Don Francesco Oliboni. Un asceta in missione. Lettere dall'Africa (1857-1858)
EAN 9788897243069
Se viaggiare oggi può essere un’impresa, molto di piú doveva esserlo un secolo e mezzo fa, quando i missionari partivano dall’Italia per raggiungere paesi primitivi nel centro dell’Africa. Non si capisce come facessero a vivere, a nutrirsi, a salvarsi dalle numerose malattie che infestavano quelle regioni, e infatti non pochi missionari morivano, come nel caso qui raccontato.
Solo i piú forti resistevano e continuavano il loro lavoro. Questa fu la sorte del gruppo di sacerdoti veronesi della congregazione di Don Mazza, che, partiti in piroscafo il 10 settembre 1857 da Trieste, attraverso Alessandria d’Egitto, raggiunsero Khartoum l’8 gennaio 1858 e quindi una tribú del Sudan. L’ideale missionario li animava e, cosí si può intuire con la generosità del loro andare, pure il coraggio e la forza fisica per affrontare l’Africa di allora. Il volume riporta una serie di lettere spedite negli anni 1857-1858 da uno di loro, don Francesco Oliboni, considerato un asceta in ragione di penitenze e virtú testimoniate da confratelli e allievi.
Missionario, ma anche cultore di lettere e letteratura, nel breve epistolario pubblicato dimostra uno spirito di sopportazione veramente evangelica, tra difficoltà materiali notevoli, pericoli nel viaggio di sapore paolino, tra indigeni primitivi e mercanti esigenti. Prima di partire per la missione era stato professore nelle scuole veronesi, e in missione era interessato – come del resto gli altri confratelli – a studiare la lingua denka parlata nella regione del proprio lavoro. Un aspetto interessante era l’obbiettivo di conoscere bene quella lingua parlata dagli indigeni della tribú per compilarne un dizionario e una grammatica. Questo doveva servire per i successivi missionari della congregazione che doveva comprendere anche «i moretti e le morette» presenti in Italia e che sarebbero poi ritornati nei loro paesi d’origine «per convertire i loro connazionali». Dalle lettere pubblicate traspare molto dell’anima del religioso.
Il superiore della congregazione d’appartenenza, che l’aveva inviato con gli altri confratelli in missione, rimaneva in contatto col missionario anche per risolvere problemi finanziari che gravavano sulla sua famiglia. Dalle lettere pubblicate emerge il grande ricordo per le persone amiche o conosciute lasciate in patria, dove l’affetto non si spegneva nella lontananza, ma risaldava le motivazioni arricchite dalla generosità dell’impegno missionario. Il ricordo delle persone lasciate era accompagnato anche dal desiderio di avere loro notizie e ricordi, magari raccontando a propria volta in dettaglio l’avventuroso viaggio per raggiungere la sede lontana.
Il Cairo con i suoi 300 minareti o Alessandria d’Egitto, con i padri francescani che li hanno ospitati per due settimane, potevano offrire interesse per chi rimaneva in patria, come il lungo viaggio lungo il Nilo fino ad Assuan, a circa 500 miglia dal Cairo, arrivando a Khartoum dopo quattro mesi dalla partenza da Verona. Il viaggio doveva concludersi alla stazione di Santa Croce sul Nilo bianco, ancora per un mese. Soltanto 40 giorni dopo il suo arrivo, il 26 marzo 1858, don Oliboni affrontava con dignità e fermezza l’ultimo piú lungo viaggio verso l’aldilà.
Un membro della stessa spedizione, don Daniele Comboni, testimoniava di aver sentito da lui, ormai prossimo alla fine, che non si doveva abbandonare quella «povera missione», anche se uno solo di loro fosse restato vivo.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 1/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)