La morte del Figlio
-Il mistero del Crocifisso e il suo significato per la fondazione della morale nella riflessione teologica di Hans Urs von Balthasar
(Mistero e pensiero)EAN 9788882571504
Il salvatore del genere umano, secondo l’intuizione decisiva della Lettera agli Ebrei, «pur essendo Figlio imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). È in questa frase biblica che si può rinvenire il nucleo più fecondo della meditazione balthasariana che Augusto Chendi – docente di Teologia morale presso l’Istituto Camillianum – cerca di portare in piena luce. L’originalità della ricerca, che s’aggiunge ai numerosi studi sulla teologia di Hans Urs von Balthasar (1905- 1988), consiste nell’aver messo a fuoco il nesso fra il mistero del «Figlio» e l’evento della sua «morte» e aver cercato di cogliere in esso la chiave d’intelligenza ultima dell’agire dell’uomo. La «morte del Figlio» (si noti l’audacia di un’espressione che sfiora l’ossimoro) è indagata alla luce dell’insuperabile studio balthasariano sul Mysterium paschale (1969): l’obbedienza assoluta definisce la disposizione radicale del Figlio abbandonato dal/al Padre nella morte e la traduzione kenotica del suo essere rivolto al Padre (Venerdì santo); la passività inerte, l’espropriazione della libertà che assume ogni morte irredenta, è la densità del suo esser-morto (Sabato santo); il Padre accogliendo l’obbediente abbandono del Figlio, la sua stessa forma d’esistenza, lo genera e lo rivela come il Figlio (Domenica di Pasqua). La morte di Gesù è considerata dunque in rapporto all’orizzonte trinitario e più precisamente nello spazio aperto dall’autoespropriazione generante del Padre: qui, in questa «santa distanza» ogni alterità è da sempre compresa e abbracciata. E in questo spazio c’è posto per la creatura, per l’alterità della creazione e della libertà finita. Così la considerazione più appropriata dell’umano deve partire da questa profondità abissale del mistero per rinvenirvi la radice della sua possibilità e del suo esprimersi. È pertanto qui, nella densità trinitaria della morte pro nobis del Figlio, nell’autoespropriazione di Dio nella morte di Cristo, che si deve rinvenire il fondamento di un’ontologia cristico-filiale che definisce i tratti più profondi dell’umano. A questo punto, Chendi cerca di mettere in rapporto questa serie di dati con l’unico tentativo balthasariano che si muove esplicitamente nell’ambito etico-teologico, ossia le celebri Nove tesi sull’etica cristiana (1975). L’accostamento – senza dubbio audace – nasce dalla persuasione che l’appello conciliare a una fondazione cristologica della teologia morale sia rimasto, se non inascoltato, quanto meno ridotto a un accoglimento piuttosto estrinseco. È invece necessaria un’etica che – sono parole di Balthasar – «parta dalla pienezza della luce della rivelazione»; un’etica che muova dal Figlio di Dio il quale ha pienamente corrisposto alla volontà del Padre (nell’evento della sua «morte») e che ponendosi come norma concreta universale e personale (nel suo essere «il Figlio») consente all’uomo, a ogni uomo, di essere libero per il compimento della volontà paterna di Dio. In ultima analisi, nel suo lungo e documentato itinerario, Chendi ha «inteso evidenziare che l’agire filiale del cristiano è un aspetto intrinseco dell’evento pasquale della croce, e cioè, che la “morte del Figlio”, definita nella sua dimensione trinitaria, assurge effettivamente a misura normativa di ogni uomo e del cristiano in particolare» (49). L’autore si dice consapevole dei limiti dei risultati raggiunti (i limiti di un’analisi possono però essere anche la sua ricchezza), i quali necessitano d’essere integrati con altri approcci alla teologia balthasariana (cf. 724). Del resto lo stesso Balthasar non si è dedicato esplicitamente ad approfondire e a sviluppare compiutamente, soprattutto dal versante etico e antropologico, un nesso che appare senz’altro d’indubbia fecondità per la comprensione dell’agire. Merito non irrilevante dello studio di Chendi è di averlo intuito e di aver in tal modo tracciato un itinerario che attende nuove e coraggiose indagini.
