Un interessante e documentato studio sul settimanale «Domenica», per capire come, anche nel tempo dei new media, ciò che rimane costante nel percorso di un giornale di cultura è la centralità dell'umano, con il suo complesso e irrinunciabile bisogno di verità.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. La società plurale e il suo bisogno di media
Sommersa dai media: quest’espressione rubata a un esperto americano appare particolarmente adeguata a descrivere la società in cui oggi viviamo. Perché dice bene della presenza massiccia e pervasiva di old e new media, innestati in forme e modi diversi in ogni istante delle nostre giornate. Dallo smartphone, in grado di aprirci – con un polpastrello che sfiora uno schermo – una finestra sull’oceano di Internet, alle ultime notizie che sfilano oggi anche sul display del telefono fisso di casa o nei grandi schermi delle sale d’attesa in aeroporto e in autogrill.
Una tale inondazione di informazione, capace di raggiungerci ovunque, di portarci l’universo mondo in casa senza tregua, e d’altra parte la nostra ricerca dell’attenzione dei media per affidare loro le nostre notizie, le nostre opinioni, il lancio degli eventi di cui siamo promotori (basti pensare a come si moltiplicano oggi gli uffici stampa che servono a incalzare a loro volta i media), sono l’espressione più concreta e manifesta di un bisogno nostro e della società in cui viviamo: è la nostra particolare società che chiede i media, ne ha bisogno a tanti livelli. Siamo inseguiti dai media almeno tanto quanto li cerchiamo e ne abbiamo bisogno.
Un fenomeno che, se viene analizzato freddamente, appare intrecciato strettamente alla natura stessa della nostra società, una natura plurale. L’aggettivo plurale non è un semplice sinonimo di molteplice, ma rimanda alla struttura dinamica della società, alla sua complessità, alla sua composizione articolata che urge e chiede di essere detta, di essere raccontata. Essa, cioè, è costituita di vari soggetti in campo che, per rispondere al dato di fatto di essere tanti e diversi che vivono insieme, hanno bisogno di narrarsi in vista di un reciproco riconoscimento.
Tale narrazione per il riconoscimento è senz’altro un processo complesso, articolato, dal quale nessuno può illudersi di chiamarsi fuori e al quale possono concorrere in modo rilevante e positivo i media. Detto in altro modo, tale complessità – che si traduce in una fitta trama di rapporti tra diversi, di vicinanze e contrapposizioni, di maggioranze e minoranze, di riconoscimento di diritti non sempre fondamentali, di incroci di culture e tradizioni – contiene in sé per ciascuna di queste componenti il germe del bisogno di conoscere e di essere conosciuta, quindi di dirsi, di comunicare e comunicarsi.
Si può azzardare e sostenere che di media adeguati abbiano bisogno – in un certo modo li pretendano – le stesse relazioni-tensioni interne alla società, le sue tante anime. Che fiorisca dal cuore stesso dell’identità complessa della società plurale la domanda di media, cioè di strumenti utili e per certi versi indispensabili per il racconto di sé: un racconto necessario per provare a spiegare e quindi conciliare le tensioni interne, per arrivare a contribuire alla costruzione di un’armonia, una coesione sociale, che qualcuno non teme di chiamare vita buona personale e comunitaria. Ma quanto incidono i media nella formazione dell’idea di bene comune? Sono davvero in grado giornali, radio e televisione di influenzare l’idea di uomo che anima il tessuto di una società? Se sì, in che misura? Con quali strumenti? Per caso, per un intrecciarsi caotico di avvenimenti, sensibilità e riprese o secondo un disegno prestabilito, un progetto predefinito? Nell’epoca delle grandi mutazioni tecnologiche e dello sfondamento di tutte le vecchie barriere e limiti nell’ambito della comunicazione, nel tempo dell’ipad, dell’iphone, dei touch screen, di paesi interi connessi wireless, verso dove volge l’informazione e in particolare quella culturale?
Queste domande diventano sempre più incalzanti oggi con l’evoluzione inarrestabile della tecnica: i mezzi di comunicazione sono sempre più sofisticati e potenti, sono senza fili, a simbolizzare l’acquisita sconfinata libertà da vincoli di ogni genere, sempre più invadenti nella vita quotidiana. Siamo sotto assedio. I nuovi device sono nelle mani dei più piccoli (bambini di tre anni usano l’iphone con immediatezza) come dei più anziani, entrano in ogni piega del quotidiano e in qualsiasi situazione, nei luoghi più intimi di casa come negli spazi pubblici. Per gli adolescenti sono prolunghe della mano, digitano senza bisogno di guardare la tastiera.
