Medioevo romanzo e orientale
-Il viaggio dei testi
(Medioevo romanzo e orientale)EAN 9788872846261
Esaurito
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DETTAGLI DI «Medioevo romanzo e orientale»
Tipo
Libro
Titolo
Medioevo romanzo e orientale - Il viaggio dei testi
A cura di
Pioletti A., Rizzo Nervo F.
Editore
Rubbettino Editore
EAN
9788872846261
Pagine
622
Data
1999
Collana
Medioevo romanzo e orientale
COMMENTI DEI LETTORI A «Medioevo romanzo e orientale»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Medioevo romanzo e orientale»
Recensione di Carlo Saccone della rivista Studia Patavina
Il ricchissimo volume qui presentato offre una messe davvero ampia e oltremodo diversificata di contributi su un tema che è sempre più all’attenzione di romanisti e orientalisti e non da oggi. Un “viaggio dei testi” ci prospetta come è noto già nel primo ’800 lo Schlegel (di cui si occupa Michele Cometa, pp.61-78) che arditamente parlava di una “unica koiné asiatico-europea” e, nella seconda metà del secolo, quello straordinario e prolifico studioso che fu il russo A.N. Veselovskij di cui Mario Capaldo mette in rilievo (pp. 51-60) il tema della “migrazione degli intrecci” dall’India all’Europa per i tramiti della “leggenda cristiana” e della mediazione bizantino-slava. Altri autori come Miguel Asin Palacios o Italo Pizzi a cavallo tra l’’800 e il ’900, forse talora con minor rigore ma non minore passione, hanno continuato a scavare in questa direzione. Per avvicinarci alla contemporaneità basterà ricordare gli innovativi studi di “poetica storica” di E.M. Meletinskij giustamente sottolineati nel saggio di Antonio Pioletti (pp. 19-30) per il quale egli “ha l’indubbio merito di avere fornito una ricostruzione storico-letteraria che valica i confini delle visioni eurocentriche”.
Nel volume come si sarà intuito si discorre soprattutto di viaggi di intrecci narrativi. In particolare evidenza è il gruppo di contributi riguardanti quella che da tempo viene considerato una sorta di repertorio o “biblioteca comune” (attentamente riproposta nell’ampio intervento di A. Piemontese, pp.1-18) alla Romània e al mondo arabo-persiano (e indiano): Il Libro di Sindbad, il Romanzo di Alessandro, il Pancatantra, Le mille e una notte, Barlaam e Joasaf, cui si potrebbero aggiungere vari altri intrecci narrativi noti e meno noti. Un altro folto gruppo di contributi riguarda specificamente i “viaggi” del Romanzo di Alessandro con appendici spagnole, turche, armene…
Altri lavori ancora spaziano autorevolmente nell’area greco-bizantina, armena e slava –aree di transito privilegiato- trattando di opere agiografiche e romanzesche.
Dovendo per forza di cose e soprattutto per grave limitatezza di competenze trascegliere, mi limiterò a qualche considerazione a partire dai lavori dei primi due gruppi e a svolgere qualche considerazione più generale sull’impostazione del convegno.
Con grande lucidità Antonio Pioletti, nelle conclusioni del suo intervento sa porre quello che –mi pare- emerge come uno degli aspetti più delicati non solo del convegno ma anche dell’intera, ormai bisecolare, riflessione sul “viaggio dei testi”. Egli si chiede: “quel che va rimesso in discussione” non è forse “complessivamente la visione della partizione Occidente-Oriente, a partire dalla pretesa ormai patetica di cercare un’identità di Medioevo europeo, ieri cristiano-occidentale o germano -centrico o latino, in funzione a seconda delle fasi, anti-slava o anti-orientale…” ? (p. 28).
Ho avuto modo di mostrare (dimostrare non oso dirlo) come questa partizione sia irrimediabilmente entrata in crisi nel mio settore specifico di competenza, l’area arabo-persiana, e non da ieri soltanto, né più in generale essa si mostra molto feconda quando si parla di mondo musulmano singolarmente considerato (già in epoca classica esteso dalla Spagna all’Asia Centrale) o nei suoi rapporti con il mondo cristiano dalle origini a oggigiorno. Maometto si dichiara sin dagli inizi erede del verbo profetico di Mosè e di Gesù, e in continuità con il loro messaggio predica il monoteismo e la vita futura; il Corano si autorappresenta come conferma della Torà e del Vangelo; gli Arabi si dichiarano –mai in questo contestati dalla tradizione ebraica o cristiana, semmai confermati- eredi di Ismaele e Agar, schiava di Abramo (per questo anche noti sin dalla tradizione biblica come “agareni” o “ismaeliti”). Ancora: la tradizione filosofica araba a partire dall’Enciclopedia dei Fratelli della Purità di Baghdad (IX sec.) sino a Averroè e Sohravardi; il pensiero teologico musulmano da Al Ghazali ai teologi delle scuole neoplatonizzanti dell’Iran sciita del XVIII sec. e oltre; l’architettura civile e religiosa, aspetti della ritualità, dell’amministrazione, del diritto e di tante altre innumerevoli cose s’incaricano di dimostrare che l’eredità biblica da un lato e quella greco-ellenistica dall’altro non sono mai stati patrimonio esclusivo, un “monopolio”, del mondo latino-cristiano. Ovvero, che il mondo arabo–musulmano è allo stesso titolo figlio di Abramo e di Aristotele, senza i quali non si potrebbe capire gran parte –oserei dire la parte più importante- della sua storia. Esso è un florido ramo dell’albero d’Occidente se non “essential part of the Western Culture” (A.Bausani).
