Icona deriva dal greco eikon, «immagine». Le icone sono rappresentazioni di
Cristo, della
Vergine e dei santi venerate nelle chiese
ortodosse (iconòstasi). Più che semplici immagini di devozione, per le Chiese orientali l'iconografia è una realtà teologica. L'iconoclasmo venne condannato come eresia nel VII
concilio ecumenico (Nicea, 787). Esso rifiutava la legittimità delle immagini di Cristo, pur non negando l'incarnazione del Figlio di Dio. L'icona rappresenta soprattutto il Cristo, vero Dio e vero uomo, «l'immagine di Dio invisibile» (Col 1,15)e Verbo, Sapienza del Padre. Nello stesso concilio, l'icona viene così definita: “Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica - riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa - noi definiamo con ogni rigore e cura che, come la raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerate e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti sacre, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della purissima nostra signora, la santa Madre di Dio, dei santi
angeli, di tutti i
santi e i giusti. Infatti, quanto più frequentemente queste immagini sono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono innalzati al ricordo e al desiderio dei modelli originari e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta certo di un'adorazione, che la nostra fede tributa solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all'immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffigurato” (Concilio di Nicea II, Definizione).
«Il Verbo non rappresentabile del Padre si è reso rappresentabile incarnandosi in te, Madre di Dio; egli ha ristabilito nella sua dignità originaria l'immagine sfigurata e l'ha unita alla Bellezza divina» ('Kondakion' della prima domenica di quaresima, che commemora il concilio di Nicea e il trionfo dell'ortodossia sull'iconoclasmo). La venerazione delle icone non viola assolutamente il secondo comandamento del
decalogo, che vieta la rappresentazione di Dio e l'adorazione delle immagini. L'icona non rappresenta direttamente la divinità, ma il Figlio di Dio fatto uomo. La venerazione delle icone non è un'adorazione; non è rivolta all'immagine, ma risale all'archetipo. Secondo la tradizione orientale, la prima icona di Cristo, il Mandylion, è stata fatta da Cristo stesso e non da mano d'uomo. Si tratta dell'impronta del viso di Cristo su un lenzuolo. La tradizione popolare attribuisce icone della Vergine anche all'evangelista Luca. L'iconografia possiede le sue regole, i suoi canoni. E vietato, ad esempio, rappresentare Dio Padre, che nessuno ha mai visto. Ma il suo obiettivo è la rappresentazione della persona già trasfigurata, trasformata, illuminata, sull'esempio di Cristo sul monte Tabor. La luce dell'icona non proviene da un punto preciso, ma è tutta l'immagine a essere luminosa, per cui mancano volutamente le ombre. La rappresentazione di edifici o oggetti sull'icona non è realistica. Sono piccoli e spesso sproporzionati, perché non devono distogliere l'attenzione di chi prega davanti all'icona, ma permettergli di concentrarsi sull'oggetto principale, Dio Verbo o i santi che, con la grazia dello Spirito, si sono trasfigurati seguendo Cristo.