Antichi e nuovi dialoghi di sapienti e di eroi
EAN 9788883031014
Esaurito
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DETTAGLI DI «Antichi e nuovi dialoghi di sapienti e di eroi»
Tipo
Libro
Titolo
Antichi e nuovi dialoghi di sapienti e di eroi
A cura di
Linda Napolitano Valditara
Editore
EUT
EAN
9788883031014
Pagine
274
Data
2002
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Recensioni di riviste specialistiche su «Antichi e nuovi dialoghi di sapienti e di eroi»
Recensione di Daniele Guastini della rivista Studia Patavina
Dopo Hegel e Nietzsche, è difficile oggi sottrarsi all’idea che tragedia e filosofia siano in larga parte contrapposte. Difficile eludere la tesi espressa da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito e poi nelle Lezioni di estetica, secondo la quale la filosofia «supera» la tragedia in ordine alla verità e al pensiero, revocandone l’inconciliabilità e le antinomie, che sono il prodotto, in definitiva, della veste sensibile, quella propria di tutta l’arte. O eludere la tesi, esattamente speculare, espressa da Nietzsche nei frammenti sulla Volontà di potenza, secondo la quale l’arte, in particolare la tragedia con il suo diretto portato “dionisiaco”, costituirebbe un «contromovimento» della filosofia, il solo in grado di rimettere il pensiero alla verità del mondo sensibile contro le reiterate finzioni costruite dalla metafisica, a partire dal platonico mondo delle idee. Non così nell’antichità greca classica, che, a dispetto della sentenza di Platone formulata nella Repubblica, relativa a un’«antica discordia» tra la poesia - in particolare quella tragica - e la filosofia, di fatto stabilì tra le due un rapporto di dialogo e di continuità estremamente complesso. È alla ricerca delle ragioni filosofiche e culturali di questo dialogo che muove il presente volume. Si tratta di una ricerca che, prescindendo - come si legge nell’Introduzione della Curatrice - dalla categoria tutta moderna del “tragico” quale forma di pensiero “altra”, contrapposta, appunto, alla filosofia, cerca di individuare il luogo nel quale filosofia e tragedia hanno intrattenuto effettivamente un dialogo e lo ritrova, con precisione e finezza d’analisi, nell’etica, in quelle «scenografie morali» - così le chiama Linda Napolitano Valditara nel suo saggio all’interno del volume - entro le quali la tragedia e la filosofia facevano da «specchio» (e, come tali, anche da mezzo di autoriconoscimento e riflessione) alla vita della polis. Da una parte, quindi, un ruolo «dialettico» nel senso più proprio che la lingua greca ha attribuito a questo termine, quello riferito alle procedure, anche linguistiche, del dibattito pubblico, sulle quali si sono modellate tanto la tragedia che la filosofia. Dall’altra, un ruolo «educativo» per la condotta pratica, volto a «fondare, orientare e guidare l’azione stessa».
Sulla questione etica si innesta uno dei problemi più spinosi per la valutazione complessiva del rapporto tra filosofia e tragedia nella Grecia classica: quello, già ricordato, della posizione platonica sulla poesia e sulla tragedia in particolare, e a cui il libro non intende affatto sottrarsi. Questo è il compito a cui - su una strada peraltro parallela a quella già intrapresa dalla Curatrice nel suo saggio Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone (Trieste 2001) - si sottopongono i saggi di Davide Susanetti e di Stefania Nonvel Pieri contenuti nel volume. Tali saggi, non fermandosi alla patina, spesso opaca, fatta calare dalla tradizione critica sul carattere antitragico e antipoetico della filosofia di Platone, di quest’ultima riportano alla superficie debiti e derivazioni sotterranee, ristabilendo una visione di Platone quale filosofo da un lato senz’altro intento a censurare la tragedia al fine di evitare le interferenze negative che l’importo patemico da essa posseduto poteva produrre in campo sia “psicologico” che politico, ma dall’altro ben consapevole di non poter rinunciare, proprio in vista del suo rivoluzionario progetto filosofico, etico e politico, alla forza insita nella mitopoiesi. Di qui la precisa costatazione, nel saggio di Susanetti, che neanche la filosofia di Platone - almeno in questo affine alla tragedia - abbia potuto fare a meno del dramma, mettendo in scena la morte di Socrate e offrendosi come un «teatro filosofico». Oppure la costatazione, altrettanto precisa nel saggio di Nonvel Pieri, della presenza nei Dialoghi di Platone di una mimesis considerata buona e di un mythos considerato vero - cosa le cui fondamentali conseguenze teoriche la gran parte della letteratura critica, ancora in tempi recenti, sembra non aver voluto tenere nel debito conto.
