Filosofia del peccato originale
(Filosofia e teologia)EAN 9788889130636
A. Fabris raccoglie e rielabora in questo denso volumetto alcuni suoi precedenti saggi. Lo scopo è quello di «rintracciare nel concetto di “peccato originale” un tentativo di moralizzazione del male […] studiare il rovesciamento di questa concezione qual è avvenuto in una determinata fase della storia del pensiero, con l’emergere di una lettura di Gn 3 in termini emancipativi [...] indagare gli specifici livelli di relazione che nel racconto biblico sono implicati e messi in scena, nonché la nozione di “libertà” che da esso si può ricavare» (121).
Il libro si staglia in quattro capitoli. Il primo, L’interpretazione religiosa del male e la dottrina del peccato originale (18-42), rende conto di quanto la questione radicale del male sia presa di petto dalle varie religioni, specie quelle monoteistiche. Segue poi una disamina delle differenti manifestazioni del male, del nesso tra “Dio e il male” visto in vari tentativi di soluzione filosofica: la relatività del male in Spinoza; la teodicea leibniziana; il male radicale in Kant; il ruolo della libertà divina e umana (Schelling, Pareyson). A questa linea fa seguito la tragica quaestio del demoniaco e della possibilità del male in Dio (K. Barth, H. Jonas) e il Dio sofferente (J. Moltmann). La conclusione vertente su “il male e il peccato” raccoglie la suggestione di P.C. Bori per cui «l’indagine sull’esperienza del male può costituire un terreno comune a partire dal quale tentar di elaborare un dialogo interreligioso» (42).
Il secondo capitolo, Interpretazioni di Genesi 3: Kant, Hegel, Benjamin, Heidegger (44-59), esamina la fortuna del “mito” protologico biblico nell’ambito della filosofia moderna. In Kant e Hegel, l’approccio è squisitamente positivo ed “emancipativo” (salvo il male radicale in Kant). Si ricordi qui, in inciso, la ben nota seduzione subita dalla filosofia moderna da una positività del peccato adamitico (cf M. Borghesi, «Il patto col serpente», in 30giorni 29 [2011] 80-89; riedizione di un articolo del 2003). Rileviamo la posizione di W. Benjamin (Über die Sprache, 1916) per il quale il peccato originale coincide con una presa di distanza da Dio e con l’assunzione di un linguaggio di tipo giudicante. In Heidegger invece si compie una sorta di secolarizzazione e immanentizzazione del peccato originale in quanto esso si risolve nella costitutiva limitatezza e negatività del Dasein che risulta poi, di fatto, irredimibile. Questa ricerca sul pensiero moderno documenta una fagocitazione filosofica del dato teologico. Compito del filosofo della religione è di «elaborare una lettura filosofica di Gn 3 che ne rispetti davvero il senso religioso» (59). Ed è proprio questo che Fabris tenta nella sua personale rilettura del racconto genesiaco nel terzo capitolo del suo libro (60-76). Qui, il filosofo non omette di porre al centro della sua riflessione il rapporto dell’uomo con Dio e del dramma che il peccato di Adamo suscita per Dio stesso (cf G. Scholem col rimando sia alla Qabballah che a F. Kafka). Gn 3 narra la “nascita della filosofia”, in quanto aspirazione alla conoscenza del tutto.
Il serpente esprime il distacco dal legame simbiotico dell’uomo con Dio e col mondo; esso «induce a cambiare la distinzione con la contrapposizione, trasforma la diversità in conflitto e, confondendo questi due livelli, riesce a convincere la donna e l’uomo a disubbidire. In tal modo introduce propriamente la distanza tra uomo, mondo e Dio: quella distanza che appunto l’uomo accetta e che lo rende in grado di conoscere» (64). Fabris fa sua l’interpretazione hegeliana di Gn 3,22, in cui è scartata la dimensione ironica: l’uomo diventa realmente come Dio per la conoscenza. La differenza è che «in Dio la conoscenza è capacità di mantenere le distinzioni nel quadro di un più alto legame [...], l’amore» (65). Alla fine emerge che, di fatto, il serpente «non mente», ma piuttosto illude l’uomo che la pretesa oggettivante insita nella conoscenza possa portarlo al dominio del Tutto; e questa è anche l’attuale tentazione biotecnologica (69). In definitiva, e con accenti neoebraici, è lecito pensare a una sorta di “fallimento di Dio”: «anche Dio subisce il distacco. Il dramma di Dio, in Gn 3, è dunque il dramma del fallimento di quel particolare rapporto che Dio stesso ha istituito» (71). Tale esito era reso possibile sin dall’inizio del rapporto Dio-uomo, in cui la proposta di comunione (nell’obbedienza al comando) apriva il varco alla rottura e alla contrapposizione. Eppure a fronte di questa perdita, Dio «guadagna un compito: quello di recuperare l’ulteriore legame con l’uomo stesso, e un legame che non distrugga la separazione sempre insita nell’esercizio della libertà.
