Se l’interesse per la persona, l’opera e il pensiero di Florenskij ha superato in Italia ormai da alcuni anni la cerchia di una piccola nicchia di specialisti, tanto da potersi parlare di una sua sempre più diffusa popolarità presso l’ampio pubblico dei lettori italiani, ciò si deve anche alla casa editrice Mondadori che ha pubblicato in passato, e continua a ristampare, due testi di grande successo (nel 2000: «Non dimenticatemi». Lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo; nel 2003: Ai miei figli. Memorie di giorni passati), ospitandoli prima nella collana Uomini e religioni e successivamente in Oscar saggi. Nel 2010 è poi uscito presso la casa editrice milanese un terzo volume di testi di Florenskij, curato da Natalino Valentini, autore dell’introduzione: Pavel A. Florenskij interprete dell’ortodossia (VII-XXXII) e delle tre note bio-bibliografiche (XXXIII-XLIX).
Il volume raccoglie cinque brevi saggi che il pensatore e martire russo scrisse nel periodo dal 1909 al 1923: L’ortodossia, Il rito come sintesi delle arti, Nota sull’ortodossia, Cristianesimo e cultura e Lezioni sulla concezione cristiana del mondo. Tre di essi erano già usciti in Italia (Il rito come sintesi delle arti, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, trad. di Carla Muschio e Nicoletta Misler, Casa del libro, Roma 1983 [Gangemi editore, Roma 1990], 57-67; Cristianesimo e cultura, in L’Altra Europa 215 [1987] n. 5, 25-33; Nota sull’ortodossia, in L’Altra Europa 235 [1991] n. 1, 25-33), tuttavia il volume di Valentini ne propone una nuova traduzione a firma di Claudia Zonghetti. Data la loro non facile reperibilità, non si può che essere grati per questa riproposizione che, integrata da due testi inediti, è caratterizzata da un’innegabile unità interna. La si può certo cogliere nella convergenza dei temi sviluppati da Florenskij e nell’utilizzo, da parte sua, di un’unica prospettiva ermeneutica di fondo; ancor di più però è rintracciabile in quello che rappresenta l’unico motivo che lo spinse a ideare e a scrivere ognuno dei 5 saggi: la preoccupazione per il futuro della Russia cristiana e per il cristianesimo in generale. Parafrasando una battuta dell’Autore russo, rivolta contro Kant, oserei dire che, se il filosofo tedesco elaborò la sua filosofia seduto comodamente in poltrona, con il sigaro in mano, Florenskij scrisse i cinque succitati testi dolorosamente prostrato davanti all’icona del Salvatore, schiacciato dal peso delle minacce che nei primi decenni del ’900 pendevano, come nuvole oscure, sull’orizzonte della storia russa ed europea.
È un dato di fatto che, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse in un clima areligioso, il pensatore russo visse il suo avvicinamento all’Ortodossia attraverso l’esperienza dell’incontro con alcuni santi monaci (i cosiddetti starcy), ma anche con la fragilità della Chiesa come istituzione malata di sterilità spirituale e di narcisismo clericale, istituzione in cui, però, riuscì a intravedere un “cuore sacro”, un prezioso “tesoro” di santità di cui si innamorò e che non gli permise di tirarsi indietro. Ecco perché successivamente s’impegnò molto a promuovere, con la sua opera, il necessario rinnovamento ecclesiale. Di qui scaturisce una delle caratteristiche delle sue riflessioni sui temi riguardanti l’Ortodossia. Come si evince da alcuni scritti e in particolare dalla ricca corrispondenza di Florenskij, se egli parlava della Chiesa ortodossa e dell’Ortodossia russa e se arrivava a elogiarne la superiorità rispetto ad altre confessioni cristiane, lo faceva con la consapevolezza di riferirsi ad una Chiesa e ad un’Ortodossia ideali, in potentia, descrivendo cioè come esse avrebbero potuto e dovuto essere, e non come apparivano realmente. È qui la chiave per la comprensione dei cinque saggi: il senso di ciò che il testo dice e di quello che si nasconde tra le righe. Il che, ovviamente, nulla toglie alle dense e coinvolgenti riflessioni teologiche e teoretiche sui temi trattati (icona, liturgia, bellezza, ecc.); le fa solo apparire in quel Sitz im Leben che ne ha determinato il significato più profondo.
