Logica della rivelazione. Analisi filosofica delle condizioni di possibilità della fede
(La filosofia nella teologia)EAN 9788888926551
Il tema della rivelazione divina e della sua intrinseca intelligibilità in rapporto all’atto di fede è da oltre un secolo l’argomento principale di studio da parte della teologia, e in particolare di quella disciplina teologica che a partire dalla seconda metà del Novecento si è andata affermando con il nome di “teologia fondamentale” (Fundamentaltheologie).
Questa disciplina, in seguito agli orientamenti dottrinali del Vaticano II, che tratta della rivelazione divina nella costituzione dogmatica Dei Verbum (1965), si struttura su nuove basi metodologiche e fa registrare una notevole fioritura di nuove ipotesi di interpretazione del dogma, peraltro non sempre in coerenza con la tradizione dottrinale precedente e in particolare con i pronunciamenti solenni del Vaticano I (1970).
Uno dei primi interventi in questa direzione è stato il celebre saggio di Eicher (cf. Peter Eicher, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, Kosel Verlag, München 1977). Più recentemente, altri autori tedeschi hanno affrontato il tema con questa specifica impostazione metodologica (cf. Hans Waldenfels, Einführung in die Theologie der Offenbarung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1996; Hansjürgen Verweye, Gottes letztes Wort. Grundriß der Fundamentaltheologie, Regensburg 20003; Michael Böngardt, Einführung in die Theologie der Ofenbarung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2005; Gregor Maria Hoff, Offenbarungen Gottes. Eine theologische Problemgeschichte, Regensburg 2007). In Francia si segnala in questa direzione il saggio del gesuita Christian Theobald, docente di Teologia fondamentale presso il Centre Sévers di Parigi (cf. La Révélation, Editions de l’Atelier, Ivry-sur-Seine 2006). Anche in Italia sono stati pubblicati degli studi di riconosciuta autorevolezza sulla nozione teologica di “rivelazione divina” ad opera dello spagnolo Juan Alfaro (cf. Juan Alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986), del canadese René Latourelle (cf. René Latourelle, Teologia della Rivelazione, Cittadella Editrice, Assisi, 1986; Idem, Teologia, in Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 1990) e degli italiani Francesco Lambiasi (cf. Francesco Lambiasi, Teologia fondamentale. La Rivelazione, Piemme, Casale Monferrato 1991), Carlo Greco (cf. Carlo Greco, La Rivelazione, Edizioni San Paolo, Milano 2000) e Rino Fisichella (cf. Rino Fisichella La Rivelazione, evento e credibilità, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002). In riferimento a questa produzione scientifica, l’originalità del lavoro di Massimiliano Del Grosso sta nell’aver esaminato la nozione di “rivelazione” propria del cristianesimo in chiave esclusivamente filosofica, servendosi della metodologia della “presupposizione”, tipica delle ricerche di logica aletica.
Questa limitata intenzione dell’autore è onestamente dichiarata già nel sottotitolo dell’opera, che così recita: Analisi filosofica delle condizioni di possibilità della fede. Un autorevole precedente di uno studio con tali caratteristiche metodologiche si può considerare l’opera (oggi poco ricordata, peraltro) del tedesco Romano Guardini (cf. Romano Guardini, Offenbarung. Ihr Wesen und ihre Formen, Werkbund Verlag, Wurburg 1940). Molto più recente è l’indagine, in chiave di filosofia analitica, dell’inglese Richard Swinburne (cf. Richard Swinburne, Revelation. From Metaphor to Analogy (Oxford University Press, Oxford 1992). Tra le due opere si colloca, ma con un carattere metodologico molto meno preciso, l’opera del francese Paul Ricoeur, che nel suo saggio su La Révélation (1968) affronta il tema alla luce della teoria ermeneutica e con le categorie proprie del pensiero religioso protestantico. Ci si può domandare se il tema della rivelazione divina possa essere affrontato, come fa Del Grosso in questo saggio, con gli strumenti della sola logica filosofica. A questo proposito va detto subito che una chiara distinzione epistemologica tra filosofia e teologia è possibile, anzi è necessaria, in questo come in ogni altra materia mixta, ossia in ogni argomento che si presti all’indagine sia filosofica che teologica.