Stefano Zamboni
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 12
(http://www.ilregno.it)
L’attuale contesto socio-culturale attesta in modo evidente che l’uomo dispone di tante cose, forse di “tutto”, ma manca di ciò che è più importante: un cuore, una luce, un centro unificatore che dia senso e significato ad ogni sua azione ed, insieme, dia a tutte le sue azioni uno scopo che evidentemente trascenda la sua stessa esistenza e proietti il suo essere ed il suo operare verso ciò che lo realizza. Questa luce, questo cuore, questo centro sono il perno a partire dal quale l’antropologia si compie o si dissolve. Ma questa luce, questo cuore, questo centro unificatore a voler essere onesti intellettualmente e osservatori disincantati della realtà, non è nell’uomo. La storia di ogni giorno lo manifesta. La rivelazione biblica afferma a chiare lettere che questa luce, questo cuore, questo centro sono in Dio che, dell’uomo, è il Creatore e il Redentore. Ma lo conferma anche l’esperienza dell’uomo, il quale ha percezione di una “traccia”, una predisposizione che lo anima nel più profondo del suo essere, lo spinge, lo attira verso una meta intravista ma non compresa e non afferrata fino a quando non s’incontra con Colui che di quella traccia è l’Autore. Il libro del padre Chendi va al cuore di questo mistero: la condizione ontologica dell’humanum in relazione a questo centro unificatore. Questo centro unificatore prende subito nell’analisi delle pagine di quest’opera le sembianze del volto sofferente di Cristo, appunto, Creatore e Redentore dell’uomo, nel cui mistero di morte e risurrezione si focalizza l’attenzione del teologo moralista, come via risolutiva per condurre l’antropologia a raggiungere e a compiere le aspirazioni verso cui è misteriosamente spinta da questa sua creaturale predisposizione. È la vicenda personale di Cristo che rivela la predisposizione umana alla filiazione: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,4-5). Il cuore di questo corposo volume si trova proprio in questo itinerario che particolarmente si sofferma sull’umanità di Cristo Gesù per come si manifesta sulla croce. Gli eventi del Triduum Paschale diventano un punto prospettico significativo per scorgere i legami forti tra Cristo e il mistero di ogni uomo. La via percorsa concretamente per l’esplorazione di questo mistero è lo studio audace, meticoloso, paziente ed anche inusuale, della teologia di Hans Urs von Balthasar come luogo privilegiato di verifica dei legami ontologici che la teologia, sotto la spinta del Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et spes, 22), ha voluto e saputo ricostruire tra Cristo ed ogni uomo. I primi quattro capitoli dell’opera sono destinati a far emergere con una certa sistematicità i risultati dell’analisi dei testi del teologo svizzero, in particolare Mysterium Paschale, del 1968, in vista poi del traguardo che l’Autore minuziosamente farà perseguire al lettore nel quinto capitolo, destinato allo specifico del libro: la fondazione di una morale di tipo filiale. Una corposa conclusione permette all’Autore di focalizzare alcuni punti ricorrenti e nevralgici della sua trattazione. Essendo impossibile ripercorrere e riprodurre le dettagliate analisi dei testi balthasariani, ci limitiamo a dare risalto ad alcuni punti che riteniamo di maggior rilievo nella trattazione del Chendi, lasciando alla paziente lettura del lettore, come viene ricordato nella presentazione, la ricompensa per la fatica di un esplorazione più attenta di queste “pagine dense e documentate”. Di particolare rilievo a giudizio dell’Autore è la comprensione che il teologo di Basilea dona della “morte del Figlio” come vertice rivelativo dell’identità filiale di Gesù, ma anche come vertice della riflessione teologica e della stessa antropologia. Più esattamente scrive Chendi: «siamo in ogni caso convinti che il mistero pasquale e, in particolare, la categoria ermeneutica della ‘morte del Figlio’ costituisca il centro al quale convergono e dal quale si dispiegano le linee portanti della teologia balthasariana » (p. 38). Chiarire questo punto di snodo serve per operare quel riavvicinamento o quel riagganciamento dell’uomo a Dio per mezzo di Cristo, in un tempo in cui l’uomo sta vivendo l’emancipazione sistematica dal suo Fondamento ed ha reso la morale quasi come un impressionante corpo estraneo per l’antropologia, riducendola alla mortificante