Il testo invita ad accogliere la fragilità umana nella sua interezza e a coglierne gli aspetti positivi e fecondi. È una sfida da affrontare sia a livello sociale che individuale, una sfida capace di speranza.
PREFAZIONE
di Érik Pillet
«Le fragilità continuano a essere vietate?»
Quando in Francia l’Arca ha promosso la riflessione collettiva sulla fragilità, abbiamo constatato con stupore quanto questo termine sia sempre più diffuso. Lo ritroviamo un po’ ovunque, in bocca ai politici, ai commentatori di attualità e alle persone impegnate nel sociale. Sarà una moda? Sarà la nota sindrome dell’uomo che, quando la moglie è incinta, intorno a lui nota molto più del solito le donne che aspettano un figlio? Oppure la diffusione del termine è reale, conseguenza e al contempo espressione di questi tempi, segnati da una profonda crisi economica e turbati da ogni tipo di incertezza, sociale, ambientale e morale?
Propendo per la seconda alternativa: abbiamo affrontato, anticipandolo, un fenomeno molto attuale. Il successo del primo seminario svoltosi a Tolosa nel gennaio 2009 sul tema «Fragilità vietate», organizzato in collaborazione con l’Arca in Francia rappresentava un primo indizio. Il secondo incontro, che a febbraio 2011 ha riunito a Lione più di millecinquecento persone e ha portato alla pubblicazione di questo volume, lo conferma. Rimane dunque una domanda: perché oggi la fragilità sembra provocare più reazioni rispetto a quanto avveniva in passato?
Sicuramente non perché la società sia sottoposta, ai giorni nostri, a più fragilità di ieri: la storia è stata segnata da periodi molto più bui. Gli uomini non sono più fragili, la vita media non è mai stata così lunga e, nonostante inaccettabili disparità, la speranza di sopravvivenza generale continua ad aumentare. Non si può nemmeno affermare che ci siano più catastrofi naturali che in passato, malgrado i drammi recenti di cui siamo stati testimoni.
Forse la globalizzazione e l’eccesso di informazioni fanno di noi il «ricettacolo» immediato di tutte le fragilità del mondo, colpendoci dal punto di vista psicologico? È forse la sensazione dell’imminente fine di un ciclo nei nostri vecchi paesi sviluppati, la caduta dell’incrollabile fiducia in un progresso continuo che avrebbe ridotto automaticamente le ineguaglianze, migliorando di generazione in generazione la vita dei figli, un nuovo approccio più critico all’intelligenza tecnica come unico strumento per risolvere una gran quantità di situazioni umane difficili? È forse il segno di un paese «psichicamente stanco», come aveva diagnosticato Jean-Paul Delevoye, mediatore della Repubblica, nel suo rapporto del 2010?
Al termine di questo seminario, ciò che possiamo comunque affermare è che probabilmente, a quanto sembra, la sensazione di fragilità non è mai stata così intensa come oggi.
In che modo la società affronta la questione della fragilità?
Prima constatazione: il nostro mondo ha un problema con la fragilità. Individualismo sfrenato, tirannia del successo a ogni costo, esaltazione di una normalità spesso disumana che arriva sino alla folle ricerca della «qualità totale» nell’ambito della procreazione: tutti questi elementi vanno ad aggravare la pressione di un tempo che continua ad accelerare. Questo lascia ben poco spazio al riconoscimento della fragilità, considerata come qualcosa da eliminare, contro cui bisogna lottare con ogni mezzo. Presi dall’ansia da prestazione, che ci fa dimenticare il senso e la finalità delle nostre azioni, corriamo il rischio di agire come se questa fragilità non esistesse, oppure di strumentalizzarla, orientandoci verso situazioni etiche impossibili da risolvere. Così ci sembrerà più facile non vedere le persone fragili, cercheremo di renderle invisibili, oppure di occuparci di loro facendole diventare oggetti della nostra solidarietà, senza riconoscere davvero la loro dignità fondamentale e la capacità che hanno di contribuire al loro futuro. La realtà è che, malgrado gli sforzi lodevoli per compensare, riparare e integrare, la nostra società non fa che aumentare la fragilità, generando nuove fragilità, spesso più intime, più psicologiche e, purtroppo, più diffuse.
