Rubare le anime. Il diario del rapimento di Anna del Monte, ebrea romana
(La memoria restituita)EAN 9788883343186
La collana «La memoria restituita. Fonti per la storia delle donne» vuol essere il luogo d’elezione che ospita le scritture femminili dal tardo medioevo all’età contemporanea: in essa il Diario di Anna del Monte rappresenta una testimonianza eccezionale, per più motivi. Si tratta del diario di una giovane ebrea romana, fanciulla diciottenne strappata ai genitori nel 1749 e rinchiusa per tredici giorni nella Casa dei catecumeni della città per ottenerne la conversione con pressioni materiali e psicologiche. Rimasto inedito fino al 1989, esso conosce un’edizione a cura di Giuseppe Sermoneta, di difficile reperibilità. Il manoscritto originale nonè consultabile, in quanto conservato presso un archivio privato a Gerusalemme, e non se ne conoscono copie: nell’edizione di Sermoneta esso consta di 107 carte recto-verso, è redatto in lingua italiana con inframmezzate parole o intere frasi in ebraico; si apre con un frontespizio decorato a mano con il titolo, l’anno di redazione e lo stemma della famiglia del Monte (tre piccoli monti sotto una mezzaluna).
Il codice è composto da varie parti redatte da un’unica mano: un’introduzione redatta da Tranquillo del Monte, fratello di Anna (Alla perpetua memoria della Cosa Al Benigno Lettore, secondo la prassi di dedica al lettore, in genere candidus), con la descrizione del ritrovamento del diario parecchi anni dopo la morte di Anna; la copia fedele dell’autografo per mano di Tranquillo (Copia fedele del mano Scritto ritrovato della mia sorella); un poemetto in ottave di 126 strofe (sul modello della Gerusalemme Liberata del Tasso) scritto sulla vicenda dal rabbino Sabbato Mosè Mieli e completato dallo stesso Tranquillo (Istoria in ottave rime). Fu la stessa Anna a redigere le pagine del Diario, una volta tornata a casa dopo la penosa reclusione e aiutata dal rabbino Sabbato Mosè Mieli: si tratta di una sorta di sfogo, di confessione a fini catartici sulle pene e le angosce provate nei lunghi tredici giorni trascorsi lontano dalla famiglia, di cui la giovane si rifiutò di parlare ai propri congiunti, al punto da svenire ogni volta che la vicenda subìta le veniva ricordata. Dopo la morte di lei i familiari cercarono vanamente il diario, ma esso apparve miracolosamente anni dopo tra le mani di un rigattiere che lo rese alla famiglia. Tranquillo decise così di trascriverlo fedelmente.
Come nota Marina Caffiero nella ricca introduzione (pp. 7-55), siamo di fronte a un vero e proprio ipertesto, un insieme di documenti diversi che costituiscono la memoria di un individuo o di una famiglia assai importante nella storia del ghetto romano fra Sei e Settecento: si tratta per certi aspetti di una cronaca familiare redatta all’interno dell’ebraismo romano, al pari di quella dei Citone, quest’ultima composta però in ebraico con inframmezzate parti in volgare. Il documento attesta inoltre l’allineamento dell’élite culturale e sociale ebraica all’usanza tipica della società maggioritaria cristiana di redigere la storia della propria famiglia, non solo tracciando le genealogie illustri, ma anche registrando eventi degni di nota. Il diario non si può però compiutamente considerare un «libro di famiglia», ma è una forma letteraria ibrida: autobiografia, ma al contempo libro di famiglia, che ampio spazio concede alla forte dimensione religiosa, la quale trova espressione nell’uso dell’ebraico nei momenti più privati e drammatici del racconto, di cui solo i lettori ebrei possono essere partecipi, nonché nell’uso di formule fisse, tradizionali, di benedizione, di richiesta di aiuto divino. Abbiamo qui un triplice livello storico: la storia individuale, quella della famiglia e quella della comunità a contatto con il mondo maggioritario cristiano, versus il quale coltivare la memoria è un’operazione che l’ebreo Tranquillo si sente chiamato a fare: «La storia di Anna andava tramandata non solo e non tanto perché storia importante di una famiglia e di un individuo, ma per il suo valore esemplare e perché riguardava l’intera comunità, attestando l’attaccamento all’ebraismo della sua protagonista e la manifesta ingiustizia e antimodernità delle leggi ecclesiastiche e dei comportamenti verso gli ebrei» (p. 11).
