In nome dell'imperatore
(Percorsi della memoria)EAN 9788883144363
Negli anni Venti dell’Ottocento, certificano i comunicati di polizia, la quasi totalità del popolo del Lombardo-Veneto era contrario ai sommovimenti, scottato ancora com’era dal passaggio del terrore giacobino prima e dalla vendita napoleonica di Venezia all’Austria poi. Le sirene carbonare esercitavano ben scarso influsso e, tranne qualche testa calda, i cosiddetti “patrioti” erano solo poche decine di illusi, lontanissimi dal resto della popolazione.
Come è stato possibile, dunque, che questi pochi agitatori, talvolta veri e propri criminali (si veda per tutti il caso dell’assassinio di Pellegrino Rossi), nel giro di qualche decennio siano assurti al ruolo di divinità laiche, di martiri dell’Unità italiana? La risposta consiste principalmente in una parola: propaganda. E lo strumento maggiore di tale propaganda fu un “romanzo”, Le mie prigioni di Silvio Pellico, in cui l’autore, sotto forma di memoriale, descriveva, con abbondanza di fantasia, la propria detenzione nel carcere moravo di Spielberg, divenuto da allora sinonimo di prigione terribile.
Peccato che lo scrittore si sia lasciato prendere dalla “sindrome di Ulisse”, che abbia vergato pagine memorabili (una per tutte, la famosa amputazione della gamba di Maroncelli) dai colori foschi, ma non conformi alla realtà. Peccato che abbia omesso di ricordare la presenza di quattro chirurghi giunti da Vienna per curare il malato in questione (altro che barbiere munito di sega!), peccato che non abbia descritto il trattamento più che dignitoso riservato ai prigionieri (biblioteca personale di cento volumi, vitto aggiuntivo, riscaldamento, niente isolamento) per cui più che una vera e propria carcerazione, la detenzione in Moravia si potrebbe assimilare ad una vacanza forzata.
E peccato, soprattutto, che Pellico non faccia parola del pubblico ministero che condusse l’inchiesta, Antonio Salvotti, magistrato brillante (concluderà la propria carriera a Vienna come membro del Consiglio Segreto), persona tanto intelligente quanto umana, al quale lo stesso Pellico scriverà alcune lettere di ringraziamento per il comportamento tenuto durante le indagini e il processo (Salvotti non solo aveva chiesto pene miti, distinto tra illusi non pericolosi e menti criminali – primo fra tutti Confalonieri, già tra i linciatori del conte Giuseppe Prina, ministro napoleonico delle finanze – e si era battuto perché venisse concessa la grazia).
Il motivo del successo del fantasioso memoriale era individuato già all’epoca dallo stesso Salvotti nella segretezza del processo: un pubblico dibattimento, sosteneva il magistrato trentino, avrebbe evitato la nascita di mille calunnie che avrebbero portato a modificare nella popolazione l’idea dell’Austria come buona madre e avrebbero diffuso l’idea di una annessione al Piemonte come panacea per tutti i mali. Invece, la segretezza delle procedure fece fantasticare di inquisitori da tregenda e di torture psicologiche, facendo assurgere a martiri figure mediocri di cospiratori illusi, pronti ad accusarsi a vicenda. Se fosse stata conosciuta da tutti la vicenda dei cospiratori sarebbe risultata una farsa, non certo quella tragedia dipinta dai memoriali dei prigionieri, primo fra tutti quello celeberrimo di Pellico, insegnato anche (e soprattutto) alle scuole elementari.
La francesista Fausta Garavini per una volta abbandona il suo usuale campo di studi per dedicarsi alla ricerca storica attraverso lo studio dei documenti processuali, delle relazioni di polizia e delle fitte corrispondenze tra vari personaggi del Risorgimento italiano per redigere, dopo anni di studio, un romanzo delicato e interessante incentrato sulla vituperata figura di Antonio Salvotti, mente lucida al servizio dell’Imperatore ma cuore aperto a cercare di comprendere la reale partecipazione alle trame carbonare dei vari arrestati, desideroso di non fare di ogni erba un fascio, come accade invece alla maggior parte dei magistrati in cerca di facile pubblicità. Ne risulta un romanzo che scava approfonditamente nella psicologia del personaggio principale e di tanti coprotagonisti, ma che descrive anche la società del primo Ottocento e sfocia nella conclusione che, se non fosse stato per la propaganda, non vi sarebbe stato alcun moto anti-austriaco.
L’opera di Pellico dimostra come talvolta la letteratura possa rivelarsi più forte delle stesse bombe mazziniane.
Tratto dalla rivista Radici Cristiane n. 37 - Agosto/Settembre 2008
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