È possibile etichettare il cinema compreso tra gli anni Venti e gli anni Quaranta come cinema di regime tout court? È un interrogativo di non facile risposta.
In quegli anni, infatti, troviamo un cinema insospettabilmente vario: accanto a pellicole perfettamente funzionali all’enfatizzazione mediatica di un uomo e della sua volontà di plasmare codici e modelli comportamentali, troviamo i narcotizzanti sogni dei telefoni bianchi e le fughe letterarie del calligrafismo.
Nel grande affresco ideologico che avrebbe dovuto mostrarsi compatto e senza sbavature, si insinuarono inoltre fermenti e sollecitazioni nuove e vivificanti specie nella fase propriamente bellica. La tentazione sempre più forte del vero e il bisogno di soffermare la macchina da presa sull’interiorità e sulle disillusioni dei personaggi spostarono progressivamente gli interessi dei registi su un piano diverso, innestandovi i primi segnali per una rinascita etica, formale, stilistica e ideologica ormai del tutto scollata da un regime in evidente caduta libera.
Se è vero che gli anni del totalitarismo italiano continuano ad esercitare un ambiguo fascino, rivedere e ridiscutere alcune delle più significative pellicole dell’epoca, con lo sguardo ingenuo ma attento dello spettatore accorto, può costituire un’esperienza stimolante e coinvolgente.
Una robusta parte teorica costituisce l’ossatura di un saggio agile e di facile lettura che, indugiando minuziosamente nelle fonti, tratteggia profili di artisti e operatori culturali, restituisce la voce ai protagonisti di quegli anni, seleziona le posizioni critiche più convincenti e propone un gioco “visivo” in cui il lettore, finalmente complice, viene risucchiato.