Rifare la spiritualità
-Dio alla ricerca dell'uomo
(Eterno presente)EAN 9788897264101
Questo testo, pubblicato per la prima volta 25 anni fa, inaugura la collana «Eterno presente», destinata a raccogliere scritti e pensieri che analizzano in profondità quell’anelito inestinguibile che probabilmente costituisce la vera molla dell’agire umano: il bisogno di ri-conoscersi. Come ci racconta l’autore nella prefazione, «nei 25 anni trascorsi dalla prima pubblicazione si sono verificati molti fenomeni che potrebbero essere presi in considerazione in quanto hanno profondamente segnato il cammino dell’umanità: pensiamo alla globalizzazione, alle migrazioni da paesi poveri a nazioni benestanti, alla crisi economica che di recente ha investito anche queste ultime, alle forme molteplici di violenza che sono esplose in diverse parti del mondo; d’altra parte, pensiamo al progresso scientifico e tecnico che punta a ridefinire l’uomo e induce a parlare addirittura di un post-umano…». Per il sociologo o per lo storico, spiritualità è l’insieme delle manifestazioni dell’esperienza religiosa di un certo periodo o gruppo; in tal senso si parla, per esempio, della spiritualità delle diverse tradizioni religiose.
Oggi si fa strada anche una spiritualità laica, affrancata da ogni fede. Le religioni tradizionali, quella cristiana compresa, si ispirano al principio secondo il quale la spiritualità viene intesa come il desiderio umano di Dio e tutta l’elaborazione delle varie etiche risente di questo postulato di fondo. L’autore di questo libro offre invece il profilo di una spiritualità che si sviluppa coerentemente attorno all’amore divino per l’uomo. Non è un ritocco: è un capovolgimento. Tutta la rivelazione biblica converge nel mostrare che Dio ama per primo, è Dio che va in cerca dell’uomo e gli domanda: «Adamo, dove sei?». E al suo popolo Dio dice: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo tra i popoli – ma perché il Signore vi ama» (Dt 7,7). Questo amore preveniente si è rivelato in modo definitivo nella persona e nella storia di Gesù. Ecco, dunque, il perché del titolo: Rifare la spiritualità, sulla base di una visione nuova, ma antica: l’amore di Dio è gratuito, precede ogni nostra iniziativa, chiede solo di essere corrisposto in ogni ambito della vita umana. Non è più l’ideale di «staccarsi dal mondo», ma di vivere nel mondo lavorando in esso perché sia «un giardino», curato amorosamente e con gioia.
La prospettiva biblica rovescia totalmente la visione: non è l’uomo che sale verso Dio, ma Dio che discende in mezzo agli uomini. Il desiderium videndi Deum che la visione medievale poneva come base della fede, contiene il rischio di immaginare un Dio a misura d’uomo, mentre egli rimane l’inconoscibile e inafferrabile, che si rivela in modo sconcertante per l’uomo. Modificando la famosa formula di Cartesio, l’amore divino verso l’uomo fonda una nuova antropologia: Diligor, ergo sum! (p. 81). E l’esperienza dell’amore preveniente di Dio deve tradursi poi in un atteggiamento concreto: questo amore mi chiede di mettermi a servizio degli altri, specialmente dei più poveri.
Tratto dalla rivista "Credere Oggi" n. 4 del 2013
(http://www.credereoggi.it)
In perfetta consonanza con la sua lunga riflessione di saggista e teologo attento ai temi della spiritualità, e quasi a coronamento di essa, A. Rizzi dà alle stampe un testo che sotto tanti aspetti rappresenta una novità e, ancor di più, una provocazione. Il libro Rifare la spiritualità – ripresa e ampliamento di un suo testo pubblicato nel 1987 – contiene già nel titolo una intenzione programmatica resa esplicita dalla prospettiva suggerita dal sottotitolo «Dio alla ricerca dell’uomo». L’ambizioso progetto di cui Rizzi intende in questo lavoro disegnare come il plastico, il modello di riferimento per successive indagini e ulteriori approfondimenti, si colloca – a dire dello stesso A. – nell’ambito di quella parte della teologia che ha come oggetto la spiritualità vissuta, cioè la teologia spirituale.