Il compito, in altre parole, è quello di trasformare di nuovo il rapporto da fatto in evento recuperando finalmente il suo senso» (73). Si invoca cioè il sorgere e l’esperienza di «altri modi di pensare e di vivere la relazione» (76). Il quarto capitolo, Mitologie della libertà (77ss), sviscera il tema della libertà (umana e divina) che soggiace a tutto il brano biblico. Da parte dell’uomo e sotto istigazione del serpente, la libertà si rivela finita e fallibile, in quanto si presta alla rottura di una relazione in atto in Eden, seppure tale relazione era simbiotica. Ciò che è in gioco è il rinvenimento di una vera relazione o “rapporto vero”., a dire la comunione che eviti il duplice scoglio della fusione simbiotica indifferenziata e quello della contrapposizione (85). Bisogna che la libertà sia liberata in direzione di ciò che chiameremmo la relazione “pericoretica”, in cui coesistono unione e distinzione, «giacché la crescita del figlio non si realizza comunque con l’uccisione del padre» (86). Il peccato originale pone invece una libertà «al di fuori di uno spazio di relazione» (ivi). Nella storicità reale, la libertà ferita si espone a un “eccesso del male” (cf Ph. Némo) come violenza incontrollabile e del tutto moralmente anarchica: «piena autonomia dell’agire rispetto ad ogni possibile indicazione e orientamento» (90). In senso contrario, la relazione trova un senso nella misura in cui è buona, ossia feconda: la «relazione che è se stessa aprendosi ad altro, che è feconda di sempre nuove relazioni, attraverso le quali si riconferma, che è di per sé “buona”» (94).
Il comando di Gn 2,17 concede all’uomo la possibilità di «relazionarsi oppure di non farlo» (95). La caduta adamitica significa la scelta di non essere fedele alla relazione: il peccato originale consiste nell’interruzione, determinata da una scelta ben precisa, di quel rapporto che gli esseri umani hanno con lo sfondo relazionale che, pure, li coinvolge» (96). Il peccato originale originato vuol dire nascere in un mondo in cui «le relazioni sono in grado di negare la loro stessa capacità di creare legami» e in cui «la libertà si è trasformata in arbitrio, la differenza in contrapposizione, la scelta in negazione del rapporto» (97). La responsabilità di Adamo (verso Dio e verso il resto dell’umanità) va ricondotta all’aver disobbedito eludendo il rapporto proposto dal Signore e nell’aver dischiuso «possibilit à prima ignote nella dimensione simbiotica» (98). Non dell’eccesso del male (fisico, morale e metafisico) il Progenitore è colpevole, bensì dell’aver avviato «una serie di azioni che possono risultare malvagie »; «scegliendo di non rapportarsi al rapporto che Dio gli propone, ha aperto la possibilità di altre e reiterate azioni consimili» (100).
Il quinto e ultimo capitolo, Fiat voluntas tua (102-119), è un commento filosofico alla terza petizione del Pater, quale espressione emblematica dell’«agire senza azione» proprio dell’uomo di fede. Se ne sottolinea l’affinità e discontinuità (cf il dare del Tu a Dio) rispetto alla tradizione ebraica del Qaddish. Rileviamo la bella nota sull’apparente “antropomorfismo”: con F. Rosenzweig (ma potremmo aggiungere A.J. Heschel e C. Bruaire) va detto che non è tanto antropomorfico dire che Dio vede, sente, vuole, ama, quanto è teomorfico dire che l’uomo compie queste azioni (cf 108, n’ 96). La “meta-richiesta” del fiat voluntas tua denota una sana (perché umile e filiale) relazione verso il divino che evita sia il delirio di onnipotenza, di dominio e controllo totale sul mondo, quanto l’inerzia del disimpegno quietistico: affidamento e zelante impegno si conciliano. Filosofi e teologi potranno trarre profitto da questo pregevole saggio di filosofia della religione che ripensa il peccato delle origini alla luce della categoria di “relazione”.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2012
(www.rassegnaditeologia.it)
Il merito di questa pubblicazione consiste, senza dubbio, nell’aver portato all’attenzione del mondo culturale italiano due figure di indiscutibile livello: Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius, entrambe accomunate da “affinità elettive” nei confronti della fenomenologia husserliana del primo Novecento. Sono anni ormai che A. Ales Bello e il Centro di Ricerche Fenomenologiche si prodigano per la conoscenza del pensiero fenomenologico e in particolare di quelle donne che hanno fatto parte di esso; fra queste oltre alla Stein e alla Martius va annoverata anche Gerda Walther.