La storia letteraria con quelle “migrazioni di intrecci” messe in luce sin da Schlegel e da Veselovskij non fa che confermare il ruolo centrale assunto dallo “spazio” arabo-musulmano in quanto momento di transito obbligato ma anche, soprattutto, momento di rilettura e ricodificazione, di tanti testi come quelli che abbiamo elencato e chissà di quanti altri frammenti, di certo nella loro totalità incensibili, e moduli narrativi. Esempi notori sono la leggenda buddhista di Barlaam e Joasaf , il Libro di Sindbad e il Pancatantra (tradotto in arabo da Ibn al-Muqaffa) che hanno nelle lettere persiane passaggi importanti: loro rifacimenti (perduti) sono attribuiti già al primo grande poeta persiano, Rudaki (X sec.). L’altro caso notorio, di viaggio questa volta in senso inverso da ovest a est, è quello relativo al Romanzo di Alessandro con le sue innumerevoli riprese siriache, arabe, etiopiche, armene, persiane e persino turche, di cui nel nostro volume si occupano vari contributi (G. Paradisi, G. Bellingeri, C. Stevanoni, A. Punzi, G. Traina). Non semplici versioni o rifacimenti, ma vere e proprie ri-codificazioni, come viene messo ampiamente in luce dai vari interventi. Per fare un esempio eclatante, l’Alessandro condottiero e esploratore di mondi sconosciuti diventa nella tradizione arabo-persiana un condottiero-profeta e precursore della missione universale di Maometto; la figura del condottiero amante e protettore dei filosofi tramandata in Persia, e che tale ancora si mantiene nell’Alessandreide di Nezami, poeta persiano di epoca selgiucchide (XII sec.), si trasformerà poi in una controfigura del saggio o maestro sufi nelle mani del poeta mistico Jami (XV sec.) aderente a una pia confraternita o addirittura in un inesorabile nemico dei filosofi quando viene trattato dal poeta persiano d’India Amir-e Khosrow di Delhi che pure è un contemporaneo dell’azerbaigiano Nezami.
Un altro caso notevole di ricodificazione è quello della pia leggenda del Libro della Scala di Maometto di cui si occupa l’ultimo contributo presentato nel volume firmato da Nicolò Mineo. Il quale ripercorre con attenzione la lunga querelle sortita dalla nota tesi di Miguel Asin Palacios della “Escatologia musulmana en la divina Commedia” (Madrid 1919) per porgerci quindi la sua visione della vexata quaestio. Il caso della Libro della Scala è esemplare sotto vari aspetti. Già il Cerulli, e più tardi Marie Thérèse d’Alverny, segnalavano una prima ricodificazione della pia leggenda in chiave cristiana nel racconto edificante “Le peregrinazioni dell’anima nell’oltretomba” , dovuto si dice a un anonimo chierico operante in Spagna o forse in Sicilia nel ‘200. Ma guardando a ritroso la storia di questa leggenda, abbiamo modo di osservare un caso di “migrazione di intrecci” che a partire da un certo punto diventa davvero talmente intricato da rischiare per così dire di farci perdere la bussola. Joan Petru Culianu, peraltro raccogliendo suggerimenti chiarissimi presenti già nel citato lavoro di Asin Palacios, ha tracciato con precisione la genesi di questo testo –o meglio del gruppo di pie leggende sul mi’raj di Maometto- che ha i suoi immediati antecedenti nella letteratura apocalittica intertestamentaria (Apocalisse di Pietro, Apocalisse di Paolo, letteratura hekhalotica, Rivelazione di Mosè) ove sono rintracciabili tutti gli elementi strutturali di fondo: viaggio nell’aldilà, ascensione miracolosa, accompagnatore angelico, dialoghi con la guida o con vari personaggi incontrati, rivelazione/visione finale ecc. Al livello della struttura generale giustamente quindi il Mineo ci ricorda che “la presenza di un presumibile rapporto non può far decidere di una precisa e esclusiva dipendenza quando si tratta di idee e convinzioni di così ampia circolazione e partecipazione come quelle riguardanti il mondo di là. Il corpo delle rappresentazioni di questo è universale, largamente incrociato e stratificato… sicché si possono presupporre relazioni e derivazioni in ogni senso e in ogni direzione, sia diacronici che sincronici” (p. 575). Insomma, per esemplificare nel caso concreto, le analogie e somiglianze di struttura generale tra la Commedia e il Libro della Scala non comporterebbero necessariamente dipendenza di Dante da questo testo escatologico maggiore di quanta potrebbe averne avuta dalla vulgata cristiana sull’aldilà trasmessa com’è noto a partire dalle apocalissi apocrife di Pietro e Paolo e chissà da quanti altri testi di devozione. Passando al terreno