Un progetto ambizioso – si diceva – dal momento che si propone come obiettivo non semplicemente un ritocco, ma un vero e proprio capovolgimento nel modo di intendere e di capire la spiritualità cristiana. Un capovolgimento considerato come l’inevitabile approdo della piena applicazione dell’insegnamento conciliare e del cammino avviato dall’istanza del Vaticano II di una teologia, di una spiritualità e di una prassi ecclesiale sempre più saldamente fondate nelle radici bibliche.
È muovendo da questa spinta conciliare che l’A. vede come necessaria una vera e propria “conversione” della spiritualità a partire da ciò che di essa insegna proprio il testo biblico. A giudizio di Rizzi, l’ambito della spiritualità è quello in cui è più facilmente rintracciabile il segno dell’ellenizzazione del cristianesimo, avvenuta a partire dal II secolo, che fa da substrato all’ellenizzazione teologica testimoniata dall’acquisizione di concetti come natura o ipostasi o dalla dottrina sulla creazione e sul male.
Pertanto, secondo una visione non coerente con quanto emerge dalla Scrittura, «la spiritualità tradizionale ha come asse attorno a cui tutto si organizza il desiderio umano di Dio; noi offriamo il profilo di una spiritualità che si sviluppa coerentemente attorno all’amore divino per l’uomo» (16). Ecco chiarita, dalle parole stesse dell’autore, la tensione ideale che anima e attraversa queste pagine di teologia spirituale.
Tuttavia lo stesso Rizzi si sente in dovere di precisare che la critica a cui la spiritualità tradizionale viene sottoposta nel testo non ha di mira – e non potrebbe pretendere di averla – l’«esistenza spirituale delle generazioni cristiane del passato e, ancora, di molte componenti odierne del popolo cristiano» (17). L’occhio è puntato, invece, sulle forme e sulle oggettivazioni che la spiritualità cristiana ha assunto nel tempo le quali, in quanto comprensioni e rappresentazioni storiche, possono e devono essere passate al vaglio di una leale critica teologica.
Leggendo il dato con sguardo attento, in una visione olistica della storia della spiritualità cristiana, non si potrà non cogliere, a mio avviso, la costante consapevolezza di un movimento di Dio verso l’uomo che precede e rende possibile il movimento dell’uomo verso Dio. Certo, si tratta di una consapevolezza a volte tacita e forse, in alcuni casi, del tutto taciuta non senza colpevolezza. Tuttavia, mi sembra che quello proposto nel testo in analisi, costituisca uno spostamento di accenti – o se si vuole di assi – che non muta il contenuto centrale della spiritualità cristiana, ma ne trasforma in maniera radicale l’impostazione di fondo, le categorie espressive, le modalità di comprensione. Pertanto quello auspicato da Rizzi è senza dubbio un riassestamento della spiritualità quanto mai importante, prezioso e da perseguire soprattutto per la concezione autenticamente biblica, e perciò autenticamente cristiana, della spiritualità stessa che propone e valorizza.
La spiritualità tradizionale che trova il suo paradigma espressivo nella spiritualità monastica si sviluppa intorno ad alcuni “temi forti” quali la fuga mundi, il cammino spirituale dell’uomo inteso come reditus, ritorno a Dio in risposta al suo exodus, alla sua uscita o discesa verso l’uomo compiuta in Gesù Cristo. L’uomo è visto come portatore di un insopprimibile desiderio di infinito per appagare il quale deve prendere le distanze dal terreno e dal mondano. Questo porterà – anche se le generalizzazioni soprattutto negli infinita munda della storia della spiritualità sono sempre da evitare – a una negazione del creaturale e ad una esclusione vicendevole tra Dio e la creatura. Quest’ultima non è in sé stessa negativa ma «ha in sé una positività che può farne, di fronte alla capacità d’amore dell’uomo, l’antagonista di Dio» (28).
A chi taccia di un certo “orizzontalismo” la nuova spiritualita di cui egli è rappresentante, Rizzi risponde ricordando che, anche se di “verticalismo” si vuole parlare a proposito del messaggio cristiano, bisogna precisare che si tratta non di un “verticalismo ascensionale” ma “discendente”, che ha per soggetto Dio e che «avvia il movimento “orizzontale” della missione, della testimonianza, del servizio» (37).
