Cervello, mente, linguaggio. Una introduzione alle scienze cognitive
(Le muse)EAN 9788889671153
Perché affermare che l’uomo è un essere “speciale” e non piuttosto un essere “qualsiasi”? È questo, in sostanza, l’interrogativo di fondo che percorre il testo di R. Pititto. Se la scoperta delle funzioni del DNA consente di affermare con certezza che la vita degli esseri umani, come anche quella degli altri esseri viventi, è basata su comuni processi delle stesse sostanze chimiche, l’interrogativo sulla singolarit à dell’uomo trova una risposta nell .evoluzione del cervello. È questa evoluzione ad essere stata all’origine dell’attivit à mentale e dello sviluppo del linguaggio. Attraverso il linguaggio, inoltre, l’uomo possiede il mondo come sua dimora più originaria, e lo crea e ricrea, cambiandolo e trasformandolo, ponendo domande e chiedendo risposte (cf 13).
A partire da queste premesse, nel primo capitolo, l’A. affronta la questione dell’origine del linguaggio, integrando le scoperte biologiche e della psicologia genetica con l’analisi filosofica. Circa l’origine del linguaggio, però, molteplici sono le ipotesi; per questo motivo l’A. si mostra piuttosto refrattario nel suggerire risposte definitive, preferendo proporre solo le ipotesi più accreditate a livello scientifico. Preminente, dal punto di vista biologico, è la scoperta del gene FOXP2 ha introdotto altri elementi nelle ricerche. Questo gene ha subito nell’uomo una mutazione sul cromosoma 7 che consente all’uomo di controllare l’articolazione del linguaggio, la sua comprensione e il movimento di alcuni muscoli del viso (cf 28-29). Dal punto di vista psicologico, lo studio della genesi e dello sviluppo del linguaggio deve molto agli studi di J. Piaget e L’S. Vygotskij. Secondo Piaget, il pensiero infantile, almeno fino all’età di 7-8 anni, si caratterizzerebbe per una spiccata egocentricità.
A questo pensiero egocentrico si accompagnerebbe un linguaggio egocentrico, mentre nell’età adulta prevarrebbe un linguaggio socializzato. Il bambino usa frasi corte, silenzi prolungati e non si cura di sapere né a chi parla, né di essere ascoltato: egli parla soprattutto per sé. Solo più tardi, quando avrà acquisito forme di linguaggio socializzati, terrà conto dell’interlocutore e cercherà di farsi capire da lui, facendo osservazioni (critica), esercitando un.azione diretta su un altro (ordini, preghiere) e stabilendo, infine, un rapporto diretto con l’interlocutore (domande e risposte). In definitiva, secondo Piaget, il pensiero del bambino è originariamente autistico e si trasforma in pensiero realistico solo in seguito a una lunga e accentuata pressione sociale. Il pensiero realistico e socializzato comincia a prevalere a partire dall’età scolastica, per prendere il comando verso i 10 anni di vita del bambino. Vygotskij ritiene invece che la prima forma di linguaggio infantile sia il linguaggio sociale che si sviluppa proprio grazie alle relazioni del bambino con il mondo adulto. Solo più tardi questa prima forma di linguaggio si declinerà secondo la modalità "egocentrica" e "comunicativa". Il linguaggio egocentrico fa la sua comparsa quando il bambino comincia sempre più ad interiorizzare le forme di comportamento sociale.
Dal linguaggio egocentrico si arriva poi al linguaggio interiore e comunicativo. Inoltre, secondo Vygotskij, il linguaggio egocentrico e quello socializzato convivono insieme nel bambino, come nell’adulto. Da un punto di vista filosofico (cf Heidegger, Gadamer) si constata una evidente aporeticità circa l’origine del linguaggio. Sembra infatti difficile sostenere un inizio del linguaggio, poiché da sempre l’uomo vive nella lingua come in un elemento suo proprio, così come i pesci nell’acqua. Inoltre, è soltanto tramite la mediazione dell’ordine linguistico che ogni ordine reale raggiunge il piano dell’esistenza. Tutte le esperienze umane sono perci ò significative e acquistano senso solo se sono traducibili in parole.