Le metafore sull’invadenza dei media si sprecano: sono il rumore di fondo della nostra vita, l’agorà del nuovo millennio, l’acquario in cui nuotiamo, la marea che ci travolge, il martello pneumatico nelle nostre giornate….
Ma se oggi la questione media si presenta con imponenza per la rapidità con cui il mercato ci propone continuamente nuovi strumenti sempre all’avanguardia, già negli anni ’40 lo scrittore inglese Clive Staples Lewis aveva intuito e descritto il cuore del loro potere: essi possono costituire un’opportunità straordinaria per fare il bene, ma anche una minaccia subdola per gli uomini. Tutto dipende dal modo in cui questo potere viene gestito e dal soggetto che lo detiene.
Un dialogo nel suo romanzo Quell’orribile forza aiuta a comprendere questo.
Attraverso una trama fantastica, costruita con punte di estremo realismo, questo libro indaga l’eterna tentazione degli uomini di ri-creare in laboratorio una nuova umanità, un genere umano «perfetto» al punto da non essere più costretto ad avvertire la fatica degli affetti, delle gioie o dei dolori. Con il supporto anche di certo giornalismo colluso con i potenti.
2. «Sono i lettori colti quelli che si possono imbrogliare…»
Il protagonista, Mark, giovane in carriera, aspirando con tutto se stesso a essere ammesso a una cerchia esclusiva di scienziati del «Progresso», accetta di compiere una missione particolare che gli viene assegnata: riabilitare a mezzo stampa di fronte all’opinione pubblica un criminale già condannato da regolare processo e ghigliottinato. Lo scopo ultimo di quest’azione rientra in un piano diabolico e articolato, al giovane del tutto ignoto.
Il dialogo tra Mark e Miss Hardcastle, la «Fata» che gli affida l’incarico, è illuminante a proposito del potere effettivo riconosciuto da Lewis alla stampa, in particolare a un certo tipo di «piani» mediatici che sanno influenzare, addirittura forgiare l’opinione pubblica. La loro forza risiede nella capacità di penetrare l’attenzione di chi legge, con più rintocchi, e intervenire nel modo in cui vengono percepite l’attualità, la storia, l’economia, la politica, ma anche più profondamente la stessa natura umana e l’idea di bene comune:
La Fata annuì. «Sarà riabilitato» disse. «Un po’ alla volta. Ho un fascicolo con tutti i fatti che lo riguardano. Comincerai con un articoletto dimesso, semplice semplice… senza mettere in discussione la sua colpevolezza, almeno all’inizio, accennando solo al fatto che era un membro del loro governo collaborazionista e che quindi erano tutti prevenuti contro di lui. Non metti in dubbio – dirai – che il verdetto sia stato giusto, ma sgomenta pensare che quasi sicuramente sarebbe stato identico anche se l’imputato fosse stato innocente. Poi, dopo un paio di giorni proseguirai con un articoletto di tono diverso. Un resoconto divulgativo sul valore del suo lavoro… Poi una lettera… A quel punto…».
[…] «Non credo che possiate fare una cosa del genere. Non con i giornali letti da gente istruita».
[…] «Che sciocco sei! Sono i lettori colti quelli che si possono imbrogliare. La vera difficoltà sono gli altri. Quando mai hai conosciuto un operaio che crede a ciò che dicono i giornali? Parte dal presupposto che fanno solo propaganda quindi salta a piè pari gli articoli di fondo. Compra il giornale per i risultati delle partite di calcio, per i trafiletti sulle ragazze che cadono dalla finestra […]. È lui il nostro problema: dobbiamo cambiargli la testa. Ma le persone istruite, quelle che leggono le riviste intellettuali, non hanno bisogno che gli si cambi la testa. Vanno già bene così come sono. Credono a tutto».
«Sono i lettori colti quelli che si possono imbrogliare»: con una simile espressione Lewis sbaraglia uno dei luoghi comuni più consolidati, per cui coloro che sembrano al sicuro, armati della loro cultura, sarebbero in realtà quelli più vulnerabili. E il motivo della loro debolezza risiederebbe proprio nella loro propensione a leggere i corsivi, gli editoriali, dai quali si lascerebbero inconsapevolmente manipolare.
Un paradosso che, considerando l’epoca in cui viene scritto il romanzo, la metà del ’900, lascia intravedere come l’autore avesse intuito il potenziale enorme che poteva scaturire dall’intreccio tra media e sviluppo tecnologico, la sua pervasività e la sua incidenza nella stessa percezione della realtà. Se non addirittura nella costruzione di un’altra realtà verosimile, ma non vera.