forse più fecondo delle “somiglianze particolari”, dove il filologo è certamente più a suo agio, è certo che di qui possono emergere -e di certo continueranno ad emergere in futuro- le “scoperte” più interessanti (si pensi ad es. ai vari saggi di Maria Corti, sempre più addentrata in questa fitta boscaglia dopo il pionieristico dissodamento iniziato dall’Asin Palacios). Il Mineo ci fa un elenco diligente e una valutazione attenta di queste numerose somiglianze particolari. Mi permetto di contribuire qui con un esempio. La collocazione di Maometto nell’Inferno tra i seminatori di scismi e discordie (che corrisponde com’è noto alla sua percezione, a partire da S. Giovanni Damasceno, come eretico e impostore, responsabile dell’ultimo grande scisma), ci offre materia di riflessione filologica con riguardo alle modalità della pena comminata al “falso profeta”: straziato in tutto il corpo dal mento sino al fondo della schiena. Sarà un caso, ma lo straziamento o la crocefissione o il dissanguamento per taglio di mani e piedi è la pena coranica (sura III, v. 55) prevista per i sobillatori di discordie religiose, i seminatori di corruzione, gli eretici e simili. Per nessun altro reato è previsto nel Corano o nella tradizione una pena così terribile e degradante (ricordiamo, per inciso, che questa pena fu inflitta a innumerevoli eretici dell’Islam, a partire da Hallaj, il sufi “eretico” orrendamente suppliziato nel 922 a Baghdad). Che Dante, viene da chiedersi, abbia conosciuto questo aspetto del “codice penale” coranico e abbia voluto con sublime quanto perfidamente ironico senso del contrappasso ispirarvisi proprio trattando il caso del profeta dell’Islam, il responsabile della più grande “eresia”?
La conclusione del Mineo lascia più perplessi là dove egli sembra voler riprendere una domanda ormai vecchia e cui aveva già benissimo risposto Enrico Cerulli avvalendosi dell’estetica crociana, ovvero la domanda sulla autonomia creativa e poetica dell’autore della Commedia. Che Dante tratti i materiali acquisiti dalle tradizioni precedenti, araba o provenzale non importa, come “res nullius”, appunto “materiali” e basta che come mattoni entrano nella sua originale costruzione poetica e fantastica, è cosa pacifica e scontata da tempo, ammessa in fondo dallo stesso Asin Palacios; non ci sembra proprio necessario ribadire un’ennesima volta urbi et orbi che “qualunque somiglianza pertanto è relativa solo alla materia grezza e non implica dipendenza di natura artistica…. [né] dipendenza culturale” (p.584). Eppure, questo tornare ossessivo sulla questione appare oltremodo significativo. Sembra che sia tutt’ora ancora all’opera una sorta di riflesso condizionato ineludibile: ogni volta che si parla di possibili “fonti islamiche” della Commedia pare ancora messa in questione implicitamente la grandezza della nostra massima gloria letteraria!
Fuori da questo volume resta una categoria nobile di “migrazioni”, che peraltro è stata ampiamente esplorata e studiata nel secolo che si conclude (si pensi per fare un paio di nomi agli studi di Etienne Gilson o di Bruno Nardi). Mi riferisco a testi eminentemente filosofici che notoriamente migrarono dal mondo greco-ellenistico al mondo arabo attraverso mediazioni siriache o mediopersiane e approdarono successivamente –talora per tramiti ebraici- alla latinità medioevale. Si tratta di un campo di studi non più vergine, ma capace di riservare ancora belle sorprese come ad esempio i tre trattati averroistici (rimaneggiamenti latini di originali arabi) recentemente pubblicati in versione italiana nell’ambito di uno studio approfondito da Augusto Illuminati (Completa Beatitudo. L’intelletto felice in tre opuscoli averroisti, Chiaravalle 2000). Gli studi hanno messo in evidenza anche qui un ampio repertorio di temi e riflessioni, o quantomeno una agenda tematica, comune al pensiero cristiano e a quello islamico medievali. La profondità di penetrazione di certe concezioni teologico-filosofiche come quelle relative all’intelletto o al destino dell’anima in tanta parte della poesia italiana o arabo-persiana; l’ampiezza e la fecondità dello scambio “a distanza” tra pensatori musulmani, ebrei e cristiani; e soprattutto la sua incisività nel momento formativo di personaggi del calibro di un Dante o di Tommaso d’Aquino, ci fanno comprendere come il “viaggio dei testi” non sia un mero accidente, bensì una delle dimensioni “materiali” fondamentali del costituirsi del pensiero e della letteratura medievali.