Il tema delle “condizioni di possibilità” della fede è infatti un argomento suscettibile di indagini propriamente filosofiche, a condizione che la fede nella rivelazione venga esaminata – come qui fa Del Grosso – come atto umano di accettazione di una verità proposta da un testimone in base all’evidenza dell’intrinseca credibilità del messaggio e dell’affidabilità del testimone stesso. Quando invece il problema delle “condizioni di possibilità” della fede nella rivelazione divina è affrontato a partire da ciò che nella stessa rivelazione divina viene fatto conoscere circa il mistero della grazia e il suo rapporto con la libertà dell’uomo, allora l’indagine appartiene alla “sacra doctrina”, cioè alla teologia in senso proprio. La giustificazione epistemologica della possibilità di procedere adottando l’una o l’altra di queste due metodologie – che a rigor di logica non si escludono a vicenda, ma nemmeno si confondono l’una con l’altra – è stata da parte mia oggetto di numerosi studi, a cominciare da un saggio del 2005 (cf. Antonio Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione. Un’indagine filosofica alla luce della logica aletica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma), per finire con un trattato del 2009 (cf. Antonio Livi, Filosofia e teologia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna).
Massimiliano Del Grosso dimostra di conoscere questi miei studi (e in effetti li cita nell’ampia Bibliografia alla fine del suo saggio: cf. pp. 303-311), e dimostra soprattutto di averli compresi e di condividerne i criteri epistemologici, con alcune nuove applicazioni che si debbono alla sua autonoma e intelligente riflessione. Una di queste nuove applicazioni è l’interpretazione della storia della teologia cattolica attraverso il paradigma del suo rapporto con la filosofia. La questione è complessa, perché la razionalità non è un valore di pertinenza esclusiva della filosofia (si deve ammettere, infatti, quella razionalità di base che consente il possesso universale delle certezze originarie del senso comune; poi si deve ammettere anche una razionalità propria della riflessione scientifica, diversa secondo il metodo di ciascuna scienza; infine, si deve ammettere che anche la teologia, come riflessione critica sul contenuto razionale del dogma, è una scienza), e anche perché la teologia non si identifica in toto con la fede, ma la presuppone, in quanto l’atto di fede ha una sua ineliminabile componente razionale, in corrispondenza con il contenuto razionale della verità rivelata.
Del Grosso ha presente questa complessità, e il suo discorso, che adesso qui sintetizzo, si svolge senza trascurare alcuno degli aspetti cui ho accennato. Nella Parte Prima (pp. 63-108) l’autore passa prima in rassegna i principali teologi dell’antichità (da Giustino ad Agostino) e attribuisce loro un netto predomino della teologia sulla filosofia; poi espone il metodo teologico di Tommaso d’Aquino, sostenendo che esso rappresenta un felice equilibrio teologico nei rapporto tra ragione naturale (filosofia) e interpretazione razionale del dogma, accolto per fede come verità divina. Nella Parte Seconda (pp. 109-221) viene individuato nella svolta epistemica cartesiana l’inizio della crisi del rapporto tra filosofia e teologia, con il prevalere della prima sulla seconda; questo predominio inizia con un progressivo distacco dalla metafisica e si rafforza con l’interpretazione irrazionalistica della fede (fideismo), per giungere alla sua estrema espressione in quella che Del Grosso denomina la «filosofia teologica» e che nella teologia contemporanea ha come esponenti principali Karl Rahner (1904-1984) e Hans Urs von Balthasar (1905-1988).
