Opere complete vol.22
-L'uomo e il rischio di Dio
(Opere Complete Cornelio Fabro)EAN 9788889231623
Il problema di Dio, la domanda su Dio, il tentativo di dimostrare la sua esistenza sono connaturali all’intelletto umano che mentre si interroga e tende alla verità, come al suo bene proprio, viene a contatto con la domanda e la ricerca del fondamento e dell’origine della verità. Come l’uomo non può vivere senza interrogare e affermare la verità, così egli non può non confrontarsi con Dio, dove il problema più che essere accademico, assume una connotazione prettamente esistenziale e vitale; dunque l’esistenza di Dio è il problema dei problemi: «esso costituisce la conclusione di tutta la filosofia e della conoscenza umana sia ordinaria come scientifica, perché da esso dipende l’orientamento definitivo che l’uomo deve dare alla sua condotta e alla sua vita intera. E sta il fatto, comunemente ammesso, che Dio non è oggetto di esperienza immediata e quindi neppure di conoscenza intellettuale diretta o indiretta come lo sono le cose sensibili e le loro essenze […] e quindi l’uomo deve cercarlo mediante la riflessione o più precisamente col processo discorsivo della ragione» (129). Il problema capitale di Dio è il problema essenziale dell’uomo comune, e perciò è alla portata di tutti. Gli elementi per affrontare e risolvere la domanda appartengono al contenuto condiviso dell’esperienza immediata della realtà, ovvero: l’ammissione dell’esistenza del mondo esterno distinto dal soggetto (natura e altri uomini), la coscienza del proprio io come realtà complessa chiamata ad orientarsi nella vita e nell’essere (autocoscienza); la convinzione che l’uomo conosce oggettivamente e validamente grazie alla riflessione e a partire dall’esperienza, in modo da risalire dalle parti al tutto, dagli effetti alle cause. Diremo sinteticamente che contingenza della realtà e validità del principio di causa sono le condizioni previe per parlare di Dio.
E così in questo testo che fa da pendant all’opera più nota di Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, anch’essa riedita nella collana “Opere complete” (cf. la mia recensione in Lateranum 80 [2014] 656-661), l’Autore corre il rischio di Dio ripercorrendo le forme e i modi (non tutti in verità) in cui l’uomo si è cimentato con le prove volte a dimostrare l’esistenza di Dio. Certo, la connaturalità della domanda su Dio può essere riconosciuta partendo dalla stessa negazione di Dio che, talvolta ricorrente, è diventata nella forma della negazione dell’esistenza di un Dio personale (ateismo) l’esito necessario di quel principio d’immanenza sotto il quale inesorabilmente si trova tutta la modernità filosofica. All’ateismo è dedicato il capitolo di apertura; tale fenomeno, lungi dall’essere una situazione originaria dell’uomo è piuttosto un fenomeno riflesso, la conclusione di un determinato processo razionale che fa capo a certe premesse; certo, «per non esser detti atei non basta affermare l’esistenza del “divino” o dell’assoluto: bisogna pensarlo come Persona sussistente e trascendente ed insieme sollecito del mondo e delle nostre miserie» (40). Perciò la massima parte della filosofia moderna cade sotto l’accusa di ateismo, non solo il materialismo dialettico di Marx ed Engels ma il rinascimento italiano, il deismo inglese, i libertini di Francia, l’illuminismo francese e tedesco, Kant, gli idealisti, i post-hegeliani, l’esistenzialismo di Sartre e di Camus, la filosofia di Jaspers ed Heidegger, il neoidealismo di Croce e Gentile, insomma non si può salvare nessuno. Inoltre l’ateismo conosce anche la forma dell’umanesimo ateo, quell’atteggiamento «dell’uomo verso se stesso e verso il suo mondo ch’è caratterizzato dall’intuizione pratica e teoretica che l’idea di Dio con tutta la (sua) importanza nella storia passata è stata superata dalla ragione umana e che l’uomo è pertanto unicamente e totalmente responsabile per sé e per il suo mondo» (122). Non ci sono solo gli atei ma anche la posizione dell’agnosticismo che, seguendo una cautela di metodo e di ricerca, conclude in una sospensione del giudizio nei riguardi del senso ultimo della realtà e nell’affermazione dell’inattingibilità per la mente umana di tutto ciò che concerne Dio e l’origine delle cose (cf. 93). Hume e Kant tra i filosofi sono i rappresentanti più noti, ma esiste anche un agnosticismo teologico rappresentato da quanti o perché diffidano della ragione in sé, o perché riconoscono una sua eccessiva debolezza, nel parlare di Dio si attengono solo al dato rivelato. È anche vero che un “agnosticismo moderato” è inevitabile quando si parla di Dio. In fondo Tommaso