La ricerca che presentiamo all’attenzione dei lettori analizza alcune analogie fra le due fenomenologhe. Si tratta di un confronto che pone una particolare attenzione alla Martius, il cui pensiero è quasi sconosciuto in Italia, ma a quanto sembra anche nella stessa Germania. Il contributo che E. Stein e H. Martius hanno offerto alla ricerca fenomenologica si può rilevare nella tenacia con la quale esse hanno applicato il metodo indicato da Husserl. Purtroppo queste ricerche sono rimaste all’oscuro nello scenario filosofico del tempo. Il primo contributo è un inquadramento storiografico delle relazioni interpersonali che sono intercorse all’interno del circolo fenomenologico, sorto intorno a Husserl. Il titolo di questo contributo di J. Feldes è: Il rifugio dei fenomenologi. Il nuovo .Circolo di Bergzabern. dopo la prima guerra mondiale. Si descrive qui la profonda esperienza non solo culturale ma anche umana, vissuta nel cosiddetto Circolo di Bergzabern, ossia la casa dei coniugi fenomenologi H. Martius e Th. Conrad, il cui obiettivo era «quello di mantenere la fenomenologia originaria di Husserl sia contro la svolta trascendentale del maestro, sia contro la nuova definizione di Heidegger » (48).
L’atmosfera creatasi intorno al primo Husserl viene descritta con ricchezza di accenti anche dalla Stein. Quella di Bergzabern non era solo una comunione intellettuale, ma anche amicale e fraterna. Il secondo contributo di J. G. Hart, Aspetti in prima e seconda persona del fenomeno dell’entelechìa, ha come punto di riferimento il pensiero di H. Martius, il quale esamina l’Io “in terza persona” attraverso la nozione di entelechia, a suo avviso di estrema validità, in quanto l’Io o il me stesso è l’unica entelechia della persona e della sua singolarità. In questo passaggio si nota la vicinanza del pensiero della Martius con quello della Stein. H. Martius era orientata prevalentemente alla filosofia della natura in tutta la sua complessità; entrambe tentano un superamento della realtà naturale aprendo la strada all’indagine metafisica. Il terzo contributo di R. Poli, Entia non sunt diminuenda sine necessitate. Alcune riflessioni suggerite da Hedwig Conrad-Martius, tenta di dimostrare che nella Martius è già presente il modo di comprendere l’ontologia, così come la s’intende comunemente, cioè studio dei molteplici livelli della realtà. In particolare, si mette in evidenza quello che, a nostro avviso, rappresenta uno degli aspetti più originali della Martius, ossia la sua interpretazione fenomenologica della natura; essa viene vista come una realtà configurata in maniera sostanziale in una multivariegata modalità riconducibile ad alcuni fondamentali principi.
Il saggio di A.E. Pfeiffer, Teologia e filosofia nell’opera di Hedwig Conrad-Martius, analizza quelle riflessioni gnoseologiche che porteranno la Martius a passare da un argomentazione epistemologica a un’altra metafisica. Le due argomentazioni tuttavia vengono nettamente separate: «per Conrad-Martius, la filosofia è prima di tutto visione dell’essenza, e cioè studio dell’essenza di ogni cosa indipendentemente dalla questione circa la sua reale esistenza o il tipo di esistenza. Ecco perché la studiosa può tranquillamente osservare gli oggetti metafisici con mezzi fenomenologici, senza con ciò condurre uno studio metafisico» (95-96). La vexata quaestio tra gnoseologia e metafisica è approfondita dal contributo di N’ Ghigi: Fenomenologia e metafisica in Hedwig Conrad- Martius. Il percorso fenomenologico della Martius, difatti, ha uno sbocco metafisico «che ha come finalità quella di cercare di far chiarezza in termini filosofici e, al contempo, supportati dalle altre scienze (come la biologia e la fisica), sul senso e sulla costituzione della realtà» (119-120). Il recupero delle questioni della modernità, di cui la fenomenologia rappresenta una delle realtà più significative, ha portato anche a un confronto con la filosofia medievale. Il tema della singolarità umana viene analizzato dalla Stein con il confronto di alcune fondamentali tematiche del medioevo.