E tuttavia, sembra che Tranquillo abbia fatto di più, come sospetta Sermoneta, per il quale i conti non tornano e che ventila addirittura l’ipotesi che il diario sia una finzione letteraria e rispecchi una struttura retorica: non si precisano mai infatti le circostanze del ritrovamento del Diario e vi sono numerosi errori nella datazione della vicenda di Anna. Nel frontespizio la data della vicenda viene prima fissata ai giorni 3-16 maggio 1749, poi abbiamo la correzione a mano in 6-19 maggio 1749 e nell’introduzione Tranquillo ripete il 6-19 maggio ma dell’anno 1795, un errore non casuale, come vedremo. All’interno del racconto di Anna, invece, abbiamo la data di domenica 20 aprile 1749. Inoltre perché Tranquillo copia, seppur fedelmente, il Diario di Anna? Se lo fa per permettere una grande diffusione dell’opera, perché essa resta introvabile? Insomma, forte è il sospetto che il Diario sia di mano di Tranquillo e non di Anna, ennesimo esempio di mediazione di mano maschile delle scritture femminili. Marina Caffiero offre, nell’introduzione, una precisa ricostruzione della fisionomia intellettuale di Tranquillo, discepolo del celebre rabbino Tranquillo Vita Corcos e verosimilmente autore, nel 1793, della cronaca dell’assedio del ghetto avvenuto in occasione della rivolta del popolo romano e dell’uccisione dell’agente diplomatico francese Hugon de Basseville, capro espiatorio della rabbia popolare per la decollazione del re francese Luigi XVI.
È, questo, un evento cruciale per la comunità, dal momento che gli ebrei vennero accusati di essere complici e fautori della Rivoluzione francese e come tali coinvolti nell’odio antifrancese. Il Diario è dunque testimonianza preziosa, nella storia dei rapporti tra ebrei e cristiani, delle pratiche antigiudaiche, nonché sguardo aperto sui mutamenti introdotti nello Stato della Chiesa dai drammatici eventi di fine Settecento, sull’emancipazione civile e politica degli ebrei romani per il breve tempo della prima Repubblica romana. È proprio questo il torno di anni in cui Tranquillo sembra copiare fedelmente il diario della sorella, facendo riferimento a un memoriale del 1793 da lui redatto, nel quale avrebbe raccontato gli eventi successivi al ritorno della sorella a casa, fatti di cui non troviamo menzione. La Caffiero ben evidenzia l’importanza del 1793, che si apre con l’esecuzione, in gennaio, di Luigi XVI, appresa con emozione da papa Pio VI che ne parlò come di un «martire». In seguito alla notizia scoppiò nell’Urbe un violentissimo tumulto popolare antifrancese che portò all’assassinio del rappresentante francese nella città, Hugon de Basseville, evento gravido di conseguenze per lo Stato della Chiesa, qualche anno dopo invaso da Napoleone Bonaparte che costrinse il Pontefice al Trattato di Tolentino (19 febbraio 1797).
I fatti del 1793 dovettero suscitare grande impressione, anche a livello letterario: basti pensare alla Bassviliana di Vincenzo Monti (1793) – il poeta banderuola, come ebbe a definirlo Leopardi – che, in linea con l’atteggiamento della società clericale e aristocratica di Roma prese posizione contro la Rivoluzione (salvo poi in seguito appoggiarne entusiasticamente i princìpi), immaginando che l’anima di Hugon, per espiare i peccati, debba assistere, accompagnata da un angelo, ai sanguinosi eccessi della Rivoluzione, culminati nel “regicidio” di Luigi XVI rappresentato con i toni della Passione di Cristo, in linea con il ritratto di martire che ne fece il Papa. In seguito dunque a questi tumulti, il ghetto rischiò di essere attaccato, ma le autorità ecclesiastiche intervennero a impedirlo, al contempo però ripubblicando il severo editto sugli ebrei emanato nel 1775 da Pio VI. Figura di mediazione tra il ghetto e le autorità fu proprio Tranquillo. Si diffuse nel popolo l’idea che gli ebrei fossero una quinta colonna dei francesi e che preparassero con i repubblicani italiani un rovesciamento di regime. In effetti, nella prima congiura antipapale del 1797 uno dei protagonisti fu Pellegrino Ascarelli, esponente di spicco di una famiglia importante del ghetto: «gli ebrei entrarono, insieme con i giansenisti, con i filosofi e con i massoni, quali protagonisti primari, all’interno del mito di lunga durata del complotto anticattolico e antipapale » (p. 21). L’antiebraismo del cattolicesimo settecentesco costituisce una delle principali insegne della restaurazione controrivoluzionaria e contribuisce alla ripresa di “leggende nere” come quella dell’omicidio rituale.
