La religione di questo mondo in Raffaele Pettazzoni
(Biblioteca di cultura)EAN 9788878704497
La descrizione compiuta da Robert N. Bellah della religione civile americana è ormai un classico della scienza delle religioni. Essa, spiega lo studioso, è una dimensione che riguarda l’intera vita americana, compreso il piano politico; è basata su alcuni elementi condivisi dell’orientamento religioso – l’America come Terra Promessa; gli Americani come Popolo di Dio; la centralità di ordine, diritto e legge – espressi mediante determinate convinzioni, simboli e rituali; non coincide affatto con una qualche forma di cristianesimo e non è in conflitto con alcuna religione ‘tradizionale’; è una sorta di cerniera tra la tradizione religiosa e filosofica della cultura occidentale e il ‘buon senso’ religioso dell’Americano medio (La religione civile in America, tr. it. con originale a fronte, introduzione di G. Filoramo, Morcelliana, Brescia 2007; l’originale è del 1967). Già Alexis de Tocqueville, nella sua De la Démocratie en Amérique, sosteneva che la libertà religiosa di cui godono fin dapprincipio gli Americani è il presupposto della libertà tout court e della democrazia, e che questa libertà – nonostante, anzi grazie a un regime di stretta separazione tra Stato e Chiesa – giunge in qualche modo spontaneamente a dare vita a una sorta di culto ‘profano’ verso i grandi principi che stanno a fondamento di una nazione: il diritto, la giustizia, l’umanità, la ragione (G. Candeloro (cur.), La democrazia in America, Rizzoli, Milano 20045, pp. 391).
È realisticamente difficile pensare che uno studioso come Raffaele Pettazzoni, patriarca della storia delle religioni in Italia (di cui l’anno passato è ricorso il cinquantenario della morte), in gioventù massone, fascista non per opportunismo ma neppure per caso (cf. M. Stausberg, Raffaele Pettazzoni and the history of religions in fascist Italy (1928-1938), in H. Junginger (cur.), The Study of Religion under the Impact of Fascism, Brill, Leiden 2008, pp. 365-395), come molti, prima (assai vagamente) e poi (decisamente) socialista, anticlericale ma certo non antireligioso, potesse guardare con simpatia alla religione civile degli Americani, a questa utopia troppo selvaggia per non tramutarsi a volte, se appositamente fomentata, in furia escatologica. La civil religion è un culto monoteistico, anzi enoteistico, semiticamente ancorato alla supremazia della propria divinità, dispensatrice di terra e salvezza in cambio di fedeltà. Certo: se non è cristiana, non è essenzialmente nemmeno ebraica; ma, si direbbe, è da lì che viene: da quella che è diventata la «cultura occidentale», qualsiasi cosa questa espressione significhi, fatta salva la specificazione che essa lì è priva, almeno in parte, degli esiti illuministi toccati in sorte all’Europa.
Pettazzoni, da parte sua, come ci spiega Valerio Severino in questo libro (più che encomiabile, soprattutto per le lunghe e approfondite ricerche che presuppone, anche se avrebbe potuto essere un poco più compatto e meno timoroso di risultare troppo assertivo), coltiva una «religione di questo mondo», una «religione dell’imprigionamento al profano che trattenga gli uomini inesorabilmente nel presente», per la quale il profano non si identifica con la fine della religione, ma, infinito, si fa esso stesso sacro, mistero. Il sacro di Pettazzoni, in contrasto con la concezione eliadiana, non è terrore della storia e fuga negli archetipi atemporali; non è «occultamento dell’uomo», bensì
«[…] rappresentazione di una visione impetuosa e totale in cui tutto si vede e si vedono tutti gli uomini, ovunque e sempre, come uno sguardo esterno e sovrastante, retto dall’idea religiosa che non vi sia rifugio, né vi siano vie di scampo, così come da sotto il cielo l’uomo crede che non può nascondersi.» (p. 20)
La pettazzoniana religione di questo mondo (o «religione dello Stato») non è di radice enoteistica, ma politeistica: è una «fede laica» che, come spiega Enrico Montanari nella prefazione al volume, risale al mondo classico e si richiama a un «paganesimo» – come è ovvio – di carattere esclusivamente «valoriale», a un politeismo morfologico, strutturalmente precedente alla «rivoluzione» monoteistica (è una delle tesi caratteristiche della storia delle religioni pettazzoniana) e dunque, in qualche modo, originario (p. 13).