Un’ultima osservazione. Si osserva in questo ricco volume una vistosa latitanza: si parla in lungo e in largo di viaggi o migrazioni di intrecci narrativi, molto meno di poesia, di una “migrazione del canto”. I vecchi studi di Nykl, Menéndez Pidal, Ribera e altri sulle origini della poesia dei trovatori non sembrano aver avuto un grande seguito. Eppure rileggendo certe pagine dei lirici arabi o persiani dopo quelle dei nostri stilnovisti non si può fare a meno di osservare o percepire, come diceva Louis Massignom, una sensibilità comune. Se Beatrice è colei che è venuta da cielo in terra a miracol mostrare, l’innominata bellezza cantata da Hafez è spesso definita una celeste “urì” traslucida di soprannaturale Bellezza; l’uno e l’altro poeta creano intorno alla figura amata, in una atmosfera densamente onirica, una “visione immaginale” ove il terreno e il celeste sono contigui, ognuno ben presente senza tuttavia mai abolire il termine opposto; e come Dante afferma di scrivere al modo che Amore gli va dettando, Hafez ci dice che Amore lo volle ammaestrare nel dire poetico! Pure coincidenze? Certamente seguire una migrazione di intrecci narrativi o di tematiche filosofiche è più agevole, di solito molto meglio documentabile e verificabile di quanto non si possa fare inseguendo tra i versi di poeti apparentemente lontani un motivo, una immagine, un atteggiamento, una Stimmung.
Gli studi presentati in questo volume si prestano forse anche a un’altra considerazione più generale. Tra l’India e l’Occidente greco-latino-romanzo si situano almeno due zone di passaggio, di transito obbligato, la slavo-bizantina e la Dar al-Islam. Ma a fronte della relativa rigidità territoriale della prima, la seconda si estende in modo permanente dall’estremo ovest (Spagna moresca, dall’VIII sec.) all’estremo est (India musulmana dall’XI sec.) dell’ecumene euroasiatica intravvista dallo Schlegel. Il mondo arabo-persiano diventa a ben vedere il vero collante di questa ecumene, e assume una centralità geo-culturalmente indiscutibile. L’India conoscerà ben prima della colonizzazione portoghese o inglese l’”occidente”, e lo conoscerà precisamente attraverso la colonizzazione culturale arabo-persiana seguita alle spedizioni di Mahmud di Ghazna (tra X e XI sec), di cui ci informano con precisione gli storici persiani e quello straordinario scienziato e geografo che fu il persiano arabografo al-Biruni, autore di un prezioso resoconto sull’India. Curioso personaggio, questo Mahmud di Ghazna: egli replica la grande impresa di Alessandro (il coranico Bicorne) con una spedizione in India presto entrata nella leggenda, ponendo così le basi di un dominio che si protrarrà sino al XIX secolo, sovrano passato alla storia dell’Islam come il più grande condottiero e insieme generoso protettore di poeti e filosofi, persino avvicinabile al grande macedone per qualche aspetto più personale-biografico (l’origine turca, dunque esterna al cuore della civiltà arabo-persiana, l’inclinazione omoerotica per lo schiavo Ayaz che darà spunto a innumerevoli riprese letterarie, persino in chiave di amore mistico).
Il progredire della ricerca ci mostra sempre più chiaramente che all’interno dell’ampia ”ecumene euro-asiatica” intravvista da Schlegel e Veselovskij - territorio di viaggi di testi e di intrecci dall’India all’estremo Occidente e viceversa- andrebbe ridisegnato o se si vuole riprofilato proprio il lato occidentale. Il quale non appare più riducibile al solo corno latino-cristiano, la sua parte in fondo più statica, ma dovrebbe forse includere anche un corno arabo-musulmano, l’elemento più dinamico in senso geo-culturale e che, nel lasso di tempo che si colloca tra i trovatori e Petrarca , esercita un indubbio ascendente sul mondo intellettuale romanzo.
L’“identità europea” dall’epopea di Roncisvalle individua chiaramente il suo “alter ego” negativo e, dalle crociate in poi, andrà costituendosi su ambigui meccanismi di angoscia/rimozione di fronte alla grande cultura “aliena” e “pagana”. Il Maometto scagliato nel profondo dell’Inferno, l’Avicenna e l’Averroè parcheggiati con qualche imbarazzo nel limbo, la Città di Dite con le sue torri “meschite” ci trasmettono in filigrana l’immagine di un Occidente euro-cristano che convive con la rimozione profonda di una propria “essential part”. Ovvero che s’è specchiato/ha visto nel mondo islamico medievale il suo polo negativo, ma non per questo meno costitutivo della sua identità come tanti, troppi “viaggi” di testi di intrecci di persone e di idee, ci mostrano.
