EAN 9788825026894
Più di 20 anni fa, il 6.12.1990, a Milano il card. C.M. Martini pronunciava un’omelia sul dialogo islamo-cristiano, che ancor oggi può offrire spunti di riflessione per un tema che è diventato sempre più attuale. In questo volumetto di facile lettura l’islamologo Paolo Branca ne offre una rilettura e un commento, alla luce anche di due decenni d’immigrazione crescente nel nostro paese, e mentre si comincia a profilare anche in Italia una «seconda generazione » di giovani credenti che si sentono insieme musulmani e italiani.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 8
(http://www.ilregno.it)
Presentiamo i primi tre volumi della nuova collana della Messaggero interessata al dialogo islamo-cristiano e diretta dal teologo Edoardo Scognamiglio. Il primo è di Paolo Branca, insigne studioso di Lingua e Letteratura araba, nonché esperto di storia e dottrina dell’islam. Di fronte a fatti come quelli dell’11 settembre 2001, all’orrore e all’indignazione, conviene affiancare un’approfondita riflessione sul mondo culturale nel quale ha potuto crescere un odio tanto assoluto e distruttivo. «Dire che non è una guerra di religione né uno scontro di civiltà resta insufficiente e soprattutto non spiega perché proprio nel mondo musulmano siano situate le centrali operative e siano maturate le giustificazioni ideologiche di quanto è successo» (p. 5).
Si tratta di capire, secondo l’autore, come mai l’islam possa essere così facilmente ed efficacemente strumentalizzato a questo scopo e fino a questi eccessi. Branca fa notare l’efficacia della felice mediazione dei primi musulmani che seppero coniugare la loro civiltà con le altre grandi tradizioni religiose e culturali, come la persiana e la bizantina, e come anche tale mediazione è poi venuta meno nell’età moderna. Certamente, nota l’autore, il contatto ravvicinato che le migrazioni e la globalizzazione impongono necessita di opportune riflessioni e aperture al confronto. Sebbene faticoso e talvolta sconfortante, è uno sforzo irrinunciabile: non certo nel senso banale di un generico “vogliamoci bene”, né tanto meno di un fuorviante sincretismo, ma come indispensabile confronto sull’essenza delle nostre rispettive identità religiose senza pretendere di ignorare gli altri o di ridurli forzatamente alla propria misura (cf. pp. 89-90).
Questo breve saggio, diviso in appena due capitoli, dopo una chiara Introduzione che attualizza la ricerca sul significato della guerra e della pace nel Corano e nella tradizione islamica, assume un taglio storico-critico e anche teologico-spirituale. Il primo capitolo (pp. 13-50) è dedicato alla guerra santa o Jihâd e ne spiega tutti i significati prima e dopo la formazione della comunità islamica. Per il profeta Maometto, la guerra fu quasi sempre un male necessario e non uno stile di vita. Certamente, con l’evoluzione dell’islam e il concetto stesso di comunità, si evidenzieranno altri significati della guerra soprattutto per l’espansione del dominio arabo. Il secondo capitolo (pp. 51-88) tocca il tema della pace: nel Corano, nella comunità, tra credenti e non, nel rapporto con le altre religioni. Ci si interroga anche sul perché delle divisioni degli uomini e delle diverse fedi e sul significato universale della divisione. La separazione tra cristiani è interpretata come punizione divina. Le differenze devono essere lette come motivo di emulazione e non di conflitto.
L’agile contributo realizza in pieno l’obiettivo della nuova collana Hiwâr- Dialogo che è nata dall’esigenza di approfondire – in ambito non solo teologico ma pure storico-critico, socio-politico, culturale e spirituale – il dialogo islamo-cristiano avvalendosi di studiosi di grande levatura. Le tematiche sono poi presentate in modo semplice, con linguaggio chiaro. Il testo, quindi, è fruibile in diversi ambienti: accademici, scolastici, laici. L’autore del secondo volume della collana che qui presentiamo è vice presidente della Co.re.is (Comunità religiosa islamica) italiana e imam della moschea al-Wahid di Milano. È pure consigliere per i rapporti con il Vaticano e l’Italia dei 138 sapienti musulmani internazionali del documento Una parola comune, ed è tra i fondatori all’Unesco del comitato imam, rabbini e cristiani. Ma, molto, di più, Yahya Sergio Yahe Pallavicini è un sincero uomo di fede e di preghiera impegnato da lungo tempo, a partire dalla testimonianza del padre Shaykh ‘Abd al-Wahid, nel dialogo pacifico non solo tra cristiani e musulmani, ma tra tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
La Co.re.is pratica soprattutto un islam teosofico e si ispira al grande maestro René Guénon che, nella sua critica alla modernità e alla ragione, cercò di percorrere i sentieri della Verità e della Libertà, valutando le diversità religiose come ricchezza e non quale ostacolo al cammino dell’Unità. Il saggio di Pallavicini comprende ben dodici capitoli: La fede (pp. 19-46), La conoscenza (pp. 47-64), Il sostentamento (pp. 65-82), Adam e l’inizio della creazione (pp. 83-111), Nuh e l’arca del ciclo nuovo (pp. 112-133), Ibrahim, patriarca del monoteismo (pp. 134-165), Yusuf, la storia più bella (pp. 167- 189), Musa e Harun, la fratellanza spirituale (pp. 190-202), Musa e il Khidr, l’insegnamento interiore (pp. 203-226), ‘Isa, parola di verità (pp. 227-252), Muhammad e i cristiani (253-266), Muhammad, sigillo della profezia (pp. 267- 280).
