Le donne nella modernitā
(Al di lā del detto) [Libro in brossura]EAN 9788889198667
Lunga, tortuosa e ancor oggi incompiuta risulta la strada percorsa nei secoli dalle donne per ottenere il riconoscimento dei diritti civili, politici e giuridici e acquisire la pienezza della cittadinanza. All’interno di tale cammino, A. Rossi-Doria (docente di Storia delle donne in età contemporanea) individua una costante piuttosto evidente nella duplice richiesta della rivendicazione, da una parte, della parità dei diritti e, dall’altra, della propria differenza, intesa non come limite ma come valore. Partendo dal riconoscimento dell’origine delle battaglie civili delle donne per l’acquisizione della cittadinanza nella «denuncia della falsa neutralità dei termini “uomo” e “cittadino”» (p. 8) che emerge dalla lettura della Dichiarazione dei diritti del 1789, l’autrice passa ad affermare che la «vicenda dell’esclusione delle donne dalla cittadinanza va legata strettamente alla loro esclusione dall’individualità » (p. 9).
Tale “esproprio” si è esplicato, nel corso dei secoli, nel mancato riconoscimento di diritti giuridici delle donne (acquisiti da padri e mariti) ed è stato «espressione di quella più profonda mancanza di autonomia che è la mancata proprietà di se stessi, della propria persona» (p. 10). Tra i molti argomenti che, a partire dai tempi della democrazia ateniese fino alla metà del Novecento, sono stati portati a supporto della tesi che sosteneva l’esclusione delle donne dalla pienezza dei diritti ne viene qui individuato, in particolare, uno. Alla donna è stata a lungo riconosciuta la funzione di “custode” di alcuni valori (come la solidarietà e la cura dei deboli), spesso trascurati dagli uomini: accedere ad altri ruoli, come quello di elettrice o di professionista avrebbe implicato – indirettamente – la dissoluzione della famiglia e della società. «Nel momento in cui le donne chiedono i diritti politici – scrive A. Rossi-Doria –, mettono in discussione la divisione tra sfera privata e sfera pubblica e quindi anche i rapporti tra uomini e donne nella sfera privata» (p. 11). Nella complessa storia dell’acquisizione della cittadinanza tra Settecento e Novecento, tre passaggi risultano particolarmente significativi: la Rivoluzione francese e la diffusione del pensiero di Rousseau, il movimento suffragista, l’estensione del voto alle donne in Italia. Nel quinto libro dell’Emilio o dell’educazione, in particolare, viene espresso il pensiero del filosofo francese sulle donne. Una volta stabiliti i criteri dell’educazione dell’uomo, improntati sull’educazione alla libertà, all’autonomia, allo spirito critico, è presentato il percorso educativo di Sofia, futura sposa di Emilio, che è fondato non sulla libertà, ma sull’obbedienza fornendo così «una definizione delle donne che le esclude, prima ancora che dalla cittadinanza, dall’individualità» (p. 15).
Particolarmente significativo è il fatto che queste teorie vengano elaborate proprio da Rousseau, cioè da «colui che sta riflettendo sul nuovo assetto della società politica quale sarà quello dell’uguaglianza democratica; quasi che, come era avvenuto nella Grecia classica, si debbano definire insieme il nuovo criterio della cittadinanza e l’esclusione delle donne che ne fa parte intrinseca» (pp. 15-16). Il pensiero di Rousseau, destinato a esercitare una profonda influenza sulla cultura occidentale, segna perciò un «arretramento rispetto alla dottrina cristiana» (p. 17), che afferma invece fin dalle origini la pari dignità della donna. Nel campo della morale, mentre «un uomo [...] deve attuare una libera scelta morale e mai tener conto dell’opinione, per le donne è vero il contrario: l’opinione, l’apparenza viene prima della sostanza; è più importante sembrare che essere virtuose [...]. Questo, dell’esclusione dalla libera scelta morale, è un caposaldo della inferiorità femminile» (p. 18). Altri insegnamenti impartiti alla piccola Sofia avrebbero contribuito a definire lo stereotipo della donna nell’Ottocento: custode dell’onore, protagonista di una concezione del tempo ciclica (bambinadonna- madre-vecchia), limitata dagli eccessi dei sentimenti ed esclusa dalla razionalità, prerogativa esclusivamente maschile. Una seconda tappa del percorso coincide con la diffusione del suffragismo nel mondo anglosassone, sviluppatosi non a caso in area protestante, dove cioè c’è «molto più spazio per la costruzione della individualità femminile che non nelle culture cattoliche, dove invece è più intenso il riconoscimento sociale, oltre che culturale, del valore della maternità» (p. 29). Le suffragiste, nel promuovere il diritto di voto per le donne, facevano leva «su due idee di fondo, da una parte l’individualità, per legittimare la richiesta femminile di cittadinanza, dall’altra la maternità, intesa però come “maternità sociale”: le donne, che hanno accumulato tanto sapere, tanta esperienza e tanti valori morali come madri di famiglia, debbono trasferire queste capacità e questi valori nella società nel suo insieme» (p. 32).