Con l’altra grande figura della filosofia classica greca, Aristotele, si misura invece il saggio di L. Napolitano Valditara. Compito solo apparentemente più semplice - in effetti Aristotele non ha alcuna difficoltà ad ammettere la funzione dialettica esercitata sulla filosofia e sull’etica dalla poesia tragica - e tuttavia particolarmente insidioso, se solo si voglia scendere nel dettaglio del dialogo effettivo stabilito dalla filosofia e dall’etica aristoteliche con la tragedia, ed abbandonare il piano delle generiche petizioni di principio. Questo è proprio ciò che fa l’A., stabilendo, con un’esattezza non sempre riscontrabile tra gli studiosi che si sono cimentati con questi temi, la sintonia tra la saggezza pratica invocata dalla tragedia attica - nel saggio si fa particolare riferimento alle due più celebri tragedie sofoclee: Antigone ed Edipo re - ossia quel phronein indicato da Sofocle come unica condizione per la felicità umana, e la phronesis, il sapere pratico delineato dall’etica di Aristotele come quella virtù dianoetica abile a determinare le condizioni particolari entro le quali è possibile portare l’azione a buon fine. Una sintonia in grado di illuminare, proprio grazie all’etica aristotelica, le antinomie dell’azione tragica, votata da una parte ad esaltare la dimensione destinale in cui occorre la sventura dell’eroe, ma dall’altra votata anche sempre a costatarne amaramente la motivazione tutta umana. Perché poi, si chiede giustamente l’A., se tutto dipendesse dal destino, se quest’ultimo fosse «causa anche sufficiente» oltreché «necessaria» della sventura tragica, la tragedia avrebbe dovuto fare così continuo riferimento alla mancanza di saggezza umana quale movente dell’errore alla base delle disgrazie messe in iscena? La risposta della tragedia è, secondo l’A., analoga a quella fornita dall’etica filosofica di Aristotele, che in questo senso fa da chiarificazione delle scenografie morali messe in piedi dalla tragedia, chiarendone ancor più le posizioni.
In effetti il tipo di errori commessi da Edipo, Creonte, Antigone e dagli altri eroi dell’universo tragico è ben comprensibile attraverso la questione aristotelica dell’hamartanein, spiegata meglio, a detta dell’A., nella nozione di hamartema discussa nell’Etica nicomachea piuttosto che in quella di hamartia discussa nella Poetica (entro il cui quadro di riferimento esclusivo resterebbe invece precluso proprio il carattere etico dell’errore e quindi dell’azione tragica). Il tema è complesso, ma viene efficacemente spiegato dalla Napolitano Valditara, che, richiamando l’elemento “colposo” dell’hamartema - quindi fuori sia dall’ordine del puramente accidentale che del premeditato -, ne coglie tuttavia il lato imputabile, volontario, e dunque etico, sottraendo così l’hamartema a quella zona franca per l’etica rappresentata, secondo Aristotele, dalle azioni involontarie compiute per forza o nella totale ignoranza delle conseguenze. La tragedia si spiega nell’ordine di quei fatti non «causati» dall’ignoranza, ma tuttavia «accompagnati» dall’ignoranza, di cui l’agente è perciò pienamente chiamato a rispondere (proprio come gli eroi tragici lo sono davanti agli dèi e agli uomini) in ragione delle sue mancanze, dovute (afferma Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea) all’effetto di un pathos «né naturale né umano», ovverossia a quell’eccesso o difetto di passione per cui ne va dell’atto etico stesso. Di qui il richiamo della tragedia attica e della filosofia aristotelica alla saggezza “phronetica” come rimedio tutto umano verso la «mancanza di cura», altrettanto umana, «nel conoscere le condizioni specifiche dell’azione». Peccato solo che l’A., come già si accennava, ritenga di stabilire questo rapporto tra hamartia e phronesis, e più in generale fra tragedia ed etica aristotelica, prescindendo dalla Poetica, e quindi da considerazioni - a cominciare da quelle intorno alla questione della causa dell’azione tragica nei capp. IX e X e da quella, fatidica, della katharsis delle passioni nel cap. VI del Trattato - che non avrebbero fatto altro che confermare, arricchendole di senso, alcune delle conclusioni di questo bel saggio.