È in quest’ottica che va letto il saggio L’ortodossia. Esso venne scritto nel 1909, in un periodo dunque in cui Florenskij frequentava il circolo slavofilo di M.A. Novoselov, riservato a un numero ristretto di intellettuali ortodossi desiderosi di contribuire al rinnovamento della società e, prima ancora, della Chiesa. È noto che una delle caratteristiche del circolo fu l’adesione pressoché acritica e totale dei suoi membri all’idea del “messianismo russo” (ossia al nazionalismo russo e al confessionalismo ortodosso), adesione che coinvolse anche il giovane Pavel. Eppure nella conclusione del saggio è espressa la visione realista di chi sa ammettere «la decadenza e lo sfacelo della quotidianità ortodossa – e dunque anche dell’Ortodossia» (26). Il saggio Il rito come sintesi delle arti fu invece concepito in un contesto storico diverso; Florenskij lo scrisse a un anno esatto dalla rivoluzione d’Ottobre del 1917, dopo l’inasprimento della persecuzione da parte del governo dei soviet nei confronti della Chiesa, cui fece seguito la distruzione dei luoghi e degli oggetti di culto. Per cercare di salvare almeno il santuario della tradizione religiosa russa, la lavra della SS. Trinità di San Sergio a Sergiev Posad, Florenskij guidò la Commissione per la tutela dei monumenti e delle antichità della lavra stessa, sperando di riuscire a scongiurarne sia la distruzione che la conversione forzata in museo. Si tratta, dunque, di un testo apologetico che, purtroppo, non riuscì a cambiare le idee dei protagonisti del Kulturkampf sovietico. Al contrario, la posizione di Florenskij, e della Commissione, irritò il governo a tal punto da poter essere considerata una delle cause della sua futura incarcerazione e condanna.
I saggi Nota sull’ortodossia e Cristianesimo e cultura, entrambi del 1923, sono una sorta di grido de profundis, lanciato per scuotere le coscienze dei contemporanei. Questa volta, però, Florenskij volge il suo sguardo preoccupato non solo alla difficile situazione in cui versa l’Ortodossia russa, ma pure a quello della cristianità in quanto tale, di cui denuncia la paurosa “sterilità” sia culturale che spirituale. È inutile sottolineare quanto le analisi e le riflessioni presenti nei due saggi siano di grande attualità. Andrebbero accolte con molta attenzione soprattutto oggi, come puntuale messa a fuoco di quelli che dovrebbero essere tanto i presupposti che le vie di attuazione di una vera “nuova evangelizzazione”. Sta di fatto che alcune anticipazioni di tali analisi e riflessioni si trovano già nelle ultime lezioni che Florenskij nel 1921 tenne all’Accademia teologica di Mosca (successivamente soppressa dal regime sovietico), di cui Valentini ci offre un invitante assaggio (pubblicando il testo di quattro lezioni). Una traduzione completa del materiale delle lezioni si trova invece nel volume curato da Antonio Maccioni. Da quanto mi risulta, si tratta della prima traduzione di quest’opera così importante e ancora sconosciuta a molti.
Le venti lezioni del 1921, nella versione originale intitolate Il posto e i presupposti storico-culturali della concezione del mondo, rappresentano un gioiello che non può non attirare l’attenzione degli studiosi per diverse ragioni. Prima di tutto, offrono una densa sintesi di tutto il pensiero di Florenskij, delle sue originali intuizioni filosofico-teologiche ed epistemologiche, e toccano tutte le questioni riconosciute centrali per il suo progetto di ricerca: dai temi del senso della genealogia e della storia a quelli del significato metafisico dell’icona e del culto; da quelli della conoscenza e del simbolo a quelli del mito e del dogma. Al contempo, le lezioni sono un’eccellente introduzione alla conoscenza di quello che il loro Autore considerò il “compito” di tutta la sua vita: l’apertura di nuove vie per una globale concezione del mondo, poggiata sulle fondamenta della Weltanschauung cristiana. Quali sono le peculiarità di quest’ultima? Florenskij ne parla in ogni lezione, indicando il profondo nesso tra la concezione cristiana del mondo e la metafisica fondata sulla verità dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Egli la definisce “metafisica concreta” e la imposta sulla prospettiva dell’ontologia del simbolo, prendendo come punto di riferimento l’essere-simbolo della persona divino-umana e trinitaria di Gesù Cristo (cf. 135-141, 176-181, 190-193; l’idea di «Cristo come Simbolo» comparve già nella sua Zapisnaja tetrad’ [1904-1905], in E.V. Ivanova [a cura di], Pavel Florenskij i simvolisty, Jazyky slavjanskoj ku?tury, Moskva 2004, 411).