Forse dovremmo iniziare a parlare non più di un Occidente, ma di due, il latino-cristiano e l’arabo-musulmano, due Occidenti, entrambi in vario modo eredi della tradizione biblica e della greco-ellenistica, insomma due modi diversi –ancora per certi versi polarmente contrapposti, ma storicamente in fondo complementari- di interpretare la stessa antica luminosa eredità. Ne abbiamo se si vuole una controprova nella storia dell’India, che conobbe la prima effimera invasione da Occidente con Alessandro, ma trovò a partire dalla seconda, quella del “novello Alessandro” ovvero Mahmud di Ghazna, l’inizio della sua “storia moderna” e la sua prima durevole convivenza con una cultura di matrice monoteista-mediterranea. Non sarà un caso che dall’indipendenza a oggi l’India è andata ricostruendo la propria identità nazionale nel rifiuto dell’occidente britannico, ma, prima ancora, di quello arabo-persiano; e, soprattutto, nella negazione talora scomposta e violenta del colonialismo culturale musulmano, ben più antico e profondamente radicato di quello cristiano la cui bandiera veniva ufficialmente ammainata nel 1947 dagli inglesi di Lord Mountbatten.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Nel volume come si sarà intuito si discorre soprattutto di viaggi di intrecci narrativi. In particolare evidenza è il gruppo di contributi riguardanti quella che da tempo viene considerato una sorta di repertorio o “biblioteca comune” (attentamente riproposta nell’ampio intervento di A. Piemontese, pp.1-18) alla Romània e al mondo arabo-persiano (e indiano): Il Libro di Sindbad, il Romanzo di Alessandro, il Pancatantra, Le mille e una notte, Barlaam e Joasaf, cui si potrebbero aggiungere vari altri intrecci narrativi noti e meno noti. Un altro folto gruppo di contributi riguarda specificamente i “viaggi” del Romanzo di Alessandro con appendici spagnole, turche, armene…
Altri lavori ancora spaziano autorevolmente nell’area greco-bizantina, armena e slava –aree di transito privilegiato- trattando di opere agiografiche e romanzesche.
Dovendo per forza di cose e soprattutto per grave limitatezza di competenze trascegliere, mi limiterò a qualche considerazione a partire dai lavori dei primi due gruppi e a svolgere qualche considerazione più generale sull’impostazione del convegno.
Con grande lucidità Antonio Pioletti, nelle conclusioni del suo intervento sa porre quello che –mi pare- emerge come uno degli aspetti più delicati non solo del convegno ma anche dell’intera, ormai bisecolare, riflessione sul “viaggio dei testi”. Egli si chiede: “quel che va rimesso in discussione” non è forse “complessivamente la visione della partizione Occidente-Oriente, a partire dalla pretesa ormai patetica di cercare un’identità di Medioevo europeo, ieri cristiano-occidentale o germano -centrico o latino, in funzione a seconda delle fasi, anti-slava o anti-orientale…” ? (p. 28).
Ho avuto modo di mostrare (dimostrare non oso dirlo) come questa partizione sia irrimediabilmente entrata in crisi nel mio settore specifico di competenza, l’area arabo-persiana, e non da ieri soltanto, né più in generale essa si mostra molto feconda quando si parla di mondo musulmano singolarmente considerato (già in epoca classica esteso dalla Spagna all’Asia Centrale) o nei suoi rapporti con il mondo cristiano dalle origini a oggigiorno. Maometto si dichiara sin dagli inizi erede del verbo profetico di Mosè e di Gesù, e in continuità con il loro messaggio predica il monoteismo e la vita futura; il Corano si autorappresenta come conferma della Torà e del Vangelo; gli Arabi si dichiarano –mai in questo contestati dalla tradizione ebraica o cristiana, semmai confermati- eredi di Ismaele e Agar, schiava di Abramo (per questo anche noti sin dalla tradizione biblica come “agareni” o “ismaeliti”). Ancora: la tradizione filosofica araba a partire dall’Enciclopedia dei Fratelli della Purità di Baghdad (IX sec.) sino a Averroè e Sohravardi; il pensiero teologico musulmano da Al Ghazali ai teologi delle scuole neoplatonizzanti dell’Iran sciita del XVIII sec. e oltre; l’architettura civile e religiosa, aspetti della ritualità, dell’amministrazione, del diritto e di tante altre innumerevoli cose s’incaricano di dimostrare che l’eredità biblica da un lato e quella greco-ellenistica dall’altro non sono mai stati patrimonio esclusivo, un “monopolio”, del mondo latino-cristiano. Ovvero, che il mondo arabo–musulmano è allo stesso titolo figlio di Abramo e di Aristotele, senza i quali non si potrebbe capire gran parte –oserei dire la parte più importante- della sua storia. Esso è un florido ramo dell’albero d’Occidente se non “essential part of the Western Culture” (A.Bausani).
