Ethica
-Quaestiones super ethicam
EAN 9788876424212
Campanella, sempre intento nel corso della sua vita a elaborare una concezione filosofica in grado di soddisfare quelle che egli riteneva essere le pressanti esigenze del suo tempo – il tardo rinascimento –, non poteva non mettere mano anche a una visuale del comportamento morale, che inserì nella Filosofia della realtà (Philosophia realis), la sorella gemella della Filosofia del pensiero (Philosophia rationalis).
La pose subito dopo la Fisica della natura (la cosiddetta Fisiologia), ma prima della Politica e dell’Economia. Il primo abbozzo di tale trattato fece la sua comparsa nell’ultimo libro dell’Epilogo magno, quindi in uno scritto in volgare. Si tratta di un’opera che risale al 1598, quando il filosofo di Stilo stava per tornare nella sua Calabria e non era incappato ancora, quindi, nelle grinfie della polizia vicereale quale principale esponente di quella congiura che porta il suo nome. A parte, però, la freschezza con la quale espresse in quel momento le sue idee in materia e la loro forte dipendenza dal pensiero di Bernardino Telesio, egli non ebbe agio, in tale fase della sua esistenza, di sviluppare a dovere la propria concezione su questa particolare branca del sapere.
Lo farà nell’Ethica, un’opera autonoma che è da ascrivere, grosso modo, al secondo decennio del Seicento e sarà fatta stampare insieme agli altri tre trattati della Filosofia della realtà in Germania, propriamente a Francoforte, nel 1623 a cura del suo ammiratore Tobia Adami con il titolo Realis philosophiae epilogisticae partes quatuor hoc est De rerum natura, Hominum moribus, Politica (cui Civitas Solis iuncta est) et Oeconomica. Anche in questo caso, lo scritto manterrà l’ispirazione telesiana di partenza, sia pure con delle attenuazioni. Tale edizione sarà ritoccata da Campanella in un manoscritto che la critica assegna a un periodo successivo alla pubblicazione in terra tedesca ma anteriore alla successiva edizione fattane a Parigi nel 1637, questa volta sotto il diretto controllo dell’autore, che, oltre a far apparire per la prima volta il titolo Ethica nel frontespizio del libro, vi aggiunge tre Quaestiones super ethicam riguardanti il sommo bene, il problema della libertà e il complesso delle virtù.
La trattazione e le questioni aggiunte in quest’ultima edizione, a parte alcuni problemi di fondo che fanno da introduzione al resto (quale quello della libertà, senza della quale – sottolinea – non si ha moralità, e quello della vera felicità o meglio di ciò in cui questa viene fatta consistere), possono essere ritenute a pieno titolo un vero e proprio trattato sulle virtù e i vizi opposti, un trattato, però, che non si perde nelle astrazioni scolastiche invalse fin allora presso non pochi autori e risulta attraversato da un capo all’altro da una fortissima esigenza di concretezza. Di qui la loro originalità. Basta leggere ciò che Campanella scrive qua e là su certe virtù e su certi vizi, sia le une che gli altri individuati spesso talora da lui per la prima volta, e far caso alla vivacità con la quale li dipinge. La curatrice, Germana Ernst, offre molti esempi a riguardo nella sua lucida Introduzione iniziale.
La rassegna del filosofo calabrese sulle virtù e i vizi sorprende talora il lettore non tanto per il suo rifiuto di Aristotele quanto per le caratteristiche che assegna ad alcuni degli atteggiamenti corrispondenti. Lo Stagirita ha torto, per lui, quando chiama le virtù e i vizi habitus acquisiti. Questo termine è, per Campanella, troppo esterno rispetto all’essenza delle due serie di comportamento e può solo indicare la facilità con la quale sia le virtù che i vizi ispirano il cammino nel corso di una vita.
Lo stesso si dica della virtù vista come giusto mezzo, ugualmente rigettata. La virtù va concepita, invece, secondo la sua visuale, come la regola e la misura delle passioni e delle relative operazioni. A sua volta, la «regola delle virtù dipende dalla conservazione» di sé, nei figli e negli altri (cf. p. XV). Circa il suo modo d’intendere alcune virtù, il campionario è quanto mai ricco. Basta fare alcuni esempi. L’humilitas è la calamita di tutte le altre virtù e si distingue dal fatto che, chi la possiede, è in uno stato di continua ricerca; la rogatio è propria di chi sa chiedere al momento giusto e alle persone giuste; l’hilaritas distingue quanti contagiano gli altri con il loro misurato ottimismo e invitano a sperare in un domani migliore; la spes è «il cammino della mente in uno spirito nobile verso un bene difficile […], un sogno a occhi aperti». Sono virtù anche la strenuitas (la prontezza nell’affrontare i casi della vita), la cunctatio (il saper temporeggiare di fronte a certe vicende), la protestatio (il saper riconoscere la bontà e il valore delle cose e degli uomini con i quali si viene a contatto).