Va detto che l’ontologia del simbolo – intrinsecamente connessa con l’idea del “confine” tra i “due mondi”, intesa nei termini del realismo della teantropia cristica – definisce quello che è l’orizzonte d’interpretazione privilegiato proprio del pensiero di Florenskij e che, però, pur presente in molte opere (in particolare nella Filosofia del culto), spesso non viene colto o compreso a sufficienza, al punto che alcuni studiosi continuano a parlare di una questione aperta nel pensiero del nostro Autore: la congruenza e la virtualità «del pensiero platonico in rapporto all’espressione della novità e originalità della rivelazione cristiana» (P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011, 485). Tematizzando tale questione, Coda scrive: «Ma – mi chiedo – l’impianto platonico che egli [Florenskij] sposa con entusiasmo e senza riserve sin dalla giovinezza, è sufficiente a esprimere, e addirittura è del tutto conciliabile – come Florenskij sembra pensare –, con il novum rappresentato dall’evento dell’incarnazione? Si può ancora parlare in quel modo, in modo platonico appunto, di “due mondi”? E c’è ancora necessità di trovare un “confine” tra di essi?» (ivi, 485-496). Per rispondere a queste e altre simili domande non era certo necessario attendere la pubblicazione delle venti lezioni, così come non è necessario attendere la traduzione di un altro capolavoro di Florenskij, La filosofia del culto, dato che già altre sue opere dimostrano come il suo platonismo debba essere compreso come una sorta di cavallo di Troia. Desiderando introdurre nella “città” della cultura e della scienza russe dei suoi tempi – occupata dal positivismo e dal razionalismo – le intuizioni filosofiche, gli schemi e i concetti di pensiero forgiati alla luce della Rivelazione cristiana, egli scelse di rifarsi a Platone, filosofo ben noto in Russia, ma comunque poco studiato quanto alle potenzialità speculative delle sue intuizioni metafisiche. Florenskij mise a fuoco l’originalità e l’attualità di queste ultime, volendo preparare con ciò la via per giustificare la rilevanza filosofica e culturale del rivelarsi di Dio Trinità nella persona di Gesù Cristo. Chiaro è, come fece notare già il filosofo A.F. Losev, che Florenskij si spinse ben oltre la dualistica prospettiva dei “due mondi” platonici, adottando con convinzione – persino nella sua interpretazione del filosofo greco – l’orizzonte dell’Incarnazione (si veda P.A. Florenskij, «Non dimenticatemi», 324-325).
Torniamo però alle lezioni del 1921. Esse si rivelano preziose anche per la possibilità di una intelligenza più approfondita delle principali idee teologiche di Florenskij, tra cui quella dell’unità intrinseca tra fede e ragione e quindi tra scienza, filosofia e teologia. Un’unità da lui affermata nel nome dell’esistenza di una verità di dimensioni universali, ossia di un unitario e onnipresente spazio di oggettività veritativa al cui interno “funzionano” – trovandosi in un rapporto sinergico e di completamento – tutti i tipi di azione cognitiva. Nelle lezioni non possono mancare, però, i cenni critici alla situazione di decadenza della Chiesa russa. Riferendosi ad essa Florenskij scrive: «Parlando della Chiesa citiamo spesso le parole: “Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Ma nel farlo dimentichiamo che la questione riguarda la Chiesa di Cristo, non della Russia. […] L’intera Chiesa russa dei vertici non può andare da nessuna parte. Appartiene interamente a una cultura non ecclesiale. Da noi, essenzialmente tutti, finanche gli uomini ecclesiali, sono dei positivisti» (169).