Studi recenti – scrive A. Rossi-Doria – hanno individuato in tali movimenti la radice dell’idea novecentesca di welfare state: per le suffragiste era necessario che si passasse da una gestione privata dell’assistenza e della carità a una gestione da parte dello Stato. Efficace risulta la lettura simbolica che del suffragismo diede la femminista francese Hubertine Auclert: «votando, le donne non volevano più lo Stato-minotauro che divora i suoi figli (mandandoli a morire nelle guerre) ma lo Stato-madre di famiglia, che provvede ai suoi figli, ed è attenta ai bisogni dei più deboli» (p. 33). Nella fase di transizione dell’Europa novecentesca dalle dittature alla democrazia, uno dei passaggi più significativi – al quale si potrebbe efficacemente applicare il suggestivo simbolismo della Hubertine – è proprio il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Affermato in Italia con un decreto del febbraio del 1945, esso si presenta quasi come un pubblico riconoscimento del ruolo (militare e civile) svolto dalle donne durante la guerra e la Resistenza, e proseguito poi nel secondo dopoguerra. La funzione sociale svolta dall’associazionismo femminile tanto di area social-comunista (l’Unione Donne Italiane), quanto di stampo democristiano (il Centro Italiano Femminile) nell’assistenza di orfani, anziani, reduci andrebbe sicuramente meglio approfondita: «si trattava di un’esperienza che insegnava la democrazia, perché ci si organizzava, si deliberava, si votava per prendere le decisioni, per indirizzare gli sforzi in una direzione o nell’altra» (p. 48).
Le ultime pagine del saggio si presentano come un contributo a una «storia delle emozioni e dei sentimenti» che resta ancora tutta da scrivere: «nel momento in cui le donne diventano cittadine in quanto vanno a votare, hanno una sensazione soggettiva di libertà personale: non è tanto la gioia di poter eleggere i propri deputati ma [...] è la gioia di essere degli individui» (p. 52). Alla ricerca delle tappe di un percorso che si snoda tra maternità sociale e affermazione dell’individualità, fondamentale risulta la memoria femminile del voto del 2 giugno 1946, apposto nella segretezza dell’urna. Racconta Clelia Manelli, una partigiana modenese: «La mia prima esperienza in fatto di voto fu un’emozione incredibile. Mi tremavano le mani, le gambe, le braccia, non sapevo come reggere mio figlio, avevo timore di sbagliare, di sporcare la scheda, di rendere nullo il mio primo importantissimo, utilissimo voto» (p. 52). E una partigiana bolognese, Zelinda Resca, ci ricorda che quello fu un avvenimento che «univa questa emozione di libertà individuale all’idea di un riscatto collettivo delle donne, anche di altre generazioni» (p. 53): «Finalmente potevamo votare. Era una rivincita, una rivincita come donne, che non avevamo mai potuto far niente. Le nostre mamme che non avevano mai potuto dire una parola, questa era un’occasione... Io sinceramente sono emozionata anche adesso quando vado a votare, allora figuriamoci! Credo che le mani tremavano» (p. 53). Emozione condivisa anche dalla scrittrice Anna Banti: «nella cabina di votazione avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi tra il segno della repubblica e quello della monarchia» (p. 54).
Tuttavia, nonostante l’accesso al voto, l’acquisizione della piena cittadinanza – nell’Italia repubblicana pesantemente condizionata nel suo avanzamento democratico dal “congelamento costituzionale” – veniva ancora ostacolata: ne è un esempio l’esclusione delle donne, fino al 1963, dalla Magistratura. Oggi – scrive A. Rossi-Doria fotografando la società italiana – «il problema non è più quello dell’accesso alle professioni, ma della piramide e del “soffitto di vetro”: le donne sono numerose ai livelli bassi, ma diminuiscono via via che si sale, andando a sbattere contro un’invisibile ma precisa barriera. In modo particolare, la sfera che resta sostanzialmente un “monopolio dell’uomo” (come suonava il titolo di una conferenza di Anna Kuliscioff del 1890) è la politica, non intesa come militanza [...], ma come politica istituzionale» (p. 57). Da una riflessione sulla storia dei diritti delle donne, «tra rivendicazione dell’uguaglianza e coscienza della differenza» (così recita il sottotitolo del seminario entro il quale questo contributo è stato esposto), nascono ulteriori spunti e suggestioni che si potrebbero facilmente estendere ad altri soggetti – analogamente portatori di alterità e allo stesso modo compressi tra omologazione da una parte e affermazione della differenza dall’altra – come gli stranieri (donne e uomini), anch’essi in cammino sulla strada della rivendicazione dei diritti civili giuridici e politici e, più in generale, della cittadinanza.
Tratto dalla rivista Humanitas 64 (6/2009) 974-977
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)