Divagazioni filosofiche del reverendo Giuseppe Petich
(Varia)EAN 9788883197444
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Recensione di Francesco De Carolis della rivista Studia Patavina
Giuseppe Meo e Pasquale di Nunno, cui si devono soprattutto la cura degli scritti e il saggio introduttivo, mostrano uno spiccato interesse per questioni vive e figure di pensatori non sempre noti, ma spesso profondi anche nello spazio di un frammento breve, scritto velocemente. Qui viene proposto lo Zibaldone di pensieri del reverendo Giuseppe Petich, un sacerdote, nato a Firenze e già nell’infanzia trasferitosi a Venezia, il quale visse in prima persona, non senza sofferenza personale, la stagione del cattolicesimo nel primo decennio del secolo XX, periodo su cui si sviluppano attualmente molti studi che, pure da questo volume, potranno attingere elementi nuovi da non trascurare per una ricostruzione di un importante momento della storia piú recente del cattolicesimo.
Al di là del dato biografico, già per sé molto significativo, suscitano interesse i pensieri, ordinati cronologicamente, del Petich, che non solo si confrontò fruttuosamente con la filosofia classica e tedesca tra Settecento e Ottocento (ad es. Kant), ma anche con gli sviluppi filosofici a lui piú recenti, quali quelli di Bergson e del bergsonismo. In Petich non vi è nessun determinismo assoluto, né alcun fatalismo. Egli guarda la concretezza e sa che «la realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito» (p. 176). Egli sostiene cioè che la verità consiste nell’invasione di ogni «frazione» della realtà sopra le altre; e se la verità è unità, questa unità, definita come superiore, non esclude la diversità. Del resto, se la realtà è meno dello spirito, «lo spirito è la verità» (p. 177). Pertanto bisogna mantenersi all’essenza della vita (p. 178): la metafisica, se è ricerca della verità, è allora capacità di sondare l’ignoto, senza dimenticare ciò che è noto, e porre tra i due termini una relazione che solo l’arte del filosofo sa costituire e presentare.
Questi concetti, legati ad un’esperienza umana profonda, acquistano ancor piú importanza per la convinzione che li anima, cioè che la pigrizia mentale è il suicidio dell’uomo. Come rileva Pasquale di Nunno nel saggio introduttivo, si nota, nello Zibaldone del Petich, un «continuo ininterrotto trapassare dal registro storico filosofico a quello teoretico», cosí che Petich, tende a storicizzare la filosofia nel suo sviluppo e a porsi in dialogo con gli indirizzi scientifici attuali. Egli ha un vivo senso dell’autonomia umana (aspetto antropologico) e del dinamismo del cosmo (aspetto cosmologico): attento ai problemi umani sospesi tra tempo e durata, tra vita e meccanismo, egli, all’interno di queste complesse questioni su cui si è affaticata la filosofia post-positivista, riflette spesso sul rapporto tra conscio ed inconscio, sulla conoscenza, sul linguaggio, sulle capacità della mente umana. Gli scritti del Petich, che coprono un arco di quasi trent’anni, risultano, insomma, interessanti poiché hanno un carattere di stimolo a riflettere e a sviluppare molte intuizioni e dimostrano una rimarchevole vastità di interessi.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Al di là del dato biografico, già per sé molto significativo, suscitano interesse i pensieri, ordinati cronologicamente, del Petich, che non solo si confrontò fruttuosamente con la filosofia classica e tedesca tra Settecento e Ottocento (ad es. Kant), ma anche con gli sviluppi filosofici a lui piú recenti, quali quelli di Bergson e del bergsonismo. In Petich non vi è nessun determinismo assoluto, né alcun fatalismo. Egli guarda la concretezza e sa che «la realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito» (p. 176). Egli sostiene cioè che la verità consiste nell’invasione di ogni «frazione» della realtà sopra le altre; e se la verità è unità, questa unità, definita come superiore, non esclude la diversità. Del resto, se la realtà è meno dello spirito, «lo spirito è la verità» (p. 177). Pertanto bisogna mantenersi all’essenza della vita (p. 178): la metafisica, se è ricerca della verità, è allora capacità di sondare l’ignoto, senza dimenticare ciò che è noto, e porre tra i due termini una relazione che solo l’arte del filosofo sa costituire e presentare.
Questi concetti, legati ad un’esperienza umana profonda, acquistano ancor piú importanza per la convinzione che li anima, cioè che la pigrizia mentale è il suicidio dell’uomo. Come rileva Pasquale di Nunno nel saggio introduttivo, si nota, nello Zibaldone del Petich, un «continuo ininterrotto trapassare dal registro storico filosofico a quello teoretico», cosí che Petich, tende a storicizzare la filosofia nel suo sviluppo e a porsi in dialogo con gli indirizzi scientifici attuali. Egli ha un vivo senso dell’autonomia umana (aspetto antropologico) e del dinamismo del cosmo (aspetto cosmologico): attento ai problemi umani sospesi tra tempo e durata, tra vita e meccanismo, egli, all’interno di queste complesse questioni su cui si è affaticata la filosofia post-positivista, riflette spesso sul rapporto tra conscio ed inconscio, sulla conoscenza, sul linguaggio, sulle capacità della mente umana. Gli scritti del Petich, che coprono un arco di quasi trent’anni, risultano, insomma, interessanti poiché hanno un carattere di stimolo a riflettere e a sviluppare molte intuizioni e dimostrano una rimarchevole vastità di interessi.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)