Pur essendo questi i temi presenti nel materiale tradotto da Maccioni, sarebbe ingannevole pensare che il volume sia di agevole lettura. Ciò dipende non tanto dalla densità del pensiero di Florenskij, quanto dalla storia e forma redazionali del testo. Il volume, infatti, raccoglie il materiale delle lezioni del 1921 che, però, come ricordato da Andronik Truba?ev (cf. in P.A. Florenskij, So?inenia v ?etyrech tomach, vol. 3/2, Mysl’, Moskva 1999, 532), non è stato preparato direttamente da Florenskij. Il manoscritto originale delle lezioni – se mai fosse esito – è andato perduto. Quindi, il testo pubblicato prima in Russia e ora in Italia è una recente ricostruzione dei curatori russi (A.S. Truba?ev, S.V. Nikitin, S.M. Polovinkin), a partire dal confronto tra alcuni materiali ritrovati negli archivi (tra i quali un anonimo assemblaggio del testo delle lezioni e il quaderno dello studente Voronkov), di cui sono attribuibili a Florenskij, cioè scritti dal suo pugno, solo gli schematici appunti contenenti indicazioni sugli argomenti trattati. Maccioni dà solo una breve notizia delle scelte redazionali riguardanti il materiale pubblicato: dopo aver rilevato che il testo delle lezioni fu «con molte probabilità ricavato dal confronto tra due differenti versioni» (11), e puntualizzando che “copia conservata” richiama e trascrive un “secondo blocco”, egli aggiunge che i curatori russi hanno preso in considerazione altri “due quaderni”. Forse si poteva essere più espliciti e sottolineare con maggiore chiarezza che il “confronto” redazionale, la “copia conservata” e il “secondo blocco” – ai quali si fa riferimento – non sono riconducibili a Florenskij, ma ai suoi studenti (sono, infatti, i loro appunti!). Il lettore non sufficientemente attento a decifrare tali indicazioni, può essere indotto a considerare Florenskij autore del testo delle lezioni.
Quando, poi, si tratti del primo contatto con un’opera florenskijana, potrebbe comprensibilmente scaturire una certa esitazione di fronte ad alcuni passaggi, soprattutto laddove il discorso si presenta frammentato, nella forma propria degli appunti. Mi riferisco, per esempio, alla pag. 48, dove si dice: «La crisi della filosofia. Viene via il guscio, ma in essa c’è già qualcosa di nuovo. Bergson. James. La resistenza immanente al positivismo. La proclamazione dei primati della fede, dell’intuizione, della volontà noumenale sulla ratio. La frattura nella visione contemporanea del mondo. La complessità dell’essere. Il concetto di forma». Nel caso in cui invece ci sia già stata una frequentazione con le opere florenskijane, il lettore non può che porsi la domanda su dove sia andata a finire la maestria del talentuoso Autore di La colonna e il fondamento della Verità, per citare uno degli esempi della sua fine arte stilistica.
Viste tali caratteristiche del testo delle lezioni, è evidente la necessità di un adeguato apparato di note esplicative. Da un lato, perché il testo contiene, in forma molto densa, i complessi discorsi tessuti attraverso i più importanti termini del lessico florenskijano, con contenuti semantici davvero specifici; dall’altro, perché certe riflessioni dell’Autore, se non contestualizzate né spiegate nell’orizzonte complessivo del suo pensiero filosofico-teologico, possono lasciare perplessi e rappresentare una sfida, insostenibile anche per i lettori “di buona volontà”. Basti riferirsi, a titolo di esempio, all’interpretazione che Florenskij dà dell’Antico Testamento e della storia della salvezza, ricorrendo alla teoria dell’ereditarietà genetica (cf. 64-66); a quanto scrive della sua esperienza con le famiglie ebree (cf. 102); oppure alla sua idea del nesso tra la multicorporeità umana e la morte (cf. 210-211).