Sui binari di questo produttivo rapporto tra filosofia e tragedia individuato dalla C. del libro, in grado di riportare pienamente alla luce il principio di “responsabilità limitata” dell’eroe tragico, tipico della concezione attica, si muove anche l’attenta e innovativa interpretazione offerta da Andrea Rodighiero della trama e delle giunture nascoste nelle Trachinie di Sofocle, opera spesso sottovalutata dagli studiosi, e invece qui restituita a una viva tensione tragica e alla valenza propriamente etica del rapporto tra verità e responsabilità. Ma si potrebbe dire che entro questo riorientamento del rapporto tra etica filosofica ed etica tragica è possibile rileggere perfino certe contrapposizioni moderne, come quella hegeliana cui si accennava all’inizio. Questo è ciò di cui si incaricano i due interessanti saggi finali dedicati a Hegel, opera di Kenneth R. Westphal e di Cinzia Ferrini, dai cui diversi punti di osservazione la tradizionale lettura della posizione hegeliana, spinta in direzione della superiorità della filosofia sulla tragedia, viene finemente problematizzata, facendo emergere debiti più interni contratti da Hegel con la “logica” tragica e, come tali, senz’altro meno riducibili alla chiave tradizionale della Aufhebung della tragedia da parte della filosofia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Sulla questione etica si innesta uno dei problemi più spinosi per la valutazione complessiva del rapporto tra filosofia e tragedia nella Grecia classica: quello, già ricordato, della posizione platonica sulla poesia e sulla tragedia in particolare, e a cui il libro non intende affatto sottrarsi. Questo è il compito a cui - su una strada peraltro parallela a quella già intrapresa dalla Curatrice nel suo saggio Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone (Trieste 2001) - si sottopongono i saggi di Davide Susanetti e di Stefania Nonvel Pieri contenuti nel volume. Tali saggi, non fermandosi alla patina, spesso opaca, fatta calare dalla tradizione critica sul carattere antitragico e antipoetico della filosofia di Platone, di quest’ultima riportano alla superficie debiti e derivazioni sotterranee, ristabilendo una visione di Platone quale filosofo da un lato senz’altro intento a censurare la tragedia al fine di evitare le interferenze negative che l’importo patemico da essa posseduto poteva produrre in campo sia “psicologico” che politico, ma dall’altro ben consapevole di non poter rinunciare, proprio in vista del suo rivoluzionario progetto filosofico, etico e politico, alla forza insita nella mitopoiesi. Di qui la precisa costatazione, nel saggio di Susanetti, che neanche la filosofia di Platone - almeno in questo affine alla tragedia - abbia potuto fare a meno del dramma, mettendo in scena la morte di Socrate e offrendosi come un «teatro filosofico». Oppure la costatazione, altrettanto precisa nel saggio di Nonvel Pieri, della presenza nei Dialoghi di Platone di una mimesis considerata buona e di un mythos considerato vero - cosa le cui fondamentali conseguenze teoriche la gran parte della letteratura critica, ancora in tempi recenti, sembra non aver voluto tenere nel debito conto.
Con l’altra grande figura della filosofia classica greca, Aristotele, si misura invece il saggio di L. Napolitano Valditara. Compito solo apparentemente più semplice - in effetti Aristotele non ha alcuna difficoltà ad ammettere la funzione dialettica esercitata sulla filosofia e sull’etica dalla poesia tragica - e tuttavia particolarmente insidioso, se solo si voglia scendere nel dettaglio del dialogo effettivo stabilito dalla filosofia e dall’etica aristoteliche con la tragedia, ed abbandonare il piano delle generiche petizioni di principio. Questo è proprio ciò che fa l’A., stabilendo, con un’esattezza non sempre riscontrabile tra gli studiosi che si sono cimentati con questi temi, la sintonia tra la saggezza pratica invocata dalla tragedia attica - nel saggio si fa particolare riferimento alle due più celebri tragedie sofoclee: Antigone ed Edipo re - ossia quel phronein indicato da Sofocle come unica condizione per la felicità umana, e la phronesis, il sapere pratico delineato dall’etica di Aristotele come quella virtù dianoetica abile a determinare le condizioni particolari entro le quali è possibile portare l’azione a buon fine. Una sintonia in grado di illuminare, proprio grazie all’etica aristotelica, le antinomie dell’azione tragica, votata da una parte ad esaltare la dimensione destinale in cui occorre la sventura dell’eroe, ma dall’altra votata anche sempre a costatarne amaramente la motivazione tutta umana. Perché poi, si chiede giustamente l’A., se tutto dipendesse dal destino, se quest’ultimo fosse «causa anche sufficiente» oltreché «necessaria» della sventura tragica, la tragedia avrebbe dovuto fare così continuo riferimento alla mancanza di saggezza umana quale movente dell’errore alla base delle disgrazie messe in iscena? La risposta della tragedia è, secondo l’A., analoga a quella fornita dall’etica filosofica di Aristotele, che in questo senso fa da chiarificazione delle scenografie morali messe in piedi dalla tragedia, chiarendone ancor più le posizioni.