d’Aquino nel suo realismo aveva riconosciuto il carattere necessariamente limitato della conoscenza razionale di Dio, tale che non è possibile raggiungere la quidditas di Dio, per quanto la certezza che deriva dalla conoscenza circa Dio pertiene la sua esistenza e le sue caratteristiche metafisiche fondamentali (cf. Summa theologiae I,2,2 e quanto scrive l’Autore alle pp. 149-153). La singolarità di Dio nel processo conoscitivo che lo riguarda impone anche il ricorso all’analogia, la quale costituisce il metodo proprio della conoscenza razionale di Dio (cf. 155). Riconoscere la parzialità della conoscenza razionale di Dio è necessario per evitare derive razionaliste (e, simmetricamente, fideiste) ed è tutt’altra cosa dal negare una “conoscenza positiva”, per quanto limitata, di Dio. Proprio perché la ragione umana può fare affermazioni conoscitive su quella realtà che gli sta più a cuore, l’esistenza di Dio si può razionalmente dimostrare e lo si può fare in diversi modi, per quanto il nostro si concentri di fatto sulle cinque vie di Tommaso delle quali così scrive: «ciascuna di esse parte da un fatto ontologico evidente, di evidenza sperimentale, e dentro di esso elabora il rapporto di dipendenza. Cinque vie da cinque distinti punti di partenza, ma identico il termine ch’è l’esistenza di Dio, come Principio Primo assoluto di ogni modalità degli enti. È un canto a cinque voci che scaturisce dalla distesa sconfinata degli esseri, dai movimenti che li agitano alla superficie come nella realtà profonda che li costituisce» (136). Alle cinque vie sono dedicate le pp. 136-148; è da rilevare la preferenza e l’attenzione che Fabro accorda alla quarta via, a cui sono dedicate due delle tre appendici al cap. III (cf. 219-266), distanziandosi in questo da altre interpretazioni come quella di F. van Steenberghen, che ritiene la quarta via come formulata nella Summa inutilizzabile (cf. Le problème de l’existence de Dieu dans les écrits de S. Thomas d’Aquin, Louvain-La-Neuve 1980, 225).
Il cap. IV mette a tema l’argomento ontologico e soprattutto le sue riprese moderne che attestano la notevole fortuna dell’argomento di Anselmo ma anche la grande difficoltà a coglierne il significato autentico. Presentata la formulazione del Proslogion (cf. 269-281), sono illustrate poi le “variazioni razionalistiche” rappresentate da Cartesio, Malebranche e Leibniz. In realtà l’argomento ontologico – equivoco del movimento del razionalismo scolastico e moderno – è in profonda divergenza da Tommaso; mentre nella tradizione agostiniana e del razionalismo moderno l’ens è ricondotto all’essenza intesa come fondamento della perfezione e dell’attualità (dove però l’essenza è esistente ratione sui), Tommaso ha superato la sfera dell’intellettualismo ed ha svincolato il reale dal circolo della logica astratta dei possibili (cf. 296-302). La denuncia dell’equivoco della prova ontologica avviene in Kant, la cui demolizione dell’argomento ne determina paradossalmente l’apoteosi in Hegel. Fabro ritorna più ampiamente sulla critica kantiana delle prove dell’esistenza di Dio, a cui dedica il cap. V. Kant, del resto, è stato colui che ha dato l’orientamento definitivo al pensiero moderno con la riconduzione del problema della verità dell’essere al principio d’immanenza espresso dal cogito; allo stesso tempo la descrizione della dimostrabilità dell’esistenza e conoscenza di Dio costituisce il nucleo di tutta la Critica della ragion pura. Le considerazioni di Fabro si addentrano con analiticità e ampiezza nell’analisi della pagine che sono tra le più ardue in Kant (cf. 320-366). L’ultimo capitolo ha per titolo Teologia dialettica e problema di Dio. Partendo dall’affermazione luterana del Deus absconditus e dalla profonda svalutazione della ragione nel riformatore, il capitolo ripercorre la posizione su ateismo, analogia e conoscenza naturale di Dio in autori come Barth, Bultmann, Tillich, Bonhoeffer.
Fabro non è stato solo un illustratore del pensiero soprattutto moderno su Dio, ma anche un interprete che dalla sua prospettiva particolare ha riletto la filosofia moderna. La sua posizione merita ancora oggi di essere conosciuta e discussa perché può conservare elementi che aiutano ad entrare in quella modernità probabilmente più complessa e meno monolitica di quanto egli credesse. Rimane la perplessità di fronte ad una lettura troppo “apocalittica” che pone tutto il moderno sotto il segno coerente e necessario dell’ateismo quale finis in consequentiam veniens del principio d’immanenza.
Tratto dalla rivista Lateranum n.1/2015
(http://www.pul.it)
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