Nell’elaborare l’apparato critico, Maccioni si avvale ampiamente delle note dei curatori russi che propongono le altre varianti del testo delle lezioni, reperite tra i quaderni degli studenti. Allo stesso tempo cerca di dare un contributo alla soluzione di alcuni nodi irrisolti nell’edizione russa. Mentre, per esempio, i curatori non forniscono informazioni su un certo “Egil’on”, citato nella lezione XIX (laddove si parla delle complesse carte del cielo e della terra), Maccioni individua il nome di F. d’Aiguillon, il gesuita belga, matematico, autore dell’opera Opticorum libri sex philosophis juxta ac mathematicis utiles (cf. 201). Ancora: riguardo ai “complessi strumenti” di “Djuren” (citati nella lezione XX), lasciati senza sufficiente spiegazione dai curatori russi, Maccioni (cf. 204-206) rimanda ai congegni rappresentati in alcune opere di Albrecht Dürer (il meccanismo disegnato nella xilografia Il disegnatore del liuto; il meccanismo rappresentato nella xilografia Il disegnatore dell’uomo seduto). Altri simili e lodevoli tentativi di completamento delle note dei curatori russi si trovano alle pag. 118 (nota 31), 129 (nota 5), 186 (nota 7) e 199 (nota 16). Meno presenti, purtroppo, sono le note esplicative, che, data l’originalità e la non convenzionalità del pensiero e del linguaggio di Florenskij, avrebbero dovuto accompagnare il lettore lungo tutto lo sviluppo del discorso presente nelle lezioni; o almeno laddove la via della comprensione passa attraverso i territori minacciati dalla foschia di una certa ambiguità e dell’incomprensibilità.
Maccioni antepone al testo delle lezioni l’introduzione intitolata Filosofia della meraviglia. Lo stupore della visione e la concezione del mondo di Pavel Florenskij (cf. 7-33), in cui privilegia volutamente soltanto i temi riguardanti l’estetica e la filosofia dell’arte, facendo capire che sussistono molte altre questioni fondamentali nel pensiero dell’Autore. Visto che le lezioni del 1921 contengono una sintetica rilettura e riproposizione delle intuizioni-chiave di tutto il pensiero florenskijano, non sarebbe stato certo superfluo ricordare ai lettori che la prospettiva di approfondimento dei temi di ogni singola lezione è determinata da quel tipo di proposta interdisciplinare (con i suoi peculiari risvolti epistemologici) che Florenskij chiamò “concezione globale del mondo”. È inutile ribadire che tale proposta ha ancora oggi un’importanza di primo ordine. Essa andrebbe segnalata come una delle originali e stimolanti anticipazioni dei recenti progetti del cosiddetto “pensiero complesso”, e più concretamente come una versione cristiana di quest’ultimo, elaborata con l’utilizzo delle categorie metafisiche di valenza universale, in quanto “ricavate” dalla rivelazione di Colui per mezzo del quale “tutte le cose sono state create” (cf. 175-181).
Non intendo soffermarmi sulla qualità della traduzione del testo delle venti lezioni; riconosco che tradurre gli scritti florenskijani è compito assai arduo che, non di rado, mette i traduttori a dura prova (riesce a superarla meglio chi è più addentro alla terminologia e al pensiero di Florenskij). Il testo delle lezioni non fa eccezione. Lo si nota non appena si mettano a confronto la traduzione di Maccioni e quella di Claudia Zonghetti. Di un passaggio della lezione X, per esempio, Zonghetti propone questa traduzione: «In un ritratto il volto è l’idea della persona. L’icona. Il volto è l’idea di chi è raffigurato» (Florenskij, Bellezza e Liturgia, 73). La traduzione di Maccioni dello stesso brano è, invece, la seguente: «Il sembiante [lik] nel ritratto è l’idea di un dato volto. L’icona. Il sembiante è l’idea di una data persona» (126). Chi dei due è più vicino al vero? È difficile supporre che il “lettore comune”, non esperto cioè di lingua e filologia russa, sia in grado di dare da solo una risposta: cosa che però sarebbe auspicabile almeno da parte degli specialisti in materia.
Tratto dalla rivista Lateranum n.2/2012
(http://www.pul.it)
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