Espressiva di tutto ciò è la netta linea di demarcazione tracciata dal NT tra eros e agape dove è esclusivamente il secondo a definire l’identità e l’agire di Dio. L’eros, senza necessariamente considerarlo nel senso negativo di un sentimento egoistico, «è un egocentrismo connaturato; è la stessa natura desiderante dell’io, dell’essere umano», mentre l’agape è definito dal movimento di una «uscita da sé per andare all’altro» (41). Il rivelarsi di Dio come agape, come amore che si mette alla ricerca dell’uomo, per donarsi ad esso e ammetterlo all’amicizia ed alla comunione con sé, rivela anche l’identità autentica dell’uomo, che non è definita tanto dalla categoria del desiderio quanto da quella della povertà. L’uomo è povertà, radicale povertà, strutturale debolezza, un essere posto in una condizione di bisogno. «La povertà radicale è povertà sul piano ontologico. Ma proprio questo puro esistere è il polo della relazione originaria Dio-uomo. Questa povertà, che in sé non ha nulla né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio» (47). Questo passaggio suggestivo pone davvero il fondamento della spiritualità cristiana al centro dell’atto rivelatore di Dio e manifesta la fondatezza e la serietà della proposta che l’A. avanza nel suo testo.
Nei capitoli successivi l’A. trae le conseguenze del discorso fatto fin qui, esplicitando le implicazioni di una spiritualità rivisitata secondo questa “nuova” impostazione di matrice biblica.
La condizione dell’uomo emergente dalle pagine bibliche e letta alla luce della realtà attuale è osservata e descritta da quattro punti prospettici, come quattro angoli che corrispondono alle relazioni fondamentali che l’uomo vive e sperimenta nella sua esistenza; questi punti o angoli convergono tutti in un centro che è l’uomo stesso.
La prima prospettiva, la prima posizione relazionale osservata è quella che pone l’uomo di fronte a Dio. A partire dall’idea tradizionale della redamatio, ossia della risposta amorosa e colma di gratitudine dell’uomo che si scopre infinitamente e immeritatamente amato da Dio, la fede si presenta, secondo Rizzi, come intelligenza del mondo; il mondo appare per quello che è: grazia. La fede è però, secondo l’antropologia biblica, soprattutto fiducia. Fiducia che, se nell’AT si fondava sul dono dell’alleanza, nel NT si radica nel dono e nell’esperienza della giustificazione e del perdono offerto in Gesù. Infine la fede si delinea come obbedienza. È precisamente quest’ultimo atteggiamento, tipico dell’uomo biblico e del cristiano in particolare, a costituire la più esplicita e compiuta forma di redamatio, di risposta grata all’amore di Dio che spinge l’uomo a rendersi pienamente disponibile al progetto di Dio, mettendosi al servizio degli uomini. Come nota l’A., c’è qui una visione completa e comprensiva di quell’atteggiamento umano che è la fede e che coniuga insieme «tre momenti sostanziali dell’esistenza spirituale: la fede nell’amore di Dio, l’amore per Dio come obbedienza, l’amore al prossimo come carità e servizio» (59).
La seconda prospettiva presa in esame è quella dell’uomo di fronte all’altro, di fronte al prossimo. In questo ritrovarsi “di fronte” da parte di “due finiti”, si scontrano ancora una volta due forze, o forse meglio, le due possibili espressioni dell’amore: l’eros e l’agape. Quando l’eros, forza positiva e connaturale all’uomo, si deteriora in forme aggressive prevale la logica della competizione che in ambito religioso può assumere i connotati aberranti della guerra santa, estrema e volgare negazione del Dio biblico e del vero senso della sua trascendenza. L’unica àncora di salvezza diventa, allora, l’apertura all’agape di Dio, all’agape che è Dio. L’accoglimento di questo amore gratuito e sconvolgente di Dio abilita l’uomo ad una nuova capacità di amare, che gli fa superare la logica della competizione o della chiusura ideologica per divenire egli stesso portatore e diffusore attivo di questo agape, nel senso di un soggetto di libertà che è amato da persona libera ed ama da persona libera. Solo così l’amore può diventare comandamento, cioè la più grande pro-vocazione che Dio lancia all’uomo, appello martellante rivolto alla sua libertà.
