Il concilio della nostra gente
EAN 9788897243083
Volendo scrivere una storia della povertà nel mondo lungo i secoli non si finirebbe facilmente. Tale difficile situazione dell’umanità genera ancor piú attenzione durante una cultura della globalità, quando sono meglio documentabili e raccontati avvenimenti e stati sociali di cui esiste una chiara conoscenza e coscienza.
Per i popoli di antica civilizzazione si distingue povertà da miseria colpevole o immeritata, pur se per altri popoli giunti alla modernità piú recentemente, è maggiormente difficile la valutazione a meno di esserne testimoni diretti. Per questo, popolazioni indigene primitive o etnie di vasti continenti presentano difficoltà di comprensione nella loro natura e nel loro stato materiale, anche perché quando giungano a contatto con civiltà materialmente (anche se non sostanzialmente) piú evolute, avvengono in loro delle scoperte non sospettate, accorgendosi dei limiti che la loro civiltà ha avuto. Magari hanno pensato che il mito dell’uguaglianza sociale, da loro immaginato come irraggiungibile, sia stato là raggiunto. In questa prospettiva si può credere come miti, ideologicamente e socialmente eversivi, abbiano avuto e continuino ad avere una certa entratura e incisione tra chi rigettava con rigore il principio per l’uguaglianza. Questi pensieri nascono leggendo il presente libro non molto voluminoso nello spessore, ma denso di notizie che fanno riflettere.
Il problema della povertà, in specie in grandi popolazioni del mondo moderno, viene qui descritto e vissuto alla luce del messaggio cristiano. Mentre il recente concilio Vaticano II è stato l’occasione di un ripensamento per le chiese delle nazioni piú evolute economicamente e socialmente, è stato invece una scoperta per quelle che ambivano a un progresso, pensato forse come irraggiungibile; oppure è stato pure l’occasione per proporre delle soluzioni divergenti dallo spirito del vangelo e meno ancora da regimi e governi che dirigevano quei paesi. Si possono allora pensare le ripercussioni incontrate in nazioni di una enorme vastità, come il Brasile, in rapido sviluppo, ricco di molte risorse non solamente umane. L’esperienza storica di paesi di antica cristianizzazione e di una civiltà ancora precedente come ad esempio, quella europea, insegna come occorra del tempo, molto tempo, per sedimentare problemi di rilevanza politica, sociale, religiosa. I vescovi che vi sono impegnati non hanno pochi problemi, come si può leggere in queste pagine.
Certamente l’ecclesiastico qui ricordato, José Maria Pires, arcivescovo emerito della Paraíba, Nordest del Brasile, è stato un protagonista del quale è convincente la testimonianza dell’amore per la sua chiesa e per i suoi poveri. Leggendo queste pagine lo si avverte chiaramente. Il ricorso agli elaborati dell’ultimo Concilio può aver suscitato delle speranze attuate nella misura in cui esse venivano accolte da laici ed ecclesiastici nel loro insieme. Il problema della povertà resta comunque complesso per molteplici ragioni, da collegare non solo con lo sfamare chi ha fame, ma pure con l’istruzione, con l’educazione al lavoro e col trovarne uno adatto alle proprie capacità ed esigenze, con una organizzazione sociale che sistemi tale lavoro. Ma se chi regge la società non è d’ispirazione cristiana, allora non si capisce come sarà possibile risolvere l’insieme delle necessità. Delusione maggiore può nascere se chi ha responsabilità nel mondo cristiano non è all’altezza dei suoi impegni.
Certo la buona volontà e la ricerca dell’aiuto provvidente di Dio Padre può aiutare i cristiani che si pongono al servizio del prossimo. Ma ciò non toglie il serio impegno di chi povertà deve intanto sopportare, senza trovare vie d’uscita. La questione non riguarda tanto i problemi, quanto la loro soluzione: volendola dedurre dall’insegnamento del vangelo, è sempre implicito il ricorso alla fede cristiana.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 1/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)