«Dialogo. Meglio della guerra! O di ogni astiosa controversia.
Dialogo: riconoscimento dell’altro, ascolto, tolleranza, fratellanza.
O forse: illusione, troppo comoda.
Quando si tratta di cose fondamentali, come evitare i contrasti, i rifiuti, le esclusioni?
Una società è tollerante solo nei confronti di ciò che essa giudica insignificante o di secondaria importanza.
Lo spirito di dialogo è forse soltanto segno di debolezza? Nei cristiani, sembra talora che il dialogo abbia rimpiazzato la missione. Non sarà forse che la loro fede si è affievolita?
Rifiutare il dialogo è procedere verso questo abominio: l’assassinio della parola. Ma cimentarsi significa affrontare una prova decisiva. Nel profondo di noi stessi».
Mi spiego? È essenziale. Quindi insisterò. Se io credo, ad esempio, che non possa esserci salvezza per l’uomo se non nell’islam, o nella fede in Cristo, o nella saggezza buddhista, l’altro da quello che per me è cammino necessario di umanità, come potrei realmente accettarlo? E per negarlo esistono due modi: vomitare o divorare! Vomitare è voler sterminare colui che, per ciò che è, sembra distruggere l’umanità; da qui le guerre di religione che, quando le religioni si sono piuttosto affievolite, appaiono così scandalose e incomprensibili; è che si è persa la loro posta in gioco. Divorare è assorbire, è fare dell’altro una variante, un possibile di ciò che noi stessi crediamo, è, per esempio, fare del Dio unico una figura del pantheon. E, beninteso, con quell’invulnerabile consapevolezza della superiorità di colui che sa e che vede l’insieme, rispetto a chi ha solo una visione parziale e di parte. (L’errore, diceva Spinoza, è una verità parziale che si crede verità totale.)
E questo atteggiamento non è, in definitiva, più “tenero” del precedente. Può darsi perfino che, al fondo, sia anche più intransigente. Il conflitto lascia esistere l’altro in quanto tale; il fatto che lo si voglia eliminare prova che egli è. L’assorbimento invece dissolve: tu non esisti più, tu non sei altro in verità che ciò che la giusta conoscenza sa che tu sei, nella tua illusione.
La brutalità delle guerre di religione appare certo più orribile rispetto alla pacata e inalterabile benevolenza del saggio. E a buon titolo! Eppure, quando la posta in gioco è quella di cui stiamo parlando, questa benevolenza può essere, dalla parte di chi ne riceve l’effetto, un’estrema violenza. Parimenti, i sistemi con una maggiore efficacia dottrinaria (perché più intelligenti) si preoccupano sempre della benevolenza: educano, aiutano, si prefiggono il bene; anche l’inquisitore vuole salvare i suoi perseguitati.
È che, vedete, qui è in causa la Verità. Non per distrazione uso la maiuscola. Si può ironizzare, certo, sulla maiuscola! Ma, ancora una volta, bisogna considerare la posta in gioco: quello che io chiamo la necessità umana, ciò che trattiene l’uomo al di sopra dell’abisso; qui, nessuna concessione, nessun consenso duttile e “adattabile”, nessuna tolleranza. Emerge questa verità (temibile, anche se con la minuscola): chi dice tolleranza dice insignificanza, intendo per ciò che è più essenziale. Si tollera ciò che non rischia di far precipitare nell’orrore, nell’invivibile, nell’inumano. Ma non appena si prospetta la grande minaccia – intolleranza assoluta. (Chi “tollera” Auschwitz?)
Qualcuno potrà forse dire che non siamo più a quei livelli? Che le guerre di religione appartengono a un’epoca passata? Che la tolleranza va per la maggiore? Ma se di essa tanto si parla, forse è perché manca. E a leggere i giornali e a sentire il fragore delle esplosioni, sembrerebbe che le guerre di religione siano di nuovo attuali. (Anche se vengono denunciati i loro retroterra, politici o quant’altro: questo valeva anche per quelle precedenti, ma non risolve la questione.) Quanto alle guerre ideologiche, la cui violenza nel XX secolo ha oltrepassato l’immaginabile, il sangue versato non si è ancora seccato.
Ciò che caratterizza il nostro mondo non è la scomparsa del problema della Verità, come alcuni ingenuamente credono; è il suo strano spostamento.