La lettura delle singole tematiche è strettamente sapienziale e non semplicemente storico-critica. Il linguaggio è diretto, immediato, con toni esistenziali. L’autore, che si lascia leggere facilmente, attinge sia alla fonte del Corano, sia alla tradizione, sia alla spiritualità dei sufi e della mistica teosofica. La dottrina centrale della misericordia divina, molto cara all’islam, è un po’ l’anima della riflessione dell’autore con la quale egli ha plasmato ogni pagina di questo testo. Nel suo modo di esprimersi e di articolare il discorso di fede, Pallavicini sente sempre il bisogno di recuperare il rapporto tra il credente e Dio come un vissuto concreto che dà prova e testimonianza del nostro stesso pensare la fede e cercare i segni dell’amore di Dio. «Gli uomini e le donne custodiscono in se stessi quella natura divina secondo la quale furono formati e, dunque, si può riconoscere in questo la dinamica della misericordia divina, che è la misericordia di Dio verso se stesso attraverso la mediazione delle creature e dei credenti.
Come uno specchio rivolto verso un altro specchio, le benedizioni si riflettono da Dio a Dio attraverso l’uomo, che infine supera l’illusione della propria autonomia individuale in questo sublime “gioco di specchi” dove non resta che la presenza divina» (p. 9). L’amore divino non è soltanto nel dolore o nelle gioie della vita: plasma la nostra esistenza ed è all’origine del nostro stesso vivere. «Tutta la creazione, visibile e invisibile, è parte del miracolo della manifestazione di Dio e come tale è sacra. Ogni creatura, ogni luogo, ogni tempo partecipano essenzialmente al carattere di sacralità proprio a tutto ciò che venga da Dio: e poiché tutto viene da Dio, tutto è in principio sacro, benedetto e provvidenziale» (p. 17).
L’amore è una disciplina sacra, una dinamica della conoscenza che appartiene a Dio e non alle libere ed errate interpretazioni dell’essere umano. L’amore tra le creature è «uno dei segni dell’irradiamento dell’amore di Dio per le sue creature, e così la fratellanza spirituale tra i credenti, la collaborazione tra persone riconoscenti, la sensibile vicinanza e l’attenzione sincera nei confronti dei poveri e dei bisognosi » (pp. 39-40). Per l’autore, pur senza cadere in alcuna forma di facile sincretismo o di superficiale irenismo, le religioni sono il segno dell’amore di Dio: spetta all’onestà del credente beneficiare in modo adeguato di questi strumenti e progredire sulla retta via della propria religione. «L’assolutizzazione della propria religione è un errore grave. La religione, infatti, pur costituendo una via benedetta e provvidenziale di ritorno a Dio, è comunque relativa di fronte a colui che solo è assoluto, Allah, Iddio» (p. 41).
La riflessione di Pallavicini non si pone sul piano dogmatico, bensì esperienziale e mistico-spirituale. Nel capitolo decimo, dedicato a Gesù (‘Isa), egli si sofferma sulla parola di verità che è in lui. ‘Isa appartiene a quei messaggeri divini elevati rispetto ad altri profeti. Gesù è confermato nello Spirito di santità. Si tratta di un’elevazione provvidenziale che trascende anche le stesse figure umane prese in considerazione: tutto è strumentale per la gloria di Allah e in funzione del suo messaggio. Gesù esprime nella sua esistenza la sintesi di tutto l’universo come manifestazione pura e simbolica dell’unità di Dio nella sua molteplicità. «In questo senso, “presso Dio”, Gesù è “superiore” agli altri messaggeri divini, perché partecipa, oltre che alla qualità spirituale elevatissima propria dei messaggeri, anche della funzione di “rappresentare Dio”, come strumento simbolico di “comunione” con l’Assoluto» (pp. 239-240).