Eppure, questa «religione dello Stato», chissà, avrebbe potuto avere in Italia una funzione simile a quella della civil religion americana: certo, politeistica, naturalistica, pluralistica per principio, per così dire, anziché monolatrica per contratto e unificante per reazione; capace di ‘rubare’ al cattolicesimo dominante il suo carattere culturale e identitario (consentendogli di riacquisire il quid spirituale di cui pare cronicamente carente?) e di rivendicare per sé il grande afflato liturgico di cui si impossessa la grande chiesa comunista dopo la Liberazione; garante della libertà religiosa anziché garantita da essa, la religione civile pettazzoniana avrebbe tuttavia avuto davanti a sé l’enorme scoglio che – per fare un’analogia – deve superare una qualsiasi riforma federalista di uno Stato centralista, cioè innescare un processo partendo dalla fine, andando a ritroso fino a ritrovare, sperabilmente, l’inizio. Per non parlare del particolarissimo tipo di ‘centralismo’ in questione.
«Lo stato laico è un assurdo» (p. 150, nota 64): è assurdo, spiega Pettazzoni in un’annotazione del 1952, che l’entità statale affermi di essere essenzialmente areligiosa mentre, in realtà, «dispone della vita di tanti» (ibid.). È assurdo che il «bene supremo di questo mondo fondato sul sacrificio dell’uomo», come lo definisce Severino interpretando il Persicetano (p. 20), cioè lo Stato, si ritiri nell’ambito profano desacralizzando il mondo. Uno Stato profanizzato, desacralizzato, insomma, è un atto di resa a tutti coloro che nella vita, nell’esistenza terrena, nel mondo vedono soltanto il teatro di un’evasione verso un’altra vita, un’esistenza non più terrena, un altro mondo.
Da dove parte Pettazzoni per arrivare a questa religiosità socialisteggiante, che si era illusoriamente convinto (almeno secondo Severino: pp. 157-158, nota 76) di aver ritrovato nell’ideologia fascista, quantomeno in nuce, e della quale vuole poi vedere un riflesso nel socialcomunismo degli anni ’50 (cf. E. Montanari, Categorie e forme nella storia delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, p. 24)? Pettazzoni individua presto, per usare le sue stesse parole, una «linea tracciata attraverso l’umanità» tra il dentro e il fuori (p. 164), quella che separa, nella storia delle religioni, due grandi tipologie, la «religione della natura» e la «religione dell’uomo»; si tratta di una «categoria interpretativa», come spiega Montanari, irriducibile a «intenti meramente classificatori», ma formantesi nell’«analisi concreta» come istanza metodologica ed epistemologica (ibid., p. 15). Se la prima «sorge dal mistero del mondo esterno» e percepisce il divino come qualcosa di esterno all’uomo, e dunque coglie l’«abisso invalicabile tra uomo e dio» (p. 106), la seconda è contrassegnata da una «religiosità interiore» per la quale il divino non è nel mondo, ma nell’uomo stesso, dove la distanza tra Dio e uomo cede il posto all’«aspirazione dell’uomo ad avvicinarsi a dio intimamente», in uno stato comunionale, in un processo di assimilazione, di fagocitazione del divino (p. 107).
La religione della natura guarda al mistero, alla totale alterità del mondo esterno; il problema qui non è, come spiega Severino alludendo a de Martino, la presenza dell’uomo nel mondo (e la sua crisi, e l’eventuale riscatto), ma la presenza del mondo attorno all’uomo – una presenza che non è riparo, ma «il punto in cui l’uomo immagina se stesso scoperto» (p. 118). «Il mistero non è ignoranza, ma è onniscienza possibile in questo mondo, ma nella forma di un dio» (ibid.). E ancora: «Il limite del mistero combacia con il limite dell’uomo, costituendo una specie di cintura che lo tiene ‘avvolto’, imprigionato alla sua condizione» (p. 121). La «religione dell’uomo» (ma questa denominazione, nell’ultimo Pettazzoni, cambierà d’uso) è invece quella dei Misteri, della mistica e del misticismo, e infine il cristianesimo in quanto «esito moderno e originale» delle religioni misteriche (pp. 167, 168); e anche il buddhismo. È l’«immanenza», l’«immissione» del divino in seno alla società – lo «sgretolamento della coesione sociale, dell’unità tra gli uomini» (p. 163). È la religione dell’uomo ripiegato su se stesso, che vive Dio solo «nell’intimo della coscienza» (p. 162).
