Un itinerario di guarigione interiore, impastato di Scrittura ed esperienza personale, che si snoda in tre direzioni: la guarigione spirituale delineata dai Salmi, storie bibliche di ferite affettive risanate, il messaggio profetico che apre orizzonti di speranza.
PREFAZIONE
di Lucio Pinkus
Premessa opportuna al mio discorso sulla sofferenza, in tutte le sue variegate espressioni e particolarmente quella psichica – oggetto del presente lavoro – è di sottolineare una caratteristica peculiare dell’Autrice: il ricorso ad alcuni libri e ad alcune categorie bibliche, associate a tre gamme di esperienza umana di sofferenza, nell’intento di aiutarci a capire qualcosa di ciò che avviene nell’interiorità, nel vissuto soggettivo di ciascuno di noi, quando l’ansia, la depressione o altre forme di disagio psichico accompagnano la nostra esistenza e, in tal modo, poter anche comprendere qualcosa sul senso, sui contenuti umani delle esperienze psico(pato)logiche e su quali prospettive si pongono. La psicopatologia clinica ci dice chi è depresso e chi è ansioso, chi è prigioniero di un’esperienza di chiusura e chi è sommerso da una dissociazione patologica.
Quest’ambito del conoscere il soffrire mentale è certamente lo sfondo su cui l’Autrice si muove, che ricorda con brevi tratti, tuttavia non rappresenta l’obiettivo del suo discorso perché lo presuppone. Malgrado la sua insostituibilità, la clinica non consente di cogliere le strutture di significato esistenziale che si nascondono nelle varie esperienze neurotiche o psicotiche, là dove queste esperienze suscitano interrogativi angosciosi sul senso stesso del vivere e costringono in un isolamento impermeabile.
Attraverso le esperienze vissute da colui che, per comodità e convenzione, chiamo l’autore del libro dei Salmi, emerge una traccia di senso, un «oltre» le esperienze che si stanno vivendo, che apre il cuore a un barlume di speranza. In questo spazio l’Autrice ricompone percorsi che potremmo dire francamente terapeutici, dall’effetto curativo sulle ferite del cuore. Il confronto con coloro che, millenni orsono, hanno vissuto esperienze simili alle nostre, esprimendole con apertura e franchezza, ci mostra come essi – quasi scalando delle rocce e aggrappandosi a spezzoni di pietra – siano riusciti a far echeggiare una presenza che, appunto, porta oltre la condizione di disperazione e come, perfino nel persistere della condizione di sofferenza, tuttavia abbiano saputo canalizzare le proprie energie verso un orizzonte di senso. All’atteggiamento d’isolamento non viene concessa, dunque, l’ultima parola perché il sofferente, guidato dal terapeuta-salmista, si accorge o si ricorda che vi è Qualcuno che ha cura di lui, che egli non è abbandonato a se stesso, come l’esperienza presente o passata potrebbe indurre a pensare. La scrittura poetica dei Salmi facilita un linguaggio emotivo, il riemergere di emozioni, anzi la costruzione di un dialogo emotivo tra il sofferente e Dio.
Avviene così che, tanto il soggetto che soffre quanto chi gli sta attorno, si rendono conto di doversi cimentare con problemi impregnati di umanità e assai comuni a ciascuno di noi, come sono quelli dell’ansia e della depressione. I confini fra «malattia» e «non-malattia» oscillano e si confondono, ma il fatto di sapere che l’angoscia e anche la depressione sono parte intrinseca della nostra condizione umana non può non destare in ciascuno di noi la coscienza di una comune solidarietà, nella quale riconoscersi «sani» e «malati», «ancora-sani» e «non-ancora-malati», in una circolarità di esperienze e di reciproche immedesimazioni.
L’ansia (l’angoscia) può dunque creare solidarietà e comunicazione ma, nel contesto delle infinite contraddizioni della vita, essa può anche separare e isolare. Forse, il coraggio necessario per l’apertura a una reciproca solidarietà, come viene delineata nel Salterio, contiene molte opportunità e altrettanti rischi, tuttavia si tratta di un’esperienza infinitamente umana e terapeutica.
Un altro ambito di ferite del cuore che l’Autrice tratta, servendosi questa volta del registro della narrazione, riguarda l’amore, l’eros, la passione. Queste esperienze sono considerate nel loro paradigma enigmatico: desiderare, sperare, intravedere una possibilità di realizzazione per se stessi si scontrano con la natura stessa dell’amore, che è essenzialmente porsi in relazione all’altro, dove i due smettono di impersonare ruoli, di compiere azioni orientate a uno scopo e, nella ricerca della propria autenticità, ciascuno diventa diverso da com’era prima della relazione, svelano l’uno all’altro diverse realtà, si creano reciprocamente ex novo, cercando nel tu il proprio se stesso. Non di rado però, più che una relazione all’altro, l’amore appare come un culto esasperato della soggettività, in perfetta coerenza con l’individualismo esorbitante a cui non cessa di educarci la nostra cultura, per la quale l’altro è solo un mezzo per l’accrescimento di sé.