Particolarmente interessante risulta l’osservazione condotta da Rizzi circa la terza posizione relazionale dell’uomo, quella che lo pone di fronte a sé stesso. L’autore osserva come vi sia sostanziale, sebbene parziale, convergenza tra quanto emerge da una spiritualità biblica come quella che nel testo egli propone e la crisi attuale del soggetto che ha i suoi prodromi filosofici e culturali nella critica della ragione di Kant e nella critica della coscienza religiosa dei filosofi del sospetto. Entrambe le posizioni, infatti, convergono nella pars destruens che consiste «nel rifiutare di considerare il desiderio umano come la via d’accesso a Dio, e nell’insegnare l’accettazione e la realizzazione della finitezza» (80). Ma la divergenza emerge e diventa abissale quando si tratta di passare alla pars construens. Questa, di fatto, semplicemente non si dà nell’attuale crisi del soggetto in cui la finitezza dell’uomo diventa assenza di identità ontologica, liquidità identitaria e relazionale. Nella spiritualità biblica, al contrario, il riconoscimento e l’accettazione della finitezza “imposta” all’uomo dalla Parola di Dio che è amore sempre più grande, è per lui il passaggio obbligato e previo per accedere al suo nuovo volto; il volto di uno che non soltanto “esiste” ma che “è” proprio perché amato nella sua finitudine: diligor ergo sum.
Come quarta prospettiva di osservazione dell’uomo, l’A. considera la condizione dell’uomo posto di fronte al mondo. Il mondo è «inteso come luogo delle realtà – le “cose” – che costituiscono l’habitat» (89) dell’esistenza umana. L’uomo può rapportarsi a queste “cose” secondo tre dimensioni: pragmatico-strumentale, gratuita o estetico-affettiva e spirituale. Quest’ultima corrisponde alla dimensione biblica di rapporto al mondo in cui le cose sono viste come dono di Dio, sua benedizione, frutto della sua charis/grazia.
Dopo questa presentazione di una teologia spirituale impiantata nell’antropologia biblica, Rizzi propone ancora due riflessioni nei capitoli conclusivi del libro.
La prima è relativa al rapporto tra spiritualità e teologia della liberazione. L’A. afferma che quanto è stato ribadito con forza da quei teologi che fanno in qualche modo riferimento a G. Gutiérrez circa l’uomo come fine ultimo della creazione, con al centro la dimensione del lavoro, stimola ulteriormente una ridefinizione della spiritualità nel suo complesso. Tale ridefinizione deve avvenire a partire dall’“altro” come luogo teologico privilegiato. Anzitutto è Dio che per primo deve essere definito a partire dall’“altro”, cioè dall’uomo. Infatti il fondamento della vita spirituale cristiana non è l’Essere per essenza bensì il Dio di Israele e di Gesù Cristo, il Dio della relazione e dell’agape che si esprime perfettamente nell’amore per il povero che Dio ama in ogni uomo.
L’ultima considerazione dell’A. è concernente il rapporto tra laicità e confessionalità. Egli afferma che dopo la de-clericalizzazione della santità promossa dal Concilio si rende necessaria anche una sua de-confessionalizzazione per affermarne la piena laicità, in forza dell’acquisizione teologica di una salvezza che è presente anche al di fuori dei confini istituzionali della Chiesa. Una santità che abbia come principio la coscienza, vera «irruzione del soprannaturale» (107); come oggetto l’umano, povertà ma anche ricchezza di beni e di valori; come soggetto la comunità di coscienze, che è l’intera comunità degli uomini portatrice di competenza spirituale e di sapienza di vita. Compito della comunità ecclesiale in questa visione laica della spiritualità e della santità è, sostiene Rizzi, essere segno della Rivelazione di Dio e dell’agire dello Spirito attraverso la vita dei credenti che, alimentata dalla Parola e dai sacramenti, fruttifica in opere di giustizia e di amore. Questo diventa un motivo ulteriore per prendersi cura della propria identità, della propria vita spirituale, valorizzando ancor più intensamente l’inestimabile tesoro che la tradizione spirituale cristiana consegna oggi alla Chiesa.
Il testo, qui delineato nelle sue strutture portanti, rappresenta davvero uno stimolo fecondo, una forte e affascinante provocazione a continuare a indagare la ricchezza multiforme e sempre sorprendente della spiritualità cristiana, tenendo i piedi ben piantati nel terreno stabile della rivelazione biblica, unico suo vero fondamento.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2014
(http://www.rassegnaditeologia.it)
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