La storia letteraria con quelle “migrazioni di intrecci” messe in luce sin da Schlegel e da Veselovskij non fa che confermare il ruolo centrale assunto dallo “spazio” arabo-musulmano in quanto momento di transito obbligato ma anche, soprattutto, momento di rilettura e ricodificazione, di tanti testi come quelli che abbiamo elencato e chissà di quanti altri frammenti, di certo nella loro totalità incensibili, e moduli narrativi. Esempi notori sono la leggenda buddhista di Barlaam e Joasaf , il Libro di Sindbad e il Pancatantra (tradotto in arabo da Ibn al-Muqaffa) che hanno nelle lettere persiane passaggi importanti: loro rifacimenti (perduti) sono attribuiti già al primo grande poeta persiano, Rudaki (X sec.). L’altro caso notorio, di viaggio questa volta in senso inverso da ovest a est, è quello relativo al Romanzo di Alessandro con le sue innumerevoli riprese siriache, arabe, etiopiche, armene, persiane e persino turche, di cui nel nostro volume si occupano vari contributi (G. Paradisi, G. Bellingeri, C. Stevanoni, A. Punzi, G. Traina). Non semplici versioni o rifacimenti, ma vere e proprie ri-codificazioni, come viene messo ampiamente in luce dai vari interventi. Per fare un esempio eclatante, l’Alessandro condottiero e esploratore di mondi sconosciuti diventa nella tradizione arabo-persiana un condottiero-profeta e precursore della missione universale di Maometto; la figura del condottiero amante e protettore dei filosofi tramandata in Persia, e che tale ancora si mantiene nell’Alessandreide di Nezami, poeta persiano di epoca selgiucchide (XII sec.), si trasformerà poi in una controfigura del saggio o maestro sufi nelle mani del poeta mistico Jami (XV sec.) aderente a una pia confraternita o addirittura in un inesorabile nemico dei filosofi quando viene trattato dal poeta persiano d’India Amir-e Khosrow di Delhi che pure è un contemporaneo dell’azerbaigiano Nezami.
Un altro caso notevole di ricodificazione è quello della pia leggenda del Libro della Scala di Maometto di cui si occupa l’ultimo contributo presentato nel volume firmato da Nicolò Mineo. Il quale ripercorre con attenzione la lunga querelle sortita dalla nota tesi di Miguel Asin Palacios della “Escatologia musulmana en la divina Commedia” (Madrid 1919) per porgerci quindi la sua visione della vexata quaestio. Il caso della Libro della Scala è esemplare sotto vari aspetti. Già il Cerulli, e più tardi Marie Thérèse d’Alverny, segnalavano una prima ricodificazione della pia leggenda in chiave cristiana nel racconto edificante “Le peregrinazioni dell’anima nell’oltretomba” , dovuto si dice a un anonimo chierico operante in Spagna o forse in Sicilia nel ‘200. Ma guardando a ritroso la storia di questa leggenda, abbiamo modo di osservare un caso di “migrazione di intrecci” che a partire da un certo punto diventa davvero talmente intricato da rischiare per così dire di farci perdere la bussola. Joan Petru Culianu, peraltro raccogliendo suggerimenti chiarissimi presenti già nel citato lavoro di Asin Palacios, ha tracciato con precisione la genesi di questo testo –o meglio del gruppo di pie leggende sul mi’raj di Maometto- che ha i suoi immediati antecedenti nella letteratura apocalittica intertestamentaria (Apocalisse di Pietro, Apocalisse di Paolo, letteratura hekhalotica, Rivelazione di Mosè) ove sono rintracciabili tutti gli elementi strutturali di fondo: viaggio nell’aldilà, ascensione miracolosa, accompagnatore angelico, dialoghi con la guida o con vari personaggi incontrati, rivelazione/visione finale ecc. Al livello della struttura generale giustamente quindi il Mineo ci ricorda che “la presenza di un presumibile rapporto non può far decidere di una precisa e esclusiva dipendenza quando si tratta di idee e convinzioni di così ampia circolazione e partecipazione come quelle riguardanti il mondo di là. Il corpo delle rappresentazioni di questo è universale, largamente incrociato e stratificato… sicché si possono presupporre relazioni e derivazioni in ogni senso e in ogni direzione, sia diacronici che sincronici” (p. 575). Insomma, per esemplificare nel caso concreto, le analogie e somiglianze di struttura generale tra la Commedia e il Libro della Scala non comporterebbero necessariamente dipendenza di Dante da questo testo escatologico maggiore di quanta potrebbe averne avuta dalla vulgata cristiana sull’aldilà trasmessa com’è noto a partire dalle apocalissi apocrife di Pietro e Paolo e chissà da quanti altri testi di devozione. Passando al terreno forse più fecondo delle “somiglianze particolari”, dove il filologo è certamente più a suo agio, è certo che di qui possono emergere -e di certo continueranno ad emergere in futuro- le “scoperte” più interessanti (si pensi ad es. ai vari saggi di Maria Corti, sempre più addentrata in questa fitta boscaglia dopo il pionieristico dissodamento iniziato dall’Asin Palacios). Il Mineo ci fa un elenco diligente e una valutazione attenta di queste numerose somiglianze particolari. Mi permetto di contribuire qui con un esempio. La collocazione di Maometto nell’Inferno tra i seminatori di scismi e discordie (che corrisponde com’è noto alla sua percezione, a partire da S. Giovanni Damasceno, come eretico e impostore, responsabile dell’ultimo grande scisma), ci offre materia di riflessione filologica con riguardo alle modalità della pena comminata al “falso profeta”: straziato in tutto il corpo dal mento sino al fondo della schiena. Sarà un caso, ma lo straziamento o la crocefissione o il dissanguamento per taglio di mani e piedi è la pena coranica (sura III, v. 55) prevista per i sobillatori di discordie religiose, i seminatori di corruzione, gli eretici e simili. Per nessun altro reato è previsto nel Corano o nella tradizione una pena così terribile e degradante (ricordiamo, per inciso, che questa pena fu inflitta a innumerevoli eretici dell’Islam, a partire da Hallaj, il sufi “eretico” orrendamente suppliziato nel 922 a Baghdad). Che Dante, viene da chiedersi, abbia conosciuto questo aspetto del “codice penale” coranico e abbia voluto con sublime quanto perfidamente ironico senso del contrappasso ispirarvisi proprio trattando il caso del profeta dell’Islam, il responsabile della più grande “eresia”?