apposizione di divieti che quasi, anzi, convintamente, impedisce all’uomo di assecondare e realizzare la sua “natura”. Per queste ragioni, tra i tratti caratterizzanti di quest’opera, quello che ci preme mettere in luce in questa sede riguarda le implicazioni derivanti per la morale dal legame forte, inscindibile, ontologico tra cristologia e antropologia. Meglio, il carattere fondativo che il mistero pasquale di cui il Figlio fu protagonista ha nei riguardi della stessa morale. Infatti, in questo acme di obbedienza filiale, di donazione oblativa, di kenosi si «realizza inclusivamente e simultaneamente la perfetta solidarietà di Gesù con l’uomo peccatore mediante l’admirabile commercium, ? e l’offerta di quella che si deve ritenere ? l’unica ed effettiva possibilità di salvezza», (p. 42). Oggi la teologia morale, nella coscienza riflessa di questo Autore, viene chiamata a ridonare all’uomo prima che la sistematizzazione di una riflessione sull’agire umano, la consapevolezza della dignità filiale di questo agire, la manifestazione della responsabilità che scaturisce da questo innalzamento ontologico dell’humanum, nel Figlio, ma anche la straordinaria potenza di mezzi soprannaturali di cui l’humanum viene a rivestirsi per compiersi grazie ad una morale dai tratti cristici, dunque, filiali, obbedienziali e pro-esistenti. L’obbedienza del Figlio di Dio incarnato, eterna e storica, che egli vive in quanto Dio e in quanto uomo, caratterizza in modo peculiare la sua vita personale ed è fondamentale da considerare in chiave morale, e prima ancora in chiave ontologica, perché dischiude alla nostra comprensione l’orizzonte del legame intimo che c’è tra essere personale ? ontologia ? ed azione morale ? come epifania di questo essere (cf. p. 76ss). Per accedere ad uno stile di vita filiale, dunque proesistente fino alla consumazione totale di sé, è necessario che si possegga l’essere stesso del Figlio, il quale obbedendo non fa altro che mantenere fede alla sua identità più profonda di Figlio che ama il Padre, che si riceve dal Padre, ma anche al Padre si ridona nell’unico Spirito. Per queste ragioni, espresse qui in forma evidentemente e necessariamente semplificata, la vicenda del Figlio ed in particolare della sua morte è rivelativa del mistero trinitario, approfondito in modo particolare dal quarto e più corposo capitolo del libro (cf. pp. 311-557). Del resto uno dei testi neotestamentari che acquista grande rilievo nel testo è 2Cor 5,21, in cui Paolo afferma che “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”. A significare che nel mistero della morte sacrificale di Cristo, Figlio amato del Padre, vera vittima vicaria, si realizza la vera ed autentica giustificazione dell’uomo. Dove per giustificazione non bisogna pensare ad un atto dalla pura portata forense: assoluzione o remissione di una colpa. L’atto della morte espiatoria del Figlio fatto uomo, è vero atto rigenerativo, anzi, creativo nell’uomo della giustizia di Dio, partecipativo della natura divina, affinché l’uomo sia sulla terra quello che fu Cristo: epifania della giustizia, della carità divina che altro non è se non la sua natura. La morale allora intesa alla luce di queste premesse non può che essere epifania di Dio, come l’agire filiale di Cristo lo fu. Se il Figlio muore in croce per far sì che l’uomo in lui diventi giustizia di Dio, chi vede l’uomo filializzato da Cristo può sapere chi è Dio, perché vedrà in lui i tratti autentici della natura divina. In sintesi estrema, triduum mortis, come sintesi del mistero pasquale di Cristo, consistenza filiale dell’humanum, compiuta e ricevuta in dono proprio nel momento culminante del sacrificio del Figlio, agire morale del credente come esito di questo innalzamento inaudito che si compie per mezzo dell’abbassamento di Cristo, sono l’asse portante di questo studio, che altro non vuole se non riportare alla luce la fondazione cristologica della morale cristiana. Oggi è questo il grande compito che la teologia nel suo insieme e la teologia morale in specie hanno: ridare alla Chiesa e al cristiano la consapevolezza della sua essenza, di quella nuova realtà che essa è divenuta grazie al sangue di Cristo. A questo testo il merito di aver dato voce ad un indirizzo che sempre più sta prendendo piede nella teologia morale e che sarà foriero di immensi benefici.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2009
(http://www.pul.it)