L'ultimo Bellarmino. Studi sull'orizzonte religioso di un uomo moderno
(Eccedenza del passato)EAN 9788886767538
Con molto ritardo presento il breve saggio di Pasquale Giustiniani, curatore dell’edizione critica delle opere di Bellarmino presso Morcelliana, dedicato ad un periodo poco conosciuto della biografia del cardinale gesuita che corrisponde anche agli ultimi otto anni della sua vita: quello del suo «esilio» come arcivescovo di Capua, dove risiedette fisicamente dal 1602 al 1605, periodo durante i quali compì tre volte la visita dell’intera diocesi, celebrò tre sinodi diocesani, una volta il concilio provinciale (p. 52 n.23). Oltre alla vivace esistenza passata, al rischio di essere eletto papa in ben due conclavi, alle vicende che lo hanno legato all’Inquisizione e ai processi a Galileo e Giordano Bruno, ai suoi numerosi testi controversistici come docente a Lovanio e poi al Collegio Romano, Bellarmino è reduce dal conflitto con i teologi della Repubblica di Venezia e dalla controversia de auxiliis che opponeva i domenicani di Bañez ai gesuiti di Molina, per allontanarlo dalla quale Clemente VIII aveva deciso appunto di nominarlo arcivescovo di Capua.
Comprensibilmente l’anziano prelato desidera chiudere la sua esistenza se non negli «ozi» di Capua, almeno lontano dai conflitti della Curia e prepararsi a «rendere conto a Dio della propria amministrazione» (p. 7). Tuttavia ciò che vi è alle spalle, il grande concilio di Trento con le sue scelte riformatrici, ha mutato radicalmente il ministero del vescovo. L’a. cerca di ricostruire proprio questo aspetto, non tanto dal punto di vista storico, quanto da quello teologico-spirituale, servendosi di sei opuscoli ascetici che il cardinale scrive, uno ogni anno, durante il mese ignaziano che trascorre a S. Andrea al Quirinale e che furono pubblicati dal 1615 al 1620. Giustiniani li correla con gli elementi contenuti nell’Autobiografia stesa su richiesta dei suoi superiori e nell’Admonitio ad episcoporum theanenses nepotem suum del 1619 (tr. it. R. Bellarmino, Consigli per un vescovo, Morcelliana 1998) nel quale il cardinale profila proprio l’ideale di vescovo disegnato dal tridentino.
Lo studio consiste sostanzialmente nell’introduzione ai singoli opuscoli, accomunati dall’idea fondamentale che l’a. vuole far emergere: quella della sporgenza di Bellarmino verso la modernità, del ritratto di un pastore davvero «nuovo» (p. 15) cui egli vuole dar vita e addirittura del giudizio di insufficienza da lui dato anche ai decreti conciliari rispetto ai tempi nuovi. Lo stereotipo per eccellenza dell’inquisitore, diventa così il pastore della Riforma cattolica e l’uomo della modernità. Se il primo capitolo introduce il primo opuscolo ascetico, il De ascensione mentis in Deum per scalas rerum creatarum, che raccoglie un interessante campionario di «scale» spirituali (pp. 27-31) rivelando notevole fiducia nell’uomo moderno e giungendo a confrontarsi con Galileo e le sue teorie cosmologiche, il secondo conduce già nelle questioni pastorali e si indirizza ai vescovi con particolare rigore. A loro infatti è rivolto il monito evangelico ad entrare per la porta stretta.
Il vescovo della riforma infatti deve: «risiedere nella propria diocesi; annunciare il Vangelo di persona e non mediante delegati; realizzare una vita di perfezione cristiana senza esclusivizzare la perfezione cristiana al solo stato monastico; decidere di ordinare nuovi chierici secondo una misura equilibrata e le esigenze del territorio diocesano e non per far fronte a desideri soggettivi di carriere ecclesiastiche; ridurre drasticamente ed allontanare da sé un numero eccessivo di ‘benefici’; difendere con prudenza e fermezza la libertà della Chiesa anche di fronte al potere secolare e di fronte ai Principi; conservare moderazione nelle manifestazioni di affetto verso i familiari sul versante economico; infine, destinare abbondanti risorse ai poveri e utilizzarle con mirabile parsimonia per le proprie esigenze quotidiane» (p. 51).
Il terzo ed il quarto capitolo entrano maggiormente nell’impianto ecclesiologico del cardinale, che ha determinato il disegno della Chiesa cattolica nella modernità: la Chiesa è una societas teocratica, come tutti sanno, ma non manca una forza che viene dal basso, abitualmente trascurata, e che dona protagonismo al popolo anche nel conseguimento dei propri beni spirituali. Inoltre le cose stanno cambiando, il regime di cristianità è già alle prese con la secolarizzazione e occorrono pastori e guide nuove (p. 68). Suggestiva la rilettura della parabola dei talenti (riportata a p. 73-74) applicata a vescovi, parroci e fedeli, questi ultimi responsabili almeno del dono della propria anima; maggiori quindi sono i doveri e le incombenze etiche di chi sta più in alto, dal quale invece proviene troppo spesso scandalo per l’arrivismo e la brama delle ricchezze (p. 78). Quali i rimedi? «Praedicatio, scriptio, oratio, vitae sanctae et salutaris exempla» (p. 81).
Nell’ultimo capitolo la transizione verso la modernità sembra spingere sempre di più l’anziano cardinale, che da una parte presta maggiore attenzione alla componente spirituale del soggetto-chiesa, dall’altra ritrova, nel bilancio finale della propria vita, il respiro più profondo della tradizione ignaziana dal quale vorrebbe attingere anche per la riforma istituzionale. Occorre sempre cominciare dall’alto, dai vescovi e dai chierici, ma bisogna anche chiarire la posizione della Chiesa rispetto agli stati moderni che stanno sorgendo. Le metafore della sposa, della madre e dell’edificio dicono la volontà di ritrovare la croce di Cristo come sorgente della vita ecclesiale, non limitando l’ecclesiologia ad una dottrina del potere e trasformando la gestione dei suoi beni in vera cura animarum.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2011
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
-
14,00 €→ 13,30 € -
30,00 €→ 28,50 €