I fondamenti della moralità nel pensiero di John Finnis
(Biblioteca di Tesi)EAN 9788889386378
L’A. di questa ricerca, docente di teologia morale fondamentale e sociale alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, disegna un ritratto fedele del pensiero di John Finnis, professore di filosofia del diritto a Oxford e autorevole rappresentante della cosiddetta giurisprudenza analitica che tanto ha contribuito alla riscoperta del pensiero di Aristotele e Tommaso d’Aquino sulla legge naturale. Non solo mettendone in luce elementi di indiscussa originalità, ma rilevandone anche punti deboli e incongruenze varie. In effetti Finnis da una parte compie un’operazione dai profili innovativi nel recuperare gli insegnamenti di Aristotele e Tommaso d’Aquino, dall’altra elabora una sintesi che non è priva di scompensi ed è quindi bisognosa di qualche aggiustamento. Il principale dei quali si può individuare nell’opera scritta in collaborazione con Grisez e Boyle Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends (1987).
Questa, almeno, è la conclusione cui perviene l’A. al termine della sua ricerca, presentata come tesi di dottorato discussa al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, presso l’Università Lateranense. È convinto infatti che, nonostante alcuni punti deboli, la vera teoria di Finnis sulla legge naturale non sia quella esposta in Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, bensì quella precedentemente elaborata nell’opera Natural Law and Natural Rights (1980). In riferimento alla quale scrive testualmente: «Essa presenta alcuni punti deboli, ma ha ugualmente un suo fascino e una sua logica; senza aspirare a giustificarsi in ogni singolo aspetto, essa deve portare avanti alcune istanze fondamentali, accettando di non costituire un sistema perfetto e risolutivo di ogni questione» (p. 274). Sono istanze che riemergeranno, anzi secondo l’A. per certi aspetti sono le stesse, nell’enciclica Veritatis splendor (1993).
«L’ottica di Finnis –scrive infatti – anticipa in molti punti la prospettiva assunta dall’enciclica Veritatis splendor, quando mostra le carenze della tradizione manualistica successiva al Concilio di Trento, legate particolarmente al razionalismo e al volontarismo; quando si oppone alle tendenze teleologiche, ribadendo l’esistenza di atti cattivi in se stessi; quando sottolinea l’importanza di assumere il punto di vista del soggetto agente, che consente il superamento di una concezione della conoscenza morale basata sul confronto tra un polo oggettivo e universale, rappresentato dalla legge morale, e uno soggettivo, interno e particolare, costituito dalla coscienza individuale» (p. 273). Istanze tutte che l’enciclica inquadra e interpreta in un’ottica diversa da quella di Finnis nella misura in cui riconduce la molteplicità di «beni basici» e delle vie per riconoscerli di cui parla il professore di Oxford all’unicità del fine ultimo e cioè a Dio stesso.
«Qui, a nostro avviso –puntualizza l’A. – si trova uno dei punti problematici della visione di Finnis che non riconduce la molteplicità dei fini particolari che l’uomo persegue nella sua vita all’unicità del fine ultimo proprio di ogni uomo, che è Dio stesso». «Nella nostra interpretazione – precisa – egli paga qui un tributo al tentativo di rivolgersi all’uomo di oggi, dichiarando legittima la sua tensione alla felicità e a una realizzazione completa, e buoni i più vari percorsi che egli voglia intraprendere» (ivi). Il saggio è un omaggio al pensiero di un filosofo del diritto che affronta criticamente e coraggiosamente problemi epistemologici e ontologici di grande rilevanza e attualità. Lo fa mediante due mosse. La prima sottolineando che l’epistemologia non si riduce alla filosofia della scienza, ma è quello che un tempo si chiamava «gnoseologia», teoria della conoscenza. Come a dire che la conoscenza non ci arriva soltanto dalla fisica e dai suoi derivati, ma anche dalle scienze umane, dall’analisi di esperienze quali la fede, la fiducia, il dono, l’amicizia, la testimonianza, il sacrifico, il martirio, ecc., valori tutti che rimandano a nuovi orizzonti di senso che trascendono quelli propri della scienza.
Ciò non significa – e qui si inserisce la seconda mossa – che l’epistemologia si riduca ad una pratica relativistica. Si tratta infatti di tener fermo e anzi di sottoporre i risultati di tali analisi al filtro della retta ragione, vale dire di una rigorosa argomentazione. Che in riferimento al tema della legge naturale e ai suoi contenuti non può avvalersi di argomentazioni tautologiche che si limitino a riaffermare la rilevanza dei «beni basici» come fondamento dell’agire umano o il primo principio di moralità e le esigenze di ragionevolezza pratica. E nemmeno a rivendicare l’etica come scienza pratica e l’analisi della struttura dell’atto umano o l’apertura a Dio come fondamento ultimo della moralità.
Istanze tutte, sia ben chiaro, non solo attuali, ma pertinenti alla riflessione morale. Che non contribuiscono molto, tuttavia, all’elaborazione di un’etica normativa rigorosa, ma si collocano più che altro a livello metaetico, epistemologico, ontologico, lasciando scoperto il grande campo dei contenuti, dei problemi che siamo chiamati ad affrontare e risolvere mediante argomentazioni etico-normative in grado di aiutare effettivamente le persone a passare dalla pura e semplice affermazione o riaffermazione dei grandi principi alla loro applicazione concreta e pratica nella storia, spesso contraddittoria e conflittuale, del mondo in cui viviamo.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2011
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)