Nella prospettiva del soggetto orientato in senso biografico-terapeutico, l’amore ha la radice dei propri entusiasmi e delle proprie sofferenze non tanto, come si crede, nelle conseguenze dei vissuti della prima infanzia, suscettibili di trattamento psicoterapeutico, quanto nella sua stessa dinamica intrinseca, per la quale l’identità chiusa di ciascuno di noi fa esperienza della propria esposizione all’altro, per tornare disillusa dalla scoperta che l’altro era solo un pretesto per quella realizzazione di sé che, dovendo attuarsi nel contesto di una società conformata sulla razionalità normativa (come nei casi citati) o sulla logica tecnologica attuale, sembra non poter disporre di altro luogo espressivo che non sia l’intimità.
Ma quando l’intimità è cercata per sé e non per l’altro, l’individuo non esce dalla sua solitudine e tantomeno dalla sua impermeabilità, perché già l’intenzione di reperire se stesso nell’amore soffoca ogni moto di trascendenza, di eccedenza, di ulteriorità, che può spingerlo a mettere in gioco la propria autosufficienza intransitiva e ad aprire una breccia o anche una ferita nella propria identità protetta. Una sorta di rottura di sé, perché l’altro lo attraversi. Questo è l’amore. Non una ricerca di sé, ma dell’altro che, naturalmente a nostro rischio, sia in grado di spezzare la nostra autonomia, di alterare la nostra identità, squilibrandola nelle sue difese. L’altro infatti mi altera, a meno che non passi vicino a me come si cammina lungo i muri; senza questa alterazione che mi spezza, mi incrina, mi espone, come posso essere attraversato dall’altro, che è poi il solo che può consentirmi di essere, oltre che me stesso, anche altro da me? Questa vicenda conosce anche le vie del paradosso: la violenza, la strumentalizzazione e perfino la morte per il possesso – non dunque l’incontro – dell’altro da me.
Per essere autentico, l’amore non può consistere nella ricerca di sé che passa attraverso la strumentalizzazione dell’altro, bensì dev’essere un’incondizionata consegna di sé all’alterità che incrina la nostra identità: non per fondersi con l’identità dell’altro, né per evadere dalla nostra solitudine, ma piuttosto per aprirla a ciò che noi non siamo e che possiamo divenire solo nell’incontro. Di fronte ai rischi e alle delusioni dell’amore, alle sue confusioni con l’eros slegato dalla radice di un’etica dell’incontro, emerge il senso di solitudine, di desolazione, di abbandono. In questo l’Autrice, riprendendo dai testi biblici, ci riconduce all’esigenza nascosta di un Tu affidabile, di un Tu accogliente e persino gratuito nell’assecondare la mia sete di amore, un Tu che la tradizione biblica chiama appunto Dio. Qui si ricompone finalmente l’armonia dell’incontro, quando diveniamo consapevoli che la solitudine del cuore è talmente abissale, che non può essere raggiunta da nessuna voce umana. Scopriamo che l’intensità della passione non trova corrispondenza nell’amore e nell’ira che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi. Solo quando scopriamo che la vicenda dell’amore sazia la nostra sete, quando si svolge alla ricerca e sotto il sorriso, che è offerta di amore, e che chiamiamo appunto Dio, allora la relazione si apre sull’atemporale e sull’illimitato che ogni autentica relazione d’amore dischiude.
Infine, l’Autrice usa il registro profetico per leggervi domande e risposte, imprecazioni e invocazioni, che segnano il percorso esistenziale. In particolare, vorrei sottolineare quanto è importante il rapporto tra il concetto di fedeltà e angoscia, disorientamento, sensi di colpa, perdita di identità individuale e/o collettiva (qui riferita al popolo d’Israele). I brani scelti e proposti disegnano situazioni, in cui il profeta descrive ciò che accade a chi non è stato fedele a se stesso e a Dio, nonché la sequenza di comportamenti (incoerenze, tradimenti, predominio sfrenato delle proprie passioni, cupidigie di vario tipo), che sfociano infine nell’esperienza angosciosa: una solitudine che non conosce limite, perché persino Dio viene vissuto come adirato per le infedeltà e dunque, da un certo punto di vista, come minaccioso e pronto alla vendetta. Qui non è importante la constatazione che si tratta di un linguaggio antropologico, bensì il fatto che il registro profetico mette a nudo ed esalta i vissuti concreti di persone, di gruppi e perfino del popolo intero.
