Le tecniche della nonviolenza
(Piccola biblioteca morale)EAN 9788863570267
Hanno il passo preciso e continuo di chi conta le distanze in giornate di cammino e l’urgenza delle parole penultime con cui condensare esperienze, queste pagine di Aldo Capitini pubblicate nel 1967 da Giangiacomo Feltrinelli, successivamente rieditate da Linea d’ombra e ora nuovamente disponibili per le Edizioni dell’Asino, che riuniscono alcuni tra i più importanti cantieri della riflessione e azione sociale italiana contemporanea: la rivista diretta da Goffredo Fofi Lo Straniero, l’associazione Lunaria coordinata da Giulio Marcon e l’agenzia di stampa Redattore sociale della comunità di Capodarco. Parole penultime perché Capitini sarebbe morto l’anno successivo, intravedendo solo gli albori dell’enorme fase di cambiamento italiano e globale di cui aveva contribuito a creare presupposti e riferimenti teorici e pratici. Teoria e prassi sostanziano le pagine di quello che rappresenta a tutti gli effetti un manuale della nonviolenza («estremamente concreto e per certi aspetti simile come “genere” ai “manuali di guerriglia” che circolavano in quegli anni, soprattutto dopo il Sessantotto, ma ovviamente opposto nella vocazione », scrivono nella prefazione i curatori), insegnano innanzitutto «a scrivere nonviolenza in una sola parola», trasformando «il significato negativo che c’era nello scrivere non staccato da violenza» e costruendo «l’interpretazione della nonviolenza come di qualche cosa di organico e dunque di positivo». Organico e positivo, disciplina e creatività. La nonviolenza è un caso serio dell’esperienza del XX secolo, pur affondando in filosofie ed esperienze ben più antiche: richiede rigore personale, tecnica (intesa non in senso positivista, quanto come metodo, via) e l’apprendimento di quella «disciplina di ferro, non imposta dal di fuori, ma sorta naturalmente dal di dentro», come esprimono e incarnano queste parole di Gandhi. Scrive Capitini in una delle pagine più dense del volume: «Non si insisterà mai abbastanza, specialmente in presenza di mentalità superficialmente legalistiche, farisaiche, intimamente indifferenti, che la nonviolenza è affidata al continuo impegno pratico, alla creatività, al farequalche cosa, se non si può far tutto, purché ogni giorno si faccia qualche passo in avanti». Tutto questo non si abbandona mai al fondamentalismo, quanto piuttosto al coraggio di osare strade nuove di fronte alle logiche serrate del conflitto, di fecondare conoscenza ed esperienza alla luce dell’incontro con l’altro, con il tu che, nella prospettiva capitiniana di rilettura del personalismo verso una religione aperta, non cessa d’interrogare l’io. Il corpo centrale del testo è dedicato all’analisi delle varie forme di nonviolenza finora attuate: tecniche individuali come il digiuno, la preghiera, il superamento della logica della vendetta, il vegetarianesimo, il dialogo, la stessa croce di Cristo. Nel crinale di passaggio tra tecniche individuali e collettive, Capitini situa tutte quelle azioni che rispondono al principio di noncollaborazione e di obiezione di coscienza: in primo luogo, il rifiuto delle armi e il servizio civile nazionale e internazionale. Infine il filosofo umbro presenta le tecniche collettive: è in questa parte che incontriamo esempi e storie dell’Italia che non si accontenta di essere Italietta. La prima marcia per la pace Perugia-Assisi del 1961 – che lo stesso Capitini ideò –, oppure lo «sciopero a rovescio» nel 1956, in cui un gruppo di operai, guidati da Danilo Dolci, costruirono volontaome riamente una strada rimasta abbandonata, a esprimere con tutta la forza possibile il significato del lavoro per una Repubblica costituzionalmente fondata su di esso. Boicottaggio, sabotaggio e disobbedienza civile senza attentare alla vita delle persone, sit in in strade, tram, treni, università, carceri, costituiscono per Capitini tecniche nonviolente, al pari di una piena e rinnovata educazione, «con lo scopo di preparare a partecipare nel modo meglio informato e più attivo alla complessa vita della comunità e al miglioramento continuo, senza violenza, delle sue strutture sociali e giuridiche». Nell’ultima parte del volume, Capitini descrive gli elementi ideologici e psicologici di quello che si configura come un vero «addestramento alla nonviolenza» con lo scopo di apprendere quelli che egli individua come gli elementi cardine della persona nonviolenta: l’amorevolezza, la conoscenza e soprattutto la coraggiosa pazienza. E infine il filosofo tratteggia il ritratto delle battaglie pacifiche condotte da Gandhi e da Martin Luther King in India e negli Stati Uniti, la resistenza in massima parte nonviolenta da parte della Norvegia contro l’occupazione nazista e i primi anni di lotta anti-apartheid in Sudafrica. Chiudendo il libro, ci si domanda cosa Capitini avrebbe scritto degli avvenimenti a lui successivi: come avrebbe riletto la contestazione studentesca e le Brigate rosse, il ripiegamento sul privato degli anni Ottanta, il crollo del Muro e il dogma neoliberale della «fine della storia», fino ai conflitti mediorientali e balcanici, all’aprirsi di una nuova fase di contestazione globale, di convinzione di un’alternativa possibile, quasi afferrata, che invece dal 2001 in poi, da Genova alle Torri gemelle, vediamo cadere nell’oblio. Le ultime righe del libro ci riportano in Europa, in Italia: Capitini chiude con l’amara lucidità di chi riconosce che dopo due guerre mondiali – ma forse anche oggi, dopo due guerre del Golfo, potremmo aggiungere noi – «l’Europa si è trovata nei decenni di questo secolo non preparata e non matura a sviluppare le tecniche della nonviolenza, ad applicarle con esattezza e tensione collettiva». Non per questo il discorso sulla nonviolenza può essere archiviato: anzi, «non vale il fatto che la violenza c’è sempre stata nel mondo, per farla accettare. (…) Il proposito di praticare la nonviolenza torna tenace alle coscienze di oggi, come fosse il “parto storico” di questi decenni; e la coscienza si sente sempre più persuasa nel rifiutarsi a praticare la guerra, la guerriglia, la tortura, il terrorismo, per qualsiasi ragione; e più che l’abitudine del passato, vale il proposito per l’avvenire». La persuasione diventa per Capitini parola per esprimere la personale profonda convinzione della non negoziabilità della scommessa sulla nonviolenza, pena il perdere la propria e altrui umanità: «Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta. (…) Io so che gli ostacoli saranno sempre tanti, e risorgeranno forse sempre, anche se non è assurdo sperare un certo miglioramento. A me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore e di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione, del mio atto, che, anche se non è visto da nessuno, ha il suo peso alla presenza e per la presenza di Dio. E (…) in questa stessa lotta, in questa stessa affermazione, sento una serenità superiore, una presenza che mi redime dalla mia finitezza».1 La nonviolenza è – scriverebbe forse Italo Mancini, ricordando Dietrich Bonhoeffer ