Introduzione
Quel giorno di metà marzo che ha fatto entrare la primavera nei nostri cuori, l’avete sentito anche voi?Con l’anima chiusa in una bolla di inquietudine e di attesa, quel giorno ci siamo portati sulla soglia dell’in-visibile, in una piazza gremita di persone come noi, con gli occhi rivolti a un comignolo che fumava osti-natamente contro il cielo piovigginoso di Roma. Fu-mava un calore bianco, e in quel bianco c’erano tutti i colori della nostra vibrante speranza.A volte i sogni nella vita si realizzano, lo sapete? Io ne avevo uno. Ne avevo uno nel cuore da quasi die-ci anni, da quando cioè avevo scoperto per caso (ma poi esiste davvero il caso?) che a Buenos Aires c’era un “cura villero”, un prete della baraccopoli, molto attento ai poveri, dallo stile di vita umile, spirituale e austero. Un gesuita argentino che fino al 13 marzo 2013 quasi nessuno conosceva fuori del suo Paese ma il cui nome e cognome io portavo tenacemente nel cuore: Jorge Mario Bergoglio.Non avevo mai visto un mio sogno avverarsi, fino a quella sera di marzo. Io sognavo di vedere padre Jor-ge sul soglio di Pietro, era un dono che sognavo per il mondo, perché sentivo che il mondo aveva bisogno di lui, aveva bisogno della sua luce, della sua fiamma.Conoscevo la sua umiltà, la sua profonda dedizione ai poveri, la sua vita di preghiera, la dolcezza del suo cuore. Desideravo che fosse Papa già nel precedente Conclave del 2005 e, quando la sera del 13 marzo scor-so ho visto affacciarsi il protodiacono con il nome del nuovo Pontefice, ve lo confesso, ho trattenuto il fiato per un tempo che m’è parso infinito e poi, con il cuore che mi rullava nel petto come un tamburo, mi è basta-to udire Giorgio, soltanto Giorgio, in latino, per capire in un istante che era Jorge e allora sono scoppiata in un pianto dirotto.Che giorno importante è stato quello! Ma che giorno ancora più importante è stato quel lontano 21 settembre 1953 quando un ragazzo di poco più di sedici anni entrò nella chiesa di San José, a Bue-nos Aires, per una fugace visita al tabernacolo e sentì nel suo cuore in modo chiaro e ineludibile la chiamata al sacerdozio.Quel giorno, proprio quel giorno molto lontano, ci veniva dato un padre.Un padre le cui parole – pronunciate con la sua voce calma e pacata dalla calda cadenza argentina – sono stille di dolcezza che scendono nei cuori infreddoliti e desolati di tanti uomini del nostro tempo.Noi siamo i figli e i nipoti del Novecento, un secolo che ha seppellito i padri. Ma averli seppelliti non ci ha resi più liberi né felici. Ci ha resi soltanto più soli. Ci ha resi degli orfani.Il senso del nulla che ossessiona molti nostri con-temporanei, su cui soffia impetuoso da tanto tempo il vento gelido della secolarizzazione, è la tragica risul-tante di un materialismo consumista che non ha man-tenuto nessuna delle sue promesse di felicità, lasciando la maggior parte di noi ai bordi di un deserto, psicolo-gico e morale.È il deserto dell’amore distrutto, della vita che non dà barlumi. Il deserto dei nostri cuori inariditi, impo-veriti dal disamore, resi più chiusi e più duri dal dolore e dal risentimento. La scienza, la tecnica e la psicolo-gia non sono state capaci di fornire una spiegazione esauriente alle domande fondamentali che da sempre ci assillano: chi sono io e perché vivo; in altre parole, qual è il senso della vita, come sciogliere il suo mistero, perché si sta al mondo, e se c’è un fine in tutto questo, uno scopo, una destinazione.Noi, che siamo esseri umanamente finiti, anelia-mo all’infinito di cui le nostre anime sono impastate, e non possiamo accontentarci di minutaglie, di eventi minimi, per dare un significato che illumini la nostra esistenza.Credere all’incredibile. Per noi significa credere che Dio non solo esiste ma ci è padre e come un padre ci ama. Questa è la cosa più difficile per noi. Per tutti noi. Per me e per te. È come affacciarsi su un grande abisso di cui non si conosce la profondità e che a guardarlo ci dà un senso di vertigine.È un mistero che non riusciamo a comprendere, che forse non comprenderemo mai, ma che tuttavia ci libe-ra dal nostro narcisismo e ci dona lo stupore di sentirci amati oltre ogni merito, facendo esperienza della no-stra creaturalità.C’è un vecchio midrash, un racconto rabbinico, che dice: «Un principe era lontano da suo padre, a cen-to giorni di cammino. I suoi amici allora gli dissero: “Torna da tuo padre”. Ed egli rispose: “Non posso, non ne ho la forza”. Allora suo padre gli mandò a dire: “Tor-na finché puoi, e io ti verrò incontro per il resto della strada…”».Ecco, credo che noi lo stiamo sperimentando. Qual-cuno ci sta venendo incontro per il resto della strada. Qualcuno che ci fa sentire la nostalgia di quell’abbrac-cio che forse finora abbiamo rifiutato, quel “tuffo” nel grembo del Padre forse non ancora accolto, a cui ab-biamo talvolta preferito le luci ingannevoli e fredde di “un paese lontano” che però non ci ha regalato quella felicità che ci prometteva ma solamente l’immensa, spaventosa libertà degli orfani.“El cura”, lo chiamavano quando girava per le strade polverose di Buenos Aires, “il prete”. E, da Papa, Jorge Mario Bergoglio non è e non sarà altro che questo: un prete. Cioè un padre.Un padre è ciò di cui noi abbiamo bisogno, e in tanti l’abbiamo capito quel 13 marzo, vedendolo affacciarsi con il suo “buonasera” sull’immensa piazza brulicante di gente. Un padre che ci parli con la lingua della te-nerezza, che ci mostri il volto dell’amore. Un padre che ci regali quella carezza che non ritroviamo più se non nell’albeggiare di un sogno. Ma questo sogno, oggi, si avvera.
L’autrice