In questo caos magmatico la parola profetica riporta un senso, una forma di chiarezza, un’apertura oltre il buio. Nelle parole di chi sta male, di chi è immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso alla vita – di un qualunque senso, purché sia – affiorano drammaticamente l’importanza e i significati della speranza, nonché dei suoi naufragi. Questi si concretizzano nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiamento, nel dilatarsi di presente e passato e, per contro, nell’inaridirsi dell’avvenire: di esso sopravvivono semmai solo alcune brecce che non danno sollievo e che non creano comunione – e comunicazione – con il mondo delle persone e delle cose. Lo svaporarsi della speranza dischiude gli artigli della solitudine e dell’isolamento, che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri. Quando ciò avviene, quando la disperazione depressiva, o esistenziale, svuota di senso la vita e la morte volontaria diviene una delle conseguenze possibili, è decisivo saper offrire ascolto e valutare se, pur nella condizione depressiva o esistenziale, siano tuttora conservati aperti degli spazi per un’attesa e una speranza: una qualsiasi attesa e speranza che, nel contesto di cui parliamo, possano essere ridestate e riattivate.
Risalta qui l’aspetto sanante del discorso profetico. I profeti portano in queste situazioni un particolare tipo di speranza, che potremmo chiamare una speranza dell’anima. Questa speranza non è definita dal suo oggetto – la cosa in cui sperare, se sia essa raggiungibile o meno – bensì dalla qualità di una psiche aperta e ricettiva. Certo, le modalità di vivere l’apertura verso la realtà e il modo di recepirla si coniugano con le diverse strutture e stili cognitivi della personalità, quindi questi elementi vanno riconosciuti, anzitutto in se stessi e poi negli altri. La speranza dell’anima è come una scintilla, che diviene la chiave anche per uscire dalle «ombre della morte». Per sperare davvero bisogna saper vedere acutamente, cogliere accuratamente, leggere tra le righe, imparare a scrutare l’inizio dell’alba. Come già detto, speranza e desiderio spesso si confondono, ma è proprio la speranza dell’anima che più chiaramente si stacca dal desiderio e dalla volontà centrata sull’io.
Certamente la speranza ha a che fare con il futuro e anche con l’attesa e con le aspirazioni, lo sguardo ottimistico, la fiducia e la fede; tuttavia, sul piano psicologico, essa consiste anche nella possibilità e nella capacità di osservare la realtà come in trasparenza, opponendo la luce a qualcosa di opaco. Si tratta di un intra vedere – vedere attraverso – che è tra i significati meno spesso attribuiti alla parola sperare. È un volgersi verso il futuro, con la disposizione a captare i modi con cui le ombre si dileguano.
Per i profeti, dietro questa dinamica della speranza c’è l’azione di Dio. Nonostante quanto si legge in altre pagine a proposito della sua ira, del suo rapporto così conflittuale con chi gli è infedele, alla fine del percorso si staglia un Dio che risana ogni ferita, dà sollievo ai cuori afflitti, restituisce alla vita quanti sembrano morti. La forza di queste immagini è ben veicolata dalle parole profetiche che l’Autrice propone e ci riconduce a un orizzonte di speranza che, sola, consente di ricostruire un senso di vita e di fiducia, tornando a una fedeltà a se stessi e a Dio, che così ci rende creature nuove.
Il libro è quindi un percorso vitale sull’essere feriti e sul ferire: azioni sempre attuali, che la crudezza ma anche la bellezza del Primo Testamento ci consente di cogliere, quasi portandoci a una nostra identificazione con le situazioni descritte e, comunque, offrendoci chiavi di lettura che ci permettono di vibrare così negli avvenimenti dell’oggi, con la stessa intensità di quanto è già stato vissuto; in definitiva, offrendo un orizzonte quasi unitario dove l’esperienza umana più dolorosa ritrova senso e nuova esistenza nel Dio che salva.
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Don Andrea De Matteis il 4 novembre 2014 alle 10:21 ha scritto:
Un buon testo di integrazione tra psicologia e spiritualità!
Maristella Ferrari il 4 luglio 2019 alle 12:43 ha scritto:
È una carezza all'anima, ma prima il grido della sofferenza, attraverso i Salmi, poi la consapevolezza e alla fine la gioia di sentire il Signore chino a fasciare le nostre ferite. Se stai soffrendo, lascia che attraverso il salterio questo testo di guidi verso un vero e proprio percorso di guarigione.