La religione di questo mondo di cui Pettazzoni si fa fautore con intento, oltre che scientifico, «educativo», cioè di promozione di «cultura religiosa», come avverte Montanari nella prefazione (p. 12), pare dunque chiaramente corrispondere alla «religione della natura» e contrapporsi alla «religione dell’uomo». In realtà, richiamandosi, nel 1955, in una sorta di recensione, a La Condition humaine di André Malraux, il Persicetano accenna a una «terza via», un’alternativa tutta moderna sia alla via religiosa del dominio del mondo (in cui riconosciamo la religione della natura) che a quella, mistica, del dominio del «senso del divino», cioè la religione dell’uomo (pp. 110-111). «La nuova alternativa», spiega Severino, «si trova in una forma di civiltà moderna che, per dominare la natura, rifiuta gli dèi a cui toglie la preghiera per rivolgerla all’uomo» (p. 111). E la cifra di tutto diventa il «lavoro» (p. 109).
Siamo di fronte a un rovesciamento totale della teoria dell’evasione religiosa dalla storia, che diviene particolarmente evidente nelle ultime riflessioni pettazzoniane (p. 148). Eliade è un interlocutore imprescindibile, ma è, come le ricerche di Severino, esposte qui e altrove, confermano e come ricorda il suo maestro nella prefazione (p. 10), un’«occasione di confronto» più che «una minaccia da scongiurare». E soprattutto non vale l’equazione secondo cui chi si pone dall’altra parte rispetto alla corrente fenomenologico-religiosa, cioè dalla parte dello storicismo, goda automaticamente di una teoresi omogenea e interscambiabile. Severino non fa sconti ai tentativi, spesso riusciti, di rendere il Patriarca della storia delle religioni italiana il capofila di uno «storicismo ideologicamente organizzato», irrigidendone la postura su «pieghe marxiste» di imbarazzante irriflessione: la «vulgata interpretativa del Pettazzoni cosiddetto ‘aperto a sinistra’» (p. 90). Ma le prospettive a cui lavorano Vittorio Lanternari ed Ernesto de Martino (cf. gli excursus su religione e lavoro, pp. 56-67, 67-80) e soprattutto Angelo Brelich (successore del Persicetano sulla cattedra romana; cf. la distanza tra la sua «religione di controllo» e la «religione dell’incalcolabilità» di Pettazzoni, pp. 126-127) non riescono né a persuadere il maestro né a coprirne del tutto la voce.
L’apice è raggiunto dall’operazione Ultimi appunti, escogitata da Brelich e culminata nella pubblicazione di un’antologia di riflessioni e schizzi di Pettazzoni risalenti agli ultimi mesi di vita (SMSR 31, 1960, pp. 23-55). L’ansia di vedere il maestro prepararsi a «procedere quanto prima ad una Auseinandersetzung radicale con le correnti antistoriche» fa trascurare a Brelich questioni assai rilevanti delle ultime annotazioni, anche perché molti appunti «attinenti» a quelli pubblicati vengono ritrovati da Mario Gandini – autore dell’assai meritorio riordinamento delle carte pettazzoniane e della monumentale biografia del Persicetano in 28 volumi – solo dieci anni dopo (p. 26). Si arriva addirittura alla contraffazione: l’appunto forse più illustrativo, datato 8 settembre 1959 (esattamente tre mesi prima della morte), viene depurato di una frase che evidentemente mal si adatta all’idea che i diversi storici delle religioni italiani si sono fatti del Patriarca (cf. la descrizione del ‘giallo’, pp. 130-141); cosa che fa dire a Severino che di fatto «Pettazzoni non è stato solo riletto, ma riscritto» (p. 141).
Ecco l’appunto (in corsivo la frase espunta):
«LA RELIGIONE DELL’UOMO
La religione di questo mondo – non dell’evasione da questo
mondo
non il terrore della storia, il pessimismo, il disprezzo della
vita, l’evasione dal mondo, l’aspirazione a un altro
mondo.
bensì la religione come serena consapevolezza e accettazione
della condizione umana, nella speranza di costruire un
migliore avvenire terreno, nella consapevolezza del mi-
stero e nella suggestione stessa del mistero
la religione come fattore positivo della vita
L’uomo costruttore della sua religione! – allo stesso modo
come è l’uomo il costruttore delle arti, della scienza,
della filosofia.» (p. 132)
(Nonostante la sua solenne Einfältigkeit e il suo lirismo antiermetico, l’appunto può risultare disturbante per chi o non crede che una religione del genere possa strutturalmente darsi senza scivolare nell’utopico e nel totalitario, o è fermamente convinto che la religione di questo mondo non possa non identificarsi, in ultima analisi, con la fede cristiana, solo guardata da una prospettiva inusuale.)