L’autore non si concentra sulla morte di croce di Gesù – evento che non è accettato dall’islam – ma sulla funzione rivelatrice ed escatologica del Cristo nei confronti di Dio. «Potremmo affermare che il servo di Dio Gesù muore sulla croce, mentre lo Spirito di Dio viene elevato alla dimora di Dio, dalla quale in verità non si è mai allontanato. Secondo la dottrina islamica, d’altronde, Gesù è tra i profeti che furono elevati a Dio in vita, quasi a confermare in una forma teologica provvidenzialmente diversa il mistero della risurrezione del Cristo. Si nota chiaramente, tuttavia, come nella prospettiva islamica la morte di Gesù, il suo ritorno alla vita e la sua elevazione a Dio si pongano sullo sfondo preponderante di una realtà spirituale immutabile che trascende gli eventi della temporalità. L’islam si concentra sulla dimensione dell’eternità» (p. 247).
Belle e avvincenti le pagine dedicate alla conoscenza (all’apparente conflitto tra ragione e fede) e alla storia di Musa e Harun (Mosè e Aronne), segno della fratellanza universale: essi sono uniti nella stessa consacrazione come offerta di sé a Dio. Chiudiamo con il terzo volume di questa prestigiosa e interessante collana, un’altra fatica di Paolo Branca che ha ripreso e commentato un famoso intervento del cardinale Martini sul dialogo islamo-cristiano che, per la sua profondità e puntualità, offre molti spunti di riflessione. Sono passati vent’anni da quando questo discorso fu pronunciato, il 6 dicembre del 1990. Molte cose sono cambiate – e non solo a Milano – e tuttavia la prospettiva tracciata resta attualissima: i cristiani e i musulmani devono incontrarsi e dialogare, nella verità e nell’amore, se non vogliamo uno scontro che sarebbe irreparabile.
Il dialogo tra cristiani e musulmani appare ancora più urgente di ieri. Scrive il vescovo di Terni, monsignor Vincenzo Paglia, nella bella prefazione al testo: «I credenti sono chiamati a svolgere oggi il grande compito di aiutare la pace e l’incontro tra i popoli. In questo orizzonte, cristiani e musulmani – ed ebrei, aggiungo – debbono sentire l’urgenza di praticare la difficilissima e affascinante arte del convivere tra diversi nel rispetto della fede, della cultura e della società nella quale si trovano a vivere» (p. 8). Nell’Introduzione, Branca invita a un dialogo sereno affinché sia superato sia l’islam di popolo che un cristianesimo di massa, così come anche un islam e un cristianesimo dei solo dotti (cf. p. 15).
C’è una fede vissuta nella storia e da parte di comunità di credenti che si spostano, che vivono nella condizione di immigrati e clandestini. Questa condizione di profughi e immigrati non può essere trascurata nel dialogo tra cristiani e musulmani. Tuttavia, c’è in Italia anche un islam frutto della modernità, vissuto, cioè, da famiglie religiose che vivono un rapporto tutto privato con la fede e con Dio e che non sono legati necessariamente a una comunità o moschea. Il saggio si compone di cinque capitoli: Chi siamo «noi» e chi è «l’islam» (pp. 25-46); I valori storici dell’islam (pp. 47-52); L’islam in Europa (pp. 53- 84); L’atteggiamento della chiesa e il dialogo (pp. 85-132); Annunciare il Vangelo di Gesù (pp. 133-150). Dopo aver presentato la complessa e variegata presenza delle comunità islamiche in Europa, soffermandosi soprattutto sulle motivazioni che spingono gli immigrati in Occidente, tra cui la ricerca di un posto di lavoro, il bisogno di affermazione sociale e di garantirsi un futuro, l’autore non esprime un giudizio definitivo sull’evoluzione in corso a proposito della non facile convivenza tra persone di culture e religioni diverse. Egli spinge, tuttavia, ad approfondire il dialogo con quelle comunità musulmane che sinceramente vogliono confrontarsi con la modernità e l’Occidente. Certo è che «nonostante queste differenze […] stupisce e addolora la totale mancanza di un progetto pedagogico finalizzato a valorizzare tanta esperienza accumulata» (p. 148) nelle diverse scuole cristiane frequentate da arabi e musulmani non solo in Europa ma anche in Africa, in Asia e in Medio Oriente.
Tratto dalla rivista "Asprenas" n. 4/2010
(http://www.pftim.it)
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