere una scrittura propria e non dover più dipendere dal complesso sistema di ideogrammi cinese venne creato questo nuovo alfabeto. La Cina infatti dominava culturalmente su tutti i paesi limitrofi, il che significa che tutti i libri e i documenti importanti erano scritti in cinese. Ma la Cina non dovette mai imporre con la forza la propria egemonia (la cultura cinese godeva di un prestigio antichissimo): l’unico dovere che avevano gli stati satelliti – quali Vietnam, Corea, Isole Ryukyu (Okinawa), e perfino il Giappone – era infatti quello di dimostrare lealtà nei confronti dell’Impero di Mezzo attraverso una serie di visite tributarie, uno scambio di doni, con il quale l’imperatore cinese riconosceva legittimità ai sovrani di ogni singolo stato (una sorta di investitura) e quelli, una volta compiuto questo atto di sottomissione formale, potevano continuare in totale autonomia a gestire la vita politica e culturale del proprio paese.
Ho trovato di estrema facilità l’inserimento sociale in Corea, e posso dire – avendo vissuto anche in Giappone – che i coreani sono persone tendenzialmente più socievoli e aperte che non i dirimpettai nipponici (sempre troppo formali e ligi all’etichetta).
Basta osservare il tipico ristorante di cucina coreana, samgyeopsal (carne alla brace), dove i tavoli sono rotondi e predisposti per essere occupati da due o più persone, che appunto condividono lo stesso cibo dallo stesso piatto centrale. La tipica cucina economica giapponese, al contrario, prevede delle singole seggiole dove l’avventore è costretto a fissare lo sguardo verso un muro, e molto spesso questi spazi possono trasformarsi in vere e proprie nicchie attraverso pannelli divisori che vengono estratti per schermare il contatto, anche visivo, dagli altri commensali.
I coreani, per certi versi, somigliano invece agli italiani: parlano ad alta voce, gesticolano, guidano spericolatamente, non sempre rispettano i semafori (taxi inclusi) e, per quanto ne so, sono anche dei gran donnaioli.
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Nella mia seconda visita, due anni dopo la prima, sono andato a scavare nel passato cristiano del paese, una storia molto spesso dimenticata in Occidente, ma ricca di fervore religioso e soprattutto di originalità: abbiamo già detto che quella coreana è l’unica chiesa fondata non da chierici o religiosi ma da semplici laici.
Quello che ho trovato è una comunità molto unita, una fede nutrita in famiglia e in parrocchia (proprio come una volta), dove le donne sono di gran lunga le più attive (oltre a essere la stragrande maggioranza dei fedeli). Sono andato a visitare moltissimi luoghi di martirio, e oggi molti di questi sono santuari dove i fedeli coreani (ma non solo, basta pensare che i visitatori più presenti, dopo i coreani, sono i cinesi) si recano in pellegrinaggio. Oggi si cerca di nutrire un nuovo fermento spirituale prendendo spunto proprio dalla storia dei tanti martiri, che sono sempre lo specchio e il modello della vita cristiana in tutto il mondo, e la beatificazione dei 124 fedeli – uccisi in odium fidei – nell’agosto prossimo da parte di papa Francesco è la più preziosa di queste occasioni di rinnovamento della fede.