La conclusione del Mineo lascia più perplessi là dove egli sembra voler riprendere una domanda ormai vecchia e cui aveva già benissimo risposto Enrico Cerulli avvalendosi dell’estetica crociana, ovvero la domanda sulla autonomia creativa e poetica dell’autore della Commedia. Che Dante tratti i materiali acquisiti dalle tradizioni precedenti, araba o provenzale non importa, come “res nullius”, appunto “materiali” e basta che come mattoni entrano nella sua originale costruzione poetica e fantastica, è cosa pacifica e scontata da tempo, ammessa in fondo dallo stesso Asin Palacios; non ci sembra proprio necessario ribadire un’ennesima volta urbi et orbi che “qualunque somiglianza pertanto è relativa solo alla materia grezza e non implica dipendenza di natura artistica…. [né] dipendenza culturale” (p.584). Eppure, questo tornare ossessivo sulla questione appare oltremodo significativo. Sembra che sia tutt’ora ancora all’opera una sorta di riflesso condizionato ineludibile: ogni volta che si parla di possibili “fonti islamiche” della Commedia pare ancora messa in questione implicitamente la grandezza della nostra massima gloria letteraria!
Fuori da questo volume resta una categoria nobile di “migrazioni”, che peraltro è stata ampiamente esplorata e studiata nel secolo che si conclude (si pensi per fare un paio di nomi agli studi di Etienne Gilson o di Bruno Nardi). Mi riferisco a testi eminentemente filosofici che notoriamente migrarono dal mondo greco-ellenistico al mondo arabo attraverso mediazioni siriache o mediopersiane e approdarono successivamente –talora per tramiti ebraici- alla latinità medioevale. Si tratta di un campo di studi non più vergine, ma capace di riservare ancora belle sorprese come ad esempio i tre trattati averroistici (rimaneggiamenti latini di originali arabi) recentemente pubblicati in versione italiana nell’ambito di uno studio approfondito da Augusto Illuminati (Completa Beatitudo. L’intelletto felice in tre opuscoli averroisti, Chiaravalle 2000). Gli studi hanno messo in evidenza anche qui un ampio repertorio di temi e riflessioni, o quantomeno una agenda tematica, comune al pensiero cristiano e a quello islamico medievali. La profondità di penetrazione di certe concezioni teologico-filosofiche come quelle relative all’intelletto o al destino dell’anima in tanta parte della poesia italiana o arabo-persiana; l’ampiezza e la fecondità dello scambio “a distanza” tra pensatori musulmani, ebrei e cristiani; e soprattutto la sua incisività nel momento formativo di personaggi del calibro di un Dante o di Tommaso d’Aquino, ci fanno comprendere come il “viaggio dei testi” non sia un mero accidente, bensì una delle dimensioni “materiali” fondamentali del costituirsi del pensiero e della letteratura medievali.
Un’ultima osservazione. Si osserva in questo ricco volume una vistosa latitanza: si parla in lungo e in largo di viaggi o migrazioni di intrecci narrativi, molto meno di poesia, di una “migrazione del canto”. I vecchi studi di Nykl, Menéndez Pidal, Ribera e altri sulle origini della poesia dei trovatori non sembrano aver avuto un grande seguito. Eppure rileggendo certe pagine dei lirici arabi o persiani dopo quelle dei nostri stilnovisti non si può fare a meno di osservare o percepire, come diceva Louis Massignom, una sensibilità comune. Se Beatrice è colei che è venuta da cielo in terra a miracol mostrare, l’innominata bellezza cantata da Hafez è spesso definita una celeste “urì” traslucida di soprannaturale Bellezza; l’uno e l’altro poeta creano intorno alla figura amata, in una atmosfera densamente onirica, una “visione immaginale” ove il terreno e il celeste sono contigui, ognuno ben presente senza tuttavia mai abolire il termine opposto; e come Dante afferma di scrivere al modo che Amore gli va dettando, Hafez ci dice che Amore lo volle ammaestrare nel dire poetico! Pure coincidenze? Certamente seguire una migrazione di intrecci narrativi o di tematiche filosofiche è più agevole, di solito molto meglio documentabile e verificabile di quanto non si possa fare inseguendo tra i versi di poeti apparentemente lontani un motivo, una immagine, un atteggiamento, una Stimmung.