A motivo di questa disparità di conclusioni, l’A. (2 cap.) fa sua la prospettiva neurofenomenologica di F. Varela, studioso attento a integrare le analisi scientifiche in terza persona con quelle fenome nologiche in prima persona. Sappiamo che le tecniche diagnostiche di brain imaging eseguono una mappatura cerebrale, permettendo così di avere accesso ai correlati neuronali delle attività mentali. Tuttavia, occorre precisare che registrare l’attivit à con l’elettroencefalografia non significa aver registrato i pensieri perché, se è vero che i pensieri si formano nell .encefalo, non è affatto detto che essi siano leggibili, ossia che all’attività cerebrale si possa far corrispondere un significato definito e univoco (57, n. 18). Questa obiezione mostra chiaramente come nel passare dalla descrizione neuronale al significato sia necessario riconoscere un dato: ogni scienza della mente deve, prima o poi, fare i conti con quella condizione ineludibile secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori dell’esperienza che facciamo in prima persona.
Solo nell’esperienza vissuta di ciascuno si situa lo spazio della mente e della coscienza. Per questo motivo, non sarebbe di alcuna utilità far riferimento a una qualche forma di spiegazione di ordine puramente neurobiologico che prescindesse dall’esperienza vissuta, perché è in essa che si sviluppa l’autocoscienza. A partire da questa prospettiva, Varela propone di affiancare la ricerca fenomenologica con le nuove conoscenze neurobiologiche, sul presupposto che ciò che appartiene al vissuto ha uno statuto o una natura che non è spiegabile nei soli termini di sistema neuronale. Da questa proposta di saldatura nasce la neurofenomenologia. Obiettivo di questa disciplina è proprio quello di poter descrivere esperienze in prima persona, utilizzando gli strumenti delle descrizioni in terza persona. Nell’eseguire questo progetto, Varela si trova di fronte al .problema difficile. (the hard problem) dell’esperienza cosciente che ha trovato diverse risposte a seconda degli indirizzi della filosofia della mente.
All’interno delle diverse tendenze scientifiche, la neurofenomenologia si discosta non solo dagli approcci dualistici (Eccles), ma anche da quelli rappresentati dal neo-riduzionismo (Chrchland, Crick, Koch), dal funzionalismo (Jackendoff, Baars, Dennett, Edelman, Calvin), e da coloro che ritengono la coscienza come un mistero insolvibile (McGinn, Nagel). In polemica con Dennett, Varela afferma apertamente la distinzione tra vita mentale ed esperienza. Il fallimento della filosofia della mente angloamericana, secondo Varela e Searle, risiede nel fatto che essa è incapace di riconoscere e accettare il fatto che l’ontologia del mentale è un.ontologia irriducibilmente in prima persona. Occorre pertanto individuare un metodo rigoroso per indagare tale esperienza. Varela opta quindi per la riduzione fenomenologica che consente di passare dal modo di pensare naturale limitato alla descrizione sul piano dell’immediatezza sensibile, a quello propriamente esperienziale che include ma non si limita alla descrizione dei processi neuronali.
Da questa prospettiva metodologica Varela addiviene alla conclusione che se la coscienza è legata in maniera indissolubile al cervello, tuttavia il problema del neuronal correlate of consciousness è mal posto, perché la coscienza è un.emergenza che richiede l’esistenza di altri tre fenomeni: corpo, mondo, altri. Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché è la condizione di possibilità, ma la coscienza è altresì radicata in un corpo vivente e si costituisce come un flusso continuo di esperienze correlate e coordinate tra loro. Sarebbe perciò difficile pensare di fuoriuscire dal nostro corpo e dal suo sistema nervoso, perché non vi è un altro mondo al di fuori del mondo in cui esistiamo. Per questo motivo, fisiologia del cervello ed esperienza mentale devono avere la stessa importanza. Ad esempio, un meccanismo di integrazione cerebrale su larga scala come la "sincronia neurale" durante il ritmo gamma, dovrebbe essere confermato anche sulla base della sua capacità di fornire una comprensione delle analisi in prima persona di contenuti mentali come la "durata".