Seconda constatazione: la fragilità è un problema che riguarda ognuno di noi. O perché fa parte di noi e fatichiamo a convivere con essa, ad accettarci per come siamo (spesso poco aiutati dallo sguardo di chi ci sta intorno), oppure perché è presente negli altri e perciò ci dà fastidio, ci turba e ci mette a confronto con i nostri stessi limiti. Non sarà poi che in questo tabù della fragilità si inserisce anche una specie di superstizione che ci porta a rifiutarla per paura di esserne contagiati anche al solo nominarla? Così assumiamo sempre un atteggiamento di protezione, ci ripieghiamo su noi stessi mettendoci sulla difensiva, rifiutiamo di aprirci: strumentalizziamo gli altri invece di stabilire con loro relazioni di gratuità che portano alla nascita di rapporti autentici.
Eppure la fragilità è ovunque, fa parte dell’ambiente in cui viviamo, della nostra natura, è un elemento comune a tutto ciò che esiste intorno a noi. Non esiste nulla che sia assolutamente indistruttibile e anche le pietre più dure sono soggette all’erosione. Sappiamo, grazie ai filosofi, che la nostra condizione mortale e l’angoscia esistenziale che l’accompagna ci spingono a costruire qualcosa per durare, per lasciare una traccia di noi. Nella nostra condizione di fragilità esistenziale che evoca la precarietà, l’instabilità, la debolezza e addirittura il fallimento, aspiriamo alla solidità, alla forza e alla durata/eternità. Sul piano personale, la fragilità ci obbliga a confrontarci con il mistero della finitudine e della morte, su quello collettivo ci pone di fronte alla questione dell’accettazione delle nostre differenze e della capacità di creare una relazione vera ed equilibrata con gli altri.
In gioco non c’è prima di tutto la fragilità in sé, e neppure la constatazione che siamo tutti fragili, perché questa è la realtà, che lo vogliamo ammettere o no. La questione vera riguarda il nostro rapporto individuale e collettivo con queste fragilità, lo sguardo che rivolgiamo loro e le condizioni relazionali, sociali e politiche che influenzano la nostra vita comunitaria, distruggendola o rendendola più vivibile, più umana, più feconda. Sono proprio questi gli argomenti che abbiamo voluto approfondire in questo testo, facendo diagnosi, incrociando punti di vista e discipline, affrontando il tema della fragilità in modo globale, condividendo le nostre fragilità personali nei diversi momenti dell’esistenza e nei vari ambiti della nostra vita sociale. Lucidità, speranza e impegno: queste tre parole esprimono l’approccio che abbiamo scelto.
Lucidità: pur essendo consapevoli che l’accoglienza delle nostre fragilità può essere fonte di umanizzazione, non intendiamo in nessun modo esaltare il fatto di essere fragili e ignorare le sofferenze che possono risultare da questa condizione. Le diagnosi proposte e condivise dai partecipanti indicano che non c’è posto per un atteggiamento puramente spiritualista, ma che, al contrario, è necessario sviluppare una grande sensibilità nel rapporto con l’altro.
«C’è un solo modo per affrontare la fragilità: in punta di piedi. Prima di tutto perché quella che incontriamo negli altri è la stessa che portiamo dentro di noi. In secondo luogo perché l’esperienza della fragilità può essere sia un momento di grazia che un confronto insopportabile con la sofferenza e il male. La fragilità, infatti, ci rimanda al mistero dell’essere umano», scrive Bernard Ugeux.
Speranza: crediamo nella possibilità della trasformazione del nostro modo di essere, dello sguardo che rivolgiamo agli altri e a noi stessi. L’umiliazione e il disprezzo suscitati dalla fragilità non sono una fatalità. Crediamo al cambiamento delle nostre azioni e delle nostre politiche al fine di riuscire, singolarmente e collettivamente, a costruire quel modo migliore di vivere insieme a cui tutti aspiriamo. Infatti, come abbiamo accennato, nessuno può essere ridotto alle proprie fragilità, ma queste ultime esistono nel loro «potenziale di relazione e di vita». Il difetto, quindi, è anche apertura che significa che non bastiamo a noi stessi, ma abbiamo bisogno degli altri. Le nostre fragilità ci permettono di dire chi siamo, definiscono la nostra individualità e possono esprimere molto di più di una mancanza.