La repressione, i tentativi di conversione forzata e la polemica apologetica contro ogni forma di diversità rispetto all’unità del mondo cattolico occuparono un posto di rilievo nel progetto di riconquista cattolica. Alla luce di queste considerazioni, il 1795 come data del ratto di Anna, anziché il 1749, non è mero lapsus calami, ma un indizio dato da Tranquillo per ricordare la propria partecipazione agli eventi di quegli anni burrascosi, per collegare in una genealogia storica la trascrizione del ricordo della prigionia della sorella e gli avvenimenti terribili in corso. In quest’ottica è verosimile che la trascrizione del diario sia avvenuta alla fine del Settecento, a testimonianza delle sofferenze e degli abusi patiti dagli ebrei costretti a convertirsi e come anticipazione della causa più generale dell’emancipazione e della libertà. Si può anzi ipotizzare che la copiatura del diario sia avvenuta nel corso della breve vita della Repubblica Romana e la Restaurazione ne abbia bloccato la stampa: il diario, infatti, è un testo di polemica forte nei confronti della politica conversionistica del Papato, essendo una narrazione in difesa dell’identità ebraica, che passa attraverso la vicenda di una donna che, a dispetto dell’imbecillitas sexus, è raffigurata salda nella sua fede e forte nei comportamenti.
Perché avvenne il rapimento di Anna? Esso avvenne a causa dell’atto formale, eseguito davanti a un notaio e a due testimoni, di Sabbato Coen che, dopo essersi convertito, aveva offerto la giovane alla religione asserendo fosse sua promessa sposa. Abbiamo qui sullo sfondo una delle forme più frequenti di battesimo coatto, cioè quella derivante dalla pratica delle cosiddette «oblazioni» o «offerte» di ebrei alla religione cattolica, cui i convertiti erano caldamente spinti dall’autorità ecclesiastica e che la Caffiero ha ben illustrato con ampia messe documentaria nel suo Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi (Viella, Roma 2004). Anna in realtà nel diario parla di una falsa denuncia, con riferimento alla pratica, da parte di cristiani e di ebrei convertiti, di denunciare persone, parenti e non, che secondo loro avrebbero espresso la volontà di convertirsi. Spesso arbitrarie e false, fatte all’insaputa del denunciato, per vendetta o rancori personali o familiari, le denunce avevano come conseguenza la chiusura del denunciato nella Casa dei catecumeni per dodici giorni, per riscontrarne la volontà di convertirsi, ma spesso i dirigenti della casa dei Catecumeni prolungavano la reclusione ad libitum, fino a quaranta giorni: sono le cosiddette quarantene con cui Anna viene minacciata, per piegarla alla conversione. Del pari vittime di questi rapimenti erano i bambini, che venivano quasi subito battezzati, laddove per gli adulti c’era una qualche possibilità che potessero resistere, come nel caso di Anna. È in particolar modo Benedetto XIV, «il vero autore di una svolta giuridica antigarantista» (p. 29), a facilitare e incoraggiare, con la sua normativa, la pratica dell’offerta.
Nel 1747, due anni prima della vicenda di Anna, il Papa, nella sua imponente normativa in materia ebraica, aveva deliberato sulla questione delle denunce- offerte delle promesse spose, ricordando che il promesso sposo e il marito avevano il diritto e l’autorità di offrire la sposa e la moglie alla fede, mentre la Chiesa aveva quelli di accettare l’offerta e di rinchiudere le donne nella Casa dei catecumeni per indurle alla conversione. In seguito alle rimostranze degli ebrei per le false dichiarazioni di sponsali – anche perché la stessa Lettera papale del 1747 stabiliva che la promessa non dovesse essere messa per iscritto –, spesso da parte di pretendenti respinti, indussero il Papa a intervenire nuovamente, affermando che occorreva provare la realtà e la correttezza degli sponsali e che, nei casi dubbi, la donna dovesse essere portata in un luogo neutro per esplorarne la volontà e successivamente o rinviarla nel ghetto, qualora avesse rivendicato la propria ebraicità, o inviarla nella Casa dei catecumeni: dunque la procedura cui viene sottoposta Anna non è regolare. Luogo ove si svolge la vicenda di Anna è la Casa dei catecumeni: sparse in tutta Italia, le case dei catecumeni erano il contraltare del ghetto. La Casa dei catecumeni e neofiti di Roma fu fondata da Paolo III Farnese nel 1543 con la bolla Illius, dunque prima della fondazione del ghetto nel 1555, ed era destinata ad accogliere ebrei, musulmani e altri infedeli.