Questo per dire come i .problemi empirici. devono essere guidati dall’evidenza in "prima persona". Nel terzo capitolo (81-102) l’A. affronta la questione del difficile rapporto tra i processi linguistici e i processi cognitivi, per poi passare, nel quarto capitolo (103- 136), a richiamare i passaggi che, dall’attivit à del cervello all’attività della mente, hanno reso possibili i processi cognitivi. Si tratta ovviamente di un.evoluzione lunga e complessa che si può sinteticamente ricostruirsi secondo questa sequenza: processo di ominazione; sviluppo del cervello; ruolo della mente nello sviluppo dei processi cognitivi, linguistici e relazionali; affermazione, tramite il linguaggio, dell .identità personale; consapevolezza dei processi. Questa descrizione però non elimina la difficoltà di comprendere come dalla materialità dei circuiti cerebrali, dai neuroni e dalle connessioni sinaptiche, possa scaturire quel mondo di significati, intenzioni, credenze e desideri che ci guida nella nostra vita quotidiana. Un'indicazione a tal proposito è intravista dall’A. negli studi condotti dall’equipe di G. Rizzolatti. Questo team di ricerca ha individuato un particolare tipo di neuroni denominati "neuroni specchio" (mirror neurons). I neuroni specchio sono una particolare classe di neuroni, localizzati nell .area F5 del cervello, in particolare nella superficie esterna dei lobi frontali e di quelli parietali. Tali neuroni sono stati individuati grazie a particolari tecniche elettrofisiologiche e di brain imaging. I neuroni specchio spiegherebbero l’intersoggettività, l’empatia e l’apprendimento a livello neurobiologico, e permetterebbero altresì al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri, riconoscendone così il significato.
La costruzione dell’identità dell’individuo potrebbe essere legata quindi all’attività di questi neuroni che metterebbero in relazione tra loro schemi motori, cognitivi e linguistici. L’A. evidenzia un dato che emerge dagli studi dell’equipe di G. Rizzolatti: certi processi solitamente considerati di ordine superiore e attribuiti a sistemi di tipo cognitivo, quali ad esempio la percezione e il riconoscimento degli atti altrui o l’imitazione, potrebbero rimandare al sistema motorio e trovare in esso il proprio substrato neurale primario. Interessante, da un punto di vista antropologico e genetico, è quindi la conclusione secondo cui il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni, dipenderebbe in prima istanza dal nostro patrimonio motorio finora considerato di ordine inferiore rispetto alle funzioni cognitive e linguistiche. Di conseguenza, nota l’A., con la scoperta dei neuroni specchio, il rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori, riferite ad aree specifiche del cervello, si rivelerebbe artificiosa, considerato che il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende (124).
Ed è a proposito della .comprensione . che l’A., nel quinto e ultimo capitolo (137-156), affronta la questione della differenza o meno tra pensiero e simulazione, intendendo così controbattere alle teorie di coloro che sostengono che pensare è simulare. Secondo questi ultimi, infatti, pensando, l’uomo non fa altro che compiere gli stessi e unici processi di una macchina intelligente. L’A. precisa che l’ipotesi di una macchina che possa pensare è inverosimile, proprio perché la macchina esegue solo un programma di calcolatore, mentre il pensiero cosciente è qualcosa di altro rispetto a un programma di un calcolatore. Tale programma non ha a che fare con le proprietà fisiche e causali di sistemi fisici, ma riguarda solo le propriet à computazionali astratte dei programmi formali, che possono essere eseguiti in un qualunque supporto materiale. La macchina anche più sofisticata non fa che cogliere e applicare determinate istruzioni senza capire nulla di quanto sta facendo; essa dispone soltanto di una competenza sintattica nel combinare i simboli, non di una competenza semantica, che consenta di attribuire significato a quei simboli su cui opera; l’essere umano, invece, è un essere semantico.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2011
(www.rassegnaditeologia.it)
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