La religione di questo mondo è, come scrive Severino, una religione che non ha «nulla da rivelarci» e «nulla da nasconderci», che non prevede «luoghi in cui rifugiarsi» e ci tiene «tutti uniti, qui, senza tregua e senza scampo»; una religione che «non cerca la salvezza dell’uomo, ma accetta la sua morte» (pp. 155-156). Una religione «senza escatologie», «senza paradisi», «senza segreti» (p. 147), senza redenzione e senza mistica, senza trascendenza, senza miti, riti, simboli… Una religione «dell’accettazione e del sacrificio di ciascun uomo» (p. 147).
Eppure, non è una religione priva di mistero, come pretendevano che fosse coloro che hanno continuato a declamare questa riflessione in poesia privandola di un elemento primario. «Mistero» è un termine che Pettazzoni preferisce a «sacro» (cf. p. 115), per anticonformismo ma non solo: se, come scrive il Persicetano in uno degli ultimi appunti, «è sempre il reale la base del sacro», e non viceversa (p. 36, dove il sacro è quello di Eliade), in ultima analisi non c’è opposizione tra il (vero) sacro e il profano: il sacro (il mistero) è il profano; è – per usare ancora l’immagine di Severino – la «cintura» che tiene legato l’uomo alla propria umanità. Un uomo che invece di pregare lavora, anzi, prega lavorando, visto che il lavoro, come il cielo e come la morte, è un limite che non è possibile oltrepassare, ma proprio per questo è fonte di salvezza (pp. 103, 109, 119).
A fronte di un cristianesimo che, pur orientato all’aldilà, si afferma come religione di/dello Stato, cancellando d’imperio quella legittima e al contempo confermando la necessità che una religione dello Stato si dia (cf. pp. 99, 151; Montanari, Categorie e forme…, p. 18), Pettazzoni propone una versione ‘moderna’ della religione della natura, una religione di questo mondo che al termine della vita esita persino a chiamare «religione dello Stato» (p. 171), a cui arriva anzi a dare il nome di «religione dell’uomo» (come mostra il titolo del frammento citato sopra), quello, effettivamente, dell’antagonista. Secondo Pettazzoni – è la considerazione finale di Severino – l’uomo, «per stare e restare tra gli uomini» deve «guardare fuori di sé», non dentro di sé, altrimenti «si confonde e si perde» (p. 172).
E pazienza se guardando fuori di sé non trova luoghi di rifugio, non gli è concessa alcuna salvezza e alcun paradiso, e si scopre addirittura capace di accettare senza batter ciglio il sacrificio e la morte: «Tutti uniti, qui, senza tregua e senza scampo». Effettivamente, vista in quest’ottica la religione di questo mondo non pare particolarmente invitante. Ma una civil religion è come l’esperanto: è una religione ausiliaria. Se gli Americani la usano per dare forza e confermare le diverse denominazioni che praticano, canalizzandone la potenza a favore della nazione e della sua identità, la religione di questo mondo potrebbe/avrebbe potuto immagazzinare e riutilizzare l’energia prodottasi nel cortocircuito tutto interno al cattolicesimo (una religione dell’uomo costretta a farsi religione dello Stato). Pettazzoni lo sa, e infatti mira instancabilmente a estendere il più possibile il concetto di religione, con lo sguardo puntato in ultima analisi a un «nuovo integrale umanesimo» (Montanari, Categorie e forme…, pp. 24, 30).
Il punto è però un altro: come ricorda efficacemente Émile Poulat, il cattolicesimo è un monde, «à tous les sens du mot et même à quelques autres» (L’Eglise, c’est un monde. L’Ecclésiosphère, Cerf, Paris 1986, 9). Pettazzoni ha senz’altro ragione quando dice che l’Italia religiosa ha inizio prima del cristianesimo (p. 164, nota 96); ma l’extra Ecclesiam nulla salus che sperava di abbattere (anzi, scalfire) con il suo politeismo valoriale si scontra, soccombendo, con il monde, con l’universo conchiuso e totalizzante offerto dalla Chiesa cattolica che rifonda, riplasma, ricrea e ‘centralizza’, dove può, consentendo al massimo – dove non può, cioè dove arriva dopo – un esperanto enoteistico. Piacesse o meno, la religione di questo mondo c’era già: bastava (seguire l’invito a) guardarla dal verso giusto. A che pro un esperanto dove tutti parlano la stessa lingua?
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2010, nr. 2
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)