L’istituto sorse per impulso di Ignazio di Loyola ma non fu mai diretto dai Gesuiti, bensì da dodici sacerdoti secolari: era un vero e proprio “sistema” finalizzato alla conversione. Il Diario ci informa delle diverse figure collegate alla Casa: ecclesiastici, come il rettore, il vicegerente, i predicatori, la priora che risiedeva nel settore femminile, e laici, come i neofiti e le neofite che vi prestavano servizio, tutte persone che ruotano incessantemente intorno ad Anna per indurla alla conversione. Grazie a quest’opera, oltre ad altri stereotipi storiografici, cade quello che vorrebbe l’esistenza, all’interno del cattolicesimo, di due linee ideologiche e comportamentali nei confronti degli ebrei, una emotiva e irrazionale del popolo e del basso clero, incline a credere a tutte le accuse, l’altra propria delle più alte autorità e dei circoli dotti, ché, in questa fonte come in altre, tutti i membri della gerarchia ecclesiastica sono coinvolti nel tentativo di convertire gli ebrei. Nel caso delle donne ebree la conversione era tanto più importante, giacché significava poi inserirle nel mercato matrimoniale e assicurarsi figli cristiani. Ma Anna oppose resistenza a chi voleva piegarne la volontà: pianse, pregò, sperò, soffrì, sempre però vigile e attenta a non pronunciare un sì compromettente. Per seguire lo scorrere dei giorni chiese che ogni giorno le venissero portate due uova, sì da serbarne uno al giorno. Contesa, al centro dell’attenzione del vicegerente e di Anna stessa, l’anima, quell’Anima che Anna non deve farsi rubare, che deve salvare, contro coloro per i quali dare l’anima significava battezzare qualcuno (e il pensiero va al bellissimo libro di Adriano Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino 2005, in cui la microstoria di Lucia Cremonini, ingravidata da un prete e costretta, per non perdere la reputazione di «putta onorata », a uccidere il neonato, morto dunque senza ricevere il battesimo, si fa occasione per riflettere su un problema ricorrente nella storia della civiltà, e cioè se esista e in che cosa consista la speciale natura dell’essere umano).
Il Gegenpole, l’antagonista di Anna è il Padre predicatore, da lei descritto come figura satanica, arrogante e minacciosa: in genere i predicatori erano ebrei convertiti, che entravano nell’Ordo Praedicatorum, apostati per eccellenza della fede ebraica, di cui conoscevano perfettamente dottrina e usanze. Il predicatore le pone il Rosario sulla testa, ai piedi del letto di Anna c’è un crocifisso, che ella chiama legno, ma l’ossessione del frate è quella di aspergere la fanciulla con l’acqua santa: «Io sono Ebrea, e non ho niente a che fare con la vostra acqua, né con altre vostre superstizioni». Un altro punto su cui i predicatori insistono è quella che potremmo chiamare, in termini moderni, «teologia della sostituzione»: in quest’ottica la circoncisione, sigillo carnale dell’allenza tra JHWH e il suo popolo, è figura e prefigurazione del battesimo, senza tenere conto però che, se il battesimo nel cristianesimo è per uomini e donne, nell’ebraismo la circoncisione è solo per gli uomini, data la matrilinearità di questa religione. Alla vigilia della liberazione, ad Anna apparve in sogno il nonno Shabbetai, rassicurandola che le sue pene sarebbero presto finite, a dimostrazione del radicamento della fede grazie all’introiezione fortissima di essa e della memoria: la rivendicazione ferma e decisa di Anna dinanzi alle istituzioni – «Giudia son nata, e Giudia voglio morire» – ne determina la liberazione e le scuse del vicegerente per le violenze subite.
Al termine della lettura del Diario, un testo emozionante e bello – non so però se veramente scritto da mano femminile – si rimane impressionati dalla capillarità dell’organizzazione del controllo della Casa dei catecumeni, la cui gestione è all’insegna dell’horror vacui e mira a non lasciare «interstizi di autonomia»; la resistenza di Anna – e non sono molti i casi di donne ebree rimandate a casa – colpisce, come colpisce la sapienza biblica con cui risponde ai predicatori e la volontà di trovare nei Salmi (uno viene riportato in ebraico nel Diario) sollievo e consolazione. «Anna ha lasciato in ogni modo – direttamente o indirettamente – un segno di consapevolezza di sé e di volontà di autorappresentazione attraverso il quale ha espresso se stessa, la sua dignità, la sua scelta di libertà nonostante ogni pressione [...] Il diario si rivela inoltre di impressionante attualità nel richiamare alla riflessione i temi della libertà di espressione e del rispetto dei diritti umani, ivi compresa la scelta religiosa altrui» (pp. 15-16). Parole della Caffiero forse un po’ troppo attualizzanti: non so quanto Anna pensasse all’identità ebraica tout court o mirasse piuttosto a salvare la propria anima, ma certo è un emblema di quelle donne delle minoranze cui Marina Caffiero ha guardato con interesse come protagoniste sulla scena politica e religiosa dell’età moderna. Si veda al proposito la sezione monografica da lei curata Donne protagoniste. Autorità femminile nelle minoranze religiose, in «Rivista di storia del cristianesimo» 4/2(2007), con contributi di Tamar Herzig, Micaela Procaccia, Adelisa Malena, Stephen J. Stein e Catherine Maire.
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (1/2010) 159-164
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)