Due interventi brevi e profondi intorno al silenzio, tema cruciale sia per la riflessione religiosa che per l'analisi della società contemporanea. Una dimensione costitutiva dell'uomo sempre più messa a rischio, con la conseguenza di parole svuotate di senso in un inutile, diffuso brusio. Il biblista ed ebraista Piero Stefani parte dalla Bibbia (che in quanto racconto scritto rappresenta un primo, insuperabile ammutolirsi della parola divina) per indagare la sfida dell'apparente silenzio di Dio davanti a situazioni come Auschwitz o la storia di Giobbe. Il filosofo Silvano Zucal propone un approfondimento su questa ricchezza dell'umano a partire dalla dialettica costitutiva tra il silenzio e le parole, considerando i rischi di una parola che smarrisce senso e comunità.
INTRODUZIONE
Il silenzio di Dio e degli uomini
Ssssssssh!!!! Mamma e papà fremono nell’attesa dei primi suoni gutturali (e incomprensibili, checché se ne dica) del loro pupo, per poi vedersi, subito dopo, costretti a insegnargli a… fare silenzio. Ordinandoglielo e persino «mostrandoglielo» visivamente con tanto di indice al naso. Magari pure alzando la voce e urlando, cosa che quanto a coerenza educativa, è come volere la pace facendo la guerra. Il piccolo dovrà fare silenzio per non disturbare, perché non sono discorsi da bambini, perché non si sa come rispondergli o che dirgli, perché quando si mangia non si parla, perché papà deve ascoltare il tiggì, perché non è educato ripetere tutto come pappagalli, o solo perché «finalmente un po’ di quiete». Sarà pure strano, ma è così: si fa di tutto per insegnare a qualcuno a parlare, per poi metterci una vita a convincerlo che deve piuttosto far silenzio: il silenzio è d’oro, non bisognerebbe mai perdere l’occasione di star zitti, ne ferisce più la parola che la spada, chi fa la spia non è figlio di Maria viene il diavolo e lo porta via, acqua in bocca, verba volant e via discor- rendo.
Forse la nostra «ominità» si gioca proprio tutta attorno a questa dinamica tra parola e silenzio. Forse abbiamo cominciato a essere un tantino più uomini quando abbiamo interrotto il silenzio tra di noi, chiamandoci, dandoci del tu, condividendo sentimenti, progetti, paure, comunicandoci idee e pezzetti di esperienze, cantando assieme, pregando assieme, facendo domande e cercando risposte.
Forse l’uomo è nato in cerchio attorno al fuoco, quando a qualcuno è venuto in mente di «prendere la parola» e di raccontare una storia, mentre qualcun altro ha prestato il suo attento ascolto.
Forse, come diceva piuttosto il grande poeta Rilke alludendo al racconto biblico della creazione, noi siamo venuti al mondo per dire muro, albero, colonna, animale: perché da un’eternità tutto quel ben di Dio aspettava solo che qualcuno lo riconoscesse, nominandolo, e così facendolo esistere. Perché si esiste solo per qualcuno, se qualcuno ci chiama per nome, se il silenzio che ci circonda è infranto da una voce amica…
Ma, forse, abbiamo cominciato a essere un pochino meno uomini quando abbiamo iniziato a gridare, pure più forte degli altri, a interpretare le parole, a mettere in circolo parole «brutte», a urlarci addosso, a non rispettare più le pause di silenzio, a tenere comizi dai balconi, a erigere slogan tra di noi, a innalzare muri di parole incomprensibili, a togliere la parola a qualcuno, a zittire qualcun altro, a dire «mio», a usare le parole per offendere e insultare. A fare delle nostre parole niente più che vuoti gusci, vacui seppur seducenti suoni per accarezzare i sondaggi del potere.
Quando abbiamo spinto qualcuno a bestemmiare o gli abbiamo strangolato la parola in gola. Quando abbiamo ritenuto di poter racchiudere tutto, e perciò tutto possedere, nelle nostre parole, quasi potesse esistere solo ciò che noi andiamo dicendo. Ed è stata la torre di Babele, anche questa di biblica memoria. Ed è stata la confusione delle lingue. Forse la nascita dell’odierna nostalgia di silenzio data alle rovine di quella torre.
È paradossale: per parlarne bisogna romperlo! E per ascoltarlo, bisogna che tutto attorno a noi e in noi taccia. È sfuggente come un’anguilla il silenzio, ma senza di esso, sapientemente dosato, la Nona di Beethoven non sarebbe nemmeno stata composta: è grazie a esso che si possono sensatamente mettere in fila le note o le nostre parole, e se ciò che ne viene fuori non è un ammasso caotico e incomprensibile di suoni. Al punto che non sappiamo dire se siano la parola e il suono a interrompere il silenzio, o se sia il silenzio che interrompe lo scorrere dei nostri suoni.
Forse per questo, in una società «rumorosa» come la nostra (persino l’attesa silenziosa al telefono ci hanno tolto!), se ne sente così tanto il bisogno. Il silenzio è una componente profonda dell’umanità, soprattutto di quella che vive anche di spiritualità, e infatti ogni religione vi concede uno spazio privilegiato. Un silenzio che è solo funzionalmente esterno, e in alcune tradizioni o luoghi persino rigido, anche se è esattamente quello che ti salta immediatamente addosso quando varchi il portone di un monastero benedettino o la più umile porticina di un eremo francescano della Valle Reatina: un «grande» silenzio che ti sorprende, inizialmente ti atterrisce e tu speri che almeno il telefonino ti venga in soccorso. Un assordante silenzio che ti fa male persino ai timpani delle orecchie, ma che in realtà amplifica la «capacità di ascolto». Non è vero che non si sente niente: si comincia in realtà a sentire ben più di prima, attorno a sé, ma soprattutto dentro se stessi. Smette di essere imbarazzante, anzi, crea correnti di relazione e di comunione profondissime. È un silenzio «fragoroso», abitato da mille voci. O forse da una sola: quella di Dio! La nostalgia di tale silenzio ti rimane dentro per sempre.
E nel silenzio di Dio, il più terribile di tutti i silenzi, si addentra Piero Stefani. Forse proprio ribaltando un approccio, il nostro, dove Dio dovrebbe proferire una parola ogni volta che a noi serve.
Ma in realtà il silenzio è, prima di ogni altra cosa, un bisogno del tutto umano, che definisce paradossalmente l’uomo, sembrerebbe insinuare Silvano Zucal: staccare la spina, chiudere i contatti, ascoltare il rumore del vento, sostare alle soglie di un deserto o sulla riva del mare… Ci siamo inventati un’infinità di «protesi sonore» (microfoni, altoparlanti, stereo, cuffiette, ipod, suonerie), ma ciò che è aumentato sembrano solo i decibel in cui viviamo quotidianamente immersi.
Nel sogno di fare del silenzio, religiosamente e umanamente parlando, la lingua comune dell’umanità, di tutta l’umanità, comprensibile a grandi e piccoli. Tutto sommato, tutte le altre parole hanno bisogno di essere tradotte ogni volta che si varca un confine o si cambia codice culturale e religioso. Il silenzio, no. Parla lo stesso linguaggio a qualsiasi latitudine, e non necessita di traduttore simultaneo. E se proprio ad un certo punto esso deve «essere rotto», come si diceva al momento della ricreazione nella tradizione monastica, che lo si faccia unicamente per incontrare i fratelli e le sorelle. Quando l’esperienza dello Spirito ci dà di poter ciascuno continuare pure a parlare la propria di lingua, ma contemporaneamente di capirci tutti tra di noi.