Impegno: dobbiamo darci da fare per rendere più umana la vita intorno a noi e nella società. Le riflessioni raccolte in questo volume ci invitano a essere testimoni e protagonisti di questa rivoluzione dello sguardo, dei cuori e dell’intelletto, così necessaria nel nostro mondo. Questo impegno non si colloca nell’ambito dell’azione solidale o della compensazione, ma in quello del riconoscimento. Si tratta di elevare a un livello superiore le persone fragili, considerando che esse contribuiscono a trasformare e arricchire le nostre rappresentazioni del mondo, e ci aiutano a essere creativi nelle azioni e nelle scelte. Il nostro approccio consiste nel «provare» la fragilità, cioè farne un’esperienza reale e avere il coraggio di esporci. In queste condizioni possiamo realmente dare la parola, metterci all’ascolto, cioè alla scuola della persona fragile; non fare le cose al suo posto, ma imparare da lei. Dobbiamo impegnarci in una logica di alleanza con i più fragili: non impartire una lezione alla società, ma partecipare a una formidabile avventura collettiva che apre prospettive insospettate e ci aiuta a uscire da impasse relazionali e sociali.
Potrebbe stupire che l’Arca di Jean Vanier, specializzata in handicap mentale, organizzi un seminario generico in cui, effettivamente, si è parlato poco di disabilità. In realtà, e fin dalla sua creazione, nel 1964, l’esperienza di questa associazione dimostra che è proprio grazie alla costruzione di relazioni di reciprocità con i più fragili che diventiamo realmente più umani insieme e costruiamo una società più umana. Nelle comunità dell’Arca, in cui accogliamo adulti con deficit intellettivi, facciamo tutti l’esperienza della fragilità. I disabili mentali con cui viviamo non sono forse l’archetipo della persona fragile? Di solito le caratteristiche più visibili sono una forte dipendenza, un debole contributo produttivo, un handicap congenito. Accanto a loro sperimentiamo il valore di ogni vita, la possibilità di una gioia vera donata e ricevuta e di legami di amicizia forti e duraturi, nonostante gli handicap o i limiti. Nella loro fragilità scopriamo anche la loro forza. Ci rendiamo conto che una relazione autentica in un ambiente favorevole e costruttivo favorisce trasformazioni umane stupefacenti. Non è proprio questa l’esperienza che tutti possiamo sperare di fare nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo?
Se di solito, purtroppo, la fragilità è un «vantaggio per la forza», dato che il forte approfitta naturalmente del più debole, al contrario la creazione di un relazione di autentica reciprocità con la persona disabile ci porta ad allentare le protezioni, ad abbassare la guardia, per diventare così più profondamente noi stessi.
«Mi piace la persona che sono quando sto con Jean-Pierre o Nadine», si sente spesso dire nelle nostre comunità, e non: «sono contento di me o fiero della mia generosità»; al contrario, mettendomi nella condizione di poter ricevere dall’altro «accetto di più me stesso e scopro in me risorse insospettabili di relazioni e d’amore». L’ascolto dei più fragili è la condizione essenziale per comprendere e sperimentare la nostra comune umanità.
Molte persone che lavorano accanto ai malati gravi, sottoposti a cure palliative o con famiglie del quarto mondo, possono riportare testimonianze simili.
Come ogni esperienza, quella dell’Arca si vive più che raccontarla. Il seminario di Lione, questo libro e le collaborazioni attivate con altre organizzazioni rappresentano comunque un’occasione per condividere e approfondire le nostre esperienze, per confrontarci con altre realtà e promuovere insieme i valori di una società davvero umana. Siamo testimoni che la speranza cristiana di cui l’Arca si fa portavoce non rappresenta un freno per la condivisione e il lavoro comune con altre religioni o diverse modalità di impegno. La disponibilità nei confronti dell’altro, che implica il riconoscimento delle nostre fragilità, è un vettore di unità, come ha dimostrato questo seminario e come provano centinaia di progetti portati avanti nel nome di una speranza comune nell’uomo, in ogni individuo e nella sua capacità di crescita.
Per concludere: se, con Platone, definiamo l’etica come «l’arte del giusto comportamento e della giusta relazione», tutti i partecipanti al seminario, con i loro punti comuni e le loro differenze, ci hanno invitato a un’etica della fragilità. Un’etica che con benevolenza tenga conto della vera natura mia e degli altri; un’etica che si confronta con il reale, con ottimismo e speranza. Un’etica che apra prospettive di autenticità, fiducia e relazioni feconde.
Desidero ringraziare coloro che hanno contribuito con questa opera a illuminare il nostro cammino, grazie a una profonda intelligenza umana e all’umiltà della loro testimonianza personale.