Nella Parte Terza (pp. 223-292) l’autore utilizza i risultati della sua penetrante ricognizione storiografica per esporre in modo sistematico il nucleo teoretico del suo lavoro. Esso consiste nel rilevare nel messaggio cristiano degli elementi di razionalità eminente che non possono essere ridotti alla sola riflessione critica della filosofia in senso tecnico e sistematico ma sono da mettersi in relazione con quella che Giovanni Paolo II ha chiamato la «filosofia implicita» e che corrisponde a quello che la filosofia moderna e contemporanea individua come «senso comune». Il senso comune – che consiste nelle certezze originarie e necessarie delle quali è dotata ogni coscienza umana – precede e fonda, dal punto di vista della logica aletica, la riflessione critica della filosofia, ma proprio per questo precede e fonda anche la possibilità di comprendere e di accettare come vera la rivelazione divina. In altri termini, è il rilevamento critico del senso comune – unitamente al rilevamento critico degli elementi propriamente metafisici contenuti nella rivelazione divina – ciò che permette di tornare a parlare di «præambula fidei», nel senso specifico che Tommaso d’Aquino ha dato a questa espressione, oggi recuperata dalla riflessione teologica più attenta a mettere in evidenza, contro il fideismo, le premesse razionali della fede (cf. i miei interventi sulla questione: Antonio Livi [ed.], Premesse razionali della fede. Teologi e filosofi a confronto sui “præambula fidei”, Lateran University Press, Città del Vaticano 2008).
Nell’appendice (pp. 295-302) Del Grosso riproduce prima due capitoli del Libro Primo della Summa contra gentiles, ossia del Liber de veritate catholicæ fidei: il primo capitolo (I, 4) riguarda la conoscenza naturale di Dio (tema connesso a quello del senso comune in rapporto alla fede), mentre il secondo (I, 5) riguarda la necessità morale di una rivelazione soprannaturale, una volta che l’uomo è stato destinato a un fine soprannaturale, e la sua conoscenza naturale è limitata a ciò che di Dio si può dedurre dall’esperienza del mondo. Poi riproduce le celebri Tesi di filosofia tomista approvate con Decreto dalla Sacra Congregazione degli Studi (27 luglio 1914); la riproduzione di questo documento ecclesiastico elaborato agli inizi del Novecento, in piena crisi modernistica, apparirà certamente come poco opportuna a qualche teologo che ritenga del tutto inutilizzabile oggi il magistero di san Pio X e di Benedetto XV e irrimediabilmente superato il contributo teologico che in quegli anni forniva la filosofia tomista e la Neoscolastica in generale. A tale teologo farei osservare che, così facendo, egli si dimostra ignaro della necessità teologica di adottare, nel riferirsi agli interventi dottrinali della Chiesa lungo la storia, quel logico criterio di una «ermeneutica della continuità» recentemente richiamato da Benedetto XVI.
Ma, lasciando da parte in questa sede la discussione propriamente teologica, devo dire che la trascrizione di questi documenti da parte di Del Grosso risponde a plausibili e ben giustificati motivi filosofici, in perfetta coerenza con tutto il discorso da lui condotto in questo saggio. Se infatti la Chiesa ha sempre riconosciuto e convalidato in tanti diversi modi la funzione positiva della filosofia, e in particolare della metafisica, nella riflessione teologica (cf. Antono Livi – Giuseppe Lorizio, edd., Il desiderio di conoscere la verità. A cinque anni dall’enciclica “Fides et ratio”, Lateran University Press, Città del Vaticano 2005), ciò è stato possibile e necessario perché nella coscienza della Chiesa non è mai venuta meno la certezza che la fede cristiana presuppone quegli elementi di razionalità che sono intriseci alla rivelazione divina, elementi che questo pregevole studio filosofico ha così bene messo in evidenza nelle sue diverse applicazioni epistemiche.
Tratto dalla rivista Aquinas n. 1/2010
(http://www.pul.it)