In effetti il tipo di errori commessi da Edipo, Creonte, Antigone e dagli altri eroi dell’universo tragico è ben comprensibile attraverso la questione aristotelica dell’hamartanein, spiegata meglio, a detta dell’A., nella nozione di hamartema discussa nell’Etica nicomachea piuttosto che in quella di hamartia discussa nella Poetica (entro il cui quadro di riferimento esclusivo resterebbe invece precluso proprio il carattere etico dell’errore e quindi dell’azione tragica). Il tema è complesso, ma viene efficacemente spiegato dalla Napolitano Valditara, che, richiamando l’elemento “colposo” dell’hamartema - quindi fuori sia dall’ordine del puramente accidentale che del premeditato -, ne coglie tuttavia il lato imputabile, volontario, e dunque etico, sottraendo così l’hamartema a quella zona franca per l’etica rappresentata, secondo Aristotele, dalle azioni involontarie compiute per forza o nella totale ignoranza delle conseguenze. La tragedia si spiega nell’ordine di quei fatti non «causati» dall’ignoranza, ma tuttavia «accompagnati» dall’ignoranza, di cui l’agente è perciò pienamente chiamato a rispondere (proprio come gli eroi tragici lo sono davanti agli dèi e agli uomini) in ragione delle sue mancanze, dovute (afferma Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea) all’effetto di un pathos «né naturale né umano», ovverossia a quell’eccesso o difetto di passione per cui ne va dell’atto etico stesso. Di qui il richiamo della tragedia attica e della filosofia aristotelica alla saggezza “phronetica” come rimedio tutto umano verso la «mancanza di cura», altrettanto umana, «nel conoscere le condizioni specifiche dell’azione». Peccato solo che l’A., come già si accennava, ritenga di stabilire questo rapporto tra hamartia e phronesis, e più in generale fra tragedia ed etica aristotelica, prescindendo dalla Poetica, e quindi da considerazioni - a cominciare da quelle intorno alla questione della causa dell’azione tragica nei capp. IX e X e da quella, fatidica, della katharsis delle passioni nel cap. VI del Trattato - che non avrebbero fatto altro che confermare, arricchendole di senso, alcune delle conclusioni di questo bel saggio.
Sui binari di questo produttivo rapporto tra filosofia e tragedia individuato dalla C. del libro, in grado di riportare pienamente alla luce il principio di “responsabilità limitata” dell’eroe tragico, tipico della concezione attica, si muove anche l’attenta e innovativa interpretazione offerta da Andrea Rodighiero della trama e delle giunture nascoste nelle Trachinie di Sofocle, opera spesso sottovalutata dagli studiosi, e invece qui restituita a una viva tensione tragica e alla valenza propriamente etica del rapporto tra verità e responsabilità. Ma si potrebbe dire che entro questo riorientamento del rapporto tra etica filosofica ed etica tragica è possibile rileggere perfino certe contrapposizioni moderne, come quella hegeliana cui si accennava all’inizio. Questo è ciò di cui si incaricano i due interessanti saggi finali dedicati a Hegel, opera di Kenneth R. Westphal e di Cinzia Ferrini, dai cui diversi punti di osservazione la tradizionale lettura della posizione hegeliana, spinta in direzione della superiorità della filosofia sulla tragedia, viene finemente problematizzata, facendo emergere debiti più interni contratti da Hegel con la “logica” tragica e, come tali, senz’altro meno riducibili alla chiave tradizionale della Aufhebung della tragedia da parte della filosofia.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2005, nr. 1
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)