La virtù più alta resta, comunque, per il nostro autore, la sublimitas, in termini attuali la magnanimità, capace di giungere all’eroismo. A proposito del magnanimo, Campanella traccia «un programma ideale di vita e un trasparente autoritratto», al dire di Germana Ernst. Il magnanimo «non si affligge se non viene insignito di onori […], né si vergogna dell’umiltà delle proprie origini […]. Non si vendicherà […] e ricambierà il male con il bene […]. Vorrà conoscere tutte le arti e tutte le scienze […], emenderà le dottrine degli antichi confrontandole con il libro vivente e divino della natura. Vorrebbe essere l’autore di qualsiasi invenzione […]. I suoi eroi saranno coloro che hanno osato avventurarsi in spazi sconosciuti, come Colombo e Galileo […].
Egli vorrebbe percorrere e penetrare in tutti i mondi celesti sconosciuti, e leggendo le storie di ogni popolo gli sembrerà di essere vissuto in tutto il mondo e in tutti i tempi; venendo a conoscenza di una dottrina, antica o moderna, del tutto nuova, non si affretterà a condannarla, e anzi si indignerà con chi lo fa, ed esprimerà la propria opinione solo dopo una ponderata valutazione» (pp. XLII-XLIII). Anche il vizio può brillare talora, ma la sua luce è falsa: l’astuzia, per esempio, ha questo ruolo quando chi ne usa «ritiene di essere in grado di misurare ogni cosa con il suo proprio ingegno» ma intanto «ignora la propria ignoranza» (p. XXIV).
A impreziosire queste pagine di Campanella sono, come spesso nei suoi scritti e ancor più di quanto non appaia dall’autoritratto ora riportato, gli accenni autobiografici e le allusioni al proprio tempo. Egli denuncia, per esempio, la slealtà di quanti, pur dichiarandosi amici, non avevano esitato ad approfittare delle sue condizioni di carcerato per appropriarsi degli scritti che con totale fiducia aveva loro affidati e pubblicarli a proprio nome (cf. p. XXXII). Denuncia ugualmente i tiranni che se la prendevano con gli uomini di pensiero e si circondavano di uomini abbietti come loro (cf. p. XXXIII). Particolarmente toccante è l’ampio accenno fatto alla tortura inflittagli a Napoli per ben quaranta ore continue agli inizi della sua lunghissima detenzione e la resistenza sovrumana di cui aveva saputo dar prova in quei frangenti (cf. pp. XL; XLVII; 229).
Il volume è, al pari delle altre precedenti opere campanelliane pubblicate dalla Normale di Pisa, di una precisione, di una ricchezza e di una eleganza che hanno pochi paragoni sul fronte della pubblicistica italiana a livello scientifico, ciò che risalta già nelle pagine introduttive, e cioè nella lunga e articolata Introduzione della stessa curatrice Ernst e nella seguente Nota al testo, dovuta a Olivia Catanorchi. L’Introduzione presenta in dettaglio il laborioso cammino intellettuale fatto da Campanella nell’elaborazione della sua doppia serie di testi. La Nota al testo illustra, a sua volta, le fasi della composizione del materiale dato ora alla luce, i tre testimoni o testi sui quali in concreto si può contare (la redazione manoscritta della Biblioteca Apostolica Vaticana e le due edizioni a stampa), la nuova edizione offerta ai nostri contemporanei, i criteri di trascrizione che l’hanno ispirata.
Il testo vero e proprio privilegia l’edizione parigina del 1637, ma senza trascurare sia l’edizione del 1623 sia il manoscritto romano allestito fra le due date. Non per niente, l’edizione attuale riprende in toto in un’appendice le questioni mediche che compaiono tanto nell’edizione del 1623 quanto nel manoscritto romano ma non nell’edizione del 1637, anche perché nel frattempo riprese nel trattato campanelliano sulla Medicina. Il libro è arricchito da tre tipi di note illustrative: le postille marginali, le varianti testuali, le note storico-critiche, il tutto limitato allo stretto necessario. Inutile dire che, a parte le pagine dedicate alle Abbreviazioni e sigle, esso si chiude con i soliti tre indici – quello dei luoghi biblici, quello degli autori citati e quello dei nomi –, più l’indice generale.
È appena il caso di sottolineare pure che la pubblicazione delle due serie (l’Ethica e le Quaestiones) ha il merito di rimettere in circolazione un aspetto del pensiero di Campanella a lungo trascurato anche da quanti ne hanno sempre apprezzato il vigore di pensiero. Basta dire che, fino all’edizione anastatica di Luigi Firpo, cui si deve nel 1975 la ristampa presso la Bottega d’Erasmo (Torino) dell’edizione curata da Adami in Germania, tutto è rimasto fermo per secoli alle due menzionate stampe del primo Seicento. Ciò significa che, finora, almeno le Quaestiones super ethicam, uscite per la prima e unica volta a Parigi nel 1637 per precisare meglio i punti che l’Ethica aveva toccato sommariamente, sono rimaste, come scrive giustamente Germana Ernst, in pratica pressoché «sconosciute» (p. LII).
Tratto dalla rivista "Asprenas" n. 1-4/2012
(http://www.pftim.it)
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