Gli studi presentati in questo volume si prestano forse anche a un’altra considerazione più generale. Tra l’India e l’Occidente greco-latino-romanzo si situano almeno due zone di passaggio, di transito obbligato, la slavo-bizantina e la Dar al-Islam. Ma a fronte della relativa rigidità territoriale della prima, la seconda si estende in modo permanente dall’estremo ovest (Spagna moresca, dall’VIII sec.) all’estremo est (India musulmana dall’XI sec.) dell’ecumene euroasiatica intravvista dallo Schlegel. Il mondo arabo-persiano diventa a ben vedere il vero collante di questa ecumene, e assume una centralità geo-culturalmente indiscutibile. L’India conoscerà ben prima della colonizzazione portoghese o inglese l’”occidente”, e lo conoscerà precisamente attraverso la colonizzazione culturale arabo-persiana seguita alle spedizioni di Mahmud di Ghazna (tra X e XI sec), di cui ci informano con precisione gli storici persiani e quello straordinario scienziato e geografo che fu il persiano arabografo al-Biruni, autore di un prezioso resoconto sull’India. Curioso personaggio, questo Mahmud di Ghazna: egli replica la grande impresa di Alessandro (il coranico Bicorne) con una spedizione in India presto entrata nella leggenda, ponendo così le basi di un dominio che si protrarrà sino al XIX secolo, sovrano passato alla storia dell’Islam come il più grande condottiero e insieme generoso protettore di poeti e filosofi, persino avvicinabile al grande macedone per qualche aspetto più personale-biografico (l’origine turca, dunque esterna al cuore della civiltà arabo-persiana, l’inclinazione omoerotica per lo schiavo Ayaz che darà spunto a innumerevoli riprese letterarie, persino in chiave di amore mistico).
Il progredire della ricerca ci mostra sempre più chiaramente che all’interno dell’ampia ”ecumene euro-asiatica” intravvista da Schlegel e Veselovskij - territorio di viaggi di testi e di intrecci dall’India all’estremo Occidente e viceversa- andrebbe ridisegnato o se si vuole riprofilato proprio il lato occidentale. Il quale non appare più riducibile al solo corno latino-cristiano, la sua parte in fondo più statica, ma dovrebbe forse includere anche un corno arabo-musulmano, l’elemento più dinamico in senso geo-culturale e che, nel lasso di tempo che si colloca tra i trovatori e Petrarca , esercita un indubbio ascendente sul mondo intellettuale romanzo.
L’“identità europea” dall’epopea di Roncisvalle individua chiaramente il suo “alter ego” negativo e, dalle crociate in poi, andrà costituendosi su ambigui meccanismi di angoscia/rimozione di fronte alla grande cultura “aliena” e “pagana”. Il Maometto scagliato nel profondo dell’Inferno, l’Avicenna e l’Averroè parcheggiati con qualche imbarazzo nel limbo, la Città di Dite con le sue torri “meschite” ci trasmettono in filigrana l’immagine di un Occidente euro-cristano che convive con la rimozione profonda di una propria “essential part”. Ovvero che s’è specchiato/ha visto nel mondo islamico medievale il suo polo negativo, ma non per questo meno costitutivo della sua identità come tanti, troppi “viaggi” di testi di intrecci di persone e di idee, ci mostrano.
Forse dovremmo iniziare a parlare non più di un Occidente, ma di due, il latino-cristiano e l’arabo-musulmano, due Occidenti, entrambi in vario modo eredi della tradizione biblica e della greco-ellenistica, insomma due modi diversi –ancora per certi versi polarmente contrapposti, ma storicamente in fondo complementari- di interpretare la stessa antica luminosa eredità. Ne abbiamo se si vuole una controprova nella storia dell’India, che conobbe la prima effimera invasione da Occidente con Alessandro, ma trovò a partire dalla seconda, quella del “novello Alessandro” ovvero Mahmud di Ghazna, l’inizio della sua “storia moderna” e la sua prima durevole convivenza con una cultura di matrice monoteista-mediterranea. Non sarà un caso che dall’indipendenza a oggi l’India è andata ricostruendo la propria identità nazionale nel rifiuto dell’occidente britannico, ma, prima ancora, di quello arabo-persiano; e, soprattutto, nella negazione talora scomposta e violenta del colonialismo culturale musulmano, ben più antico e profondamente radicato di quello cristiano la cui bandiera veniva ufficialmente ammainata nel 1947 dagli inglesi di Lord Mountbatten.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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