Fra queste la quaestio disputata del principio di individuazione, questione non trascurata neanche dalla Martius così come viene messo in rilievo nel contributo del giovane, ma già promettente studioso, F. Alfieri: Il principio di individuazione nelle analisi fenomenologiche di Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius. Il recupero della filosofia medievale. L’intento del contributo delle due fenomenologhe consiste nel partire dall’essere umano, come una sorta di unicum all’interno della specie umana, e «giungere alla sua piena unità ontologica, dal momento che egli si viene a costituire ontologicamente anche con una propria determinazione qualitativa ultima che lo distingue/separa da tutto il resto» (144). Il contributo di M. D’Ambra si concentra su Spirito e anima nei Dialoghi Metafisici di Hedwig Conrad- Martius. Dalla natura all’essere umano. L’A., partendo dalla complicata opera Methaphysische Gespräche, si propone di chiarificare i concetti di spirito e anima e cogliere la loro rilevanza ai fini di un’antropologia; in tal senso l’anima è fondamento qualificante di ogni essere vivente divenendo così genuino fondamento e centro della persona. Di notevole interesse è l’intervento di A. Caputo: Fenomenologia dello spirituale in Hedwig Conrad- Martius, che con riferimenti ad alcuni tentativi contemporanei, mette in rilievo la correlazione del pensiero della Martius con le scienze e in particolare le neuro-scienze. Il confronto con la biologia viene messo in atto dal contributo di A. Cordelli:
L’approccio fenomenologico di Hedwig Conrad-Martius alle scienze della vita. Lo studio, attraverso un confronto con la biologia teorica (ontogenesi, speciazione, evoluzione), arriva a quantificare il valore di quella corrente culturale che portò alla nascita delle cosiddette scienze della complessità. La sesta parte del volume contiene un prezioso contributo, finora inedito, di E. Avé-Lallemant, dal titolo Fenomenologia e l’idea di un’etica dei popoli, introdotto e commentato da Dietrich Gottstein’ L’opera di Avé-Lallemant è stata di fondamentale importanza per la ricostruzione del pensiero di H. Martius. Lo attesta anche il fatto che egli ne ha curato il lascito e ha fondato presso l’Università di Monaco di Baviera un archivio di opere edite e inedite. Il secondo contributo a cura di H. Rainer Sepp, discepolo di Avé- Lallemant, dal titolo Ricordo di Eberhard Avé-Lallemant, presenta un interessante spaccato della vita e degli studi di Avé-Lallemant. La ricerca che si sta svolgendo in Italia sulla fenomenologia della Martius è messa in rilievo da M. Shahid in La ricezione di Hedwig Conrad- Martius in Italia. A tal proposito va notato che, paradossalmente, rispetto alla Germania, l’Italia è l’unico paese in cui esiste un gruppo di ricerca attorno al pensiero della Martius.
Chiudono il libro due note biobibliografiche, una dedicata alla Martius (a cura di M. Shahid), l’altra alla Stein (a cura di F. Alfieri). In definitiva, il testo in questione presenta l’indubbio pregio di aver riportato in auge un’autrice come H. Martius, sciogliendola così dalle maglie dell’oblio. Si tratta certo di un’operazione che era già stata iniziata da A. Ales Bello nel suo studio Fenomenologia dell’essere umano. Lineamenti di una filosofia al femminile, in cui si evidenziava l’importante ruolo, nel circolo husserliano, oltre che della Stein, anche quello della Martius e della Walther. Va anche aggiunto che la Martius aveva cominciato questa sua ascesa in quello che all’epoca era un mondo prevalentemente maschile, e in un tempo assai lontano rispetto a E. Stein. Obietterei, inoltre, ad alcuni interventi che la posizione della Martius è quella più lontana dall’indagine husserliana, anche se il distacco è stato progressivo. Diverse, invece, sono le considerazioni da fare per la Stein la quale coglie con più precisione la tensione realismo-idealismo nel percorso husserliano.
È forse per tale motivo che ella si allontanerà di meno dal maestro, anche se le sue ricerche prenderanno altre vie. Ancora, riteniamo che la tanto declamata svolta idealistica di Husserl resta, a nostro avviso, un paradigma troppo generico, che non tiene conto dei profondi legami e collegamenti che sussistono fra le Logische Untersuchungen e le Ideen, per non parlare degli scritti intermedi. Infine, bisogna rilevare che se ben dodici contributi su quindici parlano diffusamente della Martius, della Stein, invece, si rilevano delle tracce sporadiche, nonostante che il contributo di apertura di A. Ales Bello metta giustamente in rilievo le forti assonanze tra le due filosofe. Queste assonanze però vengono tratteggiate per lo più a favore della Martius, certo quasi sconosciuta rispetto alla Stein, mentre il titolo del libro farebbe pensare a una trattazione ex aequo.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 2/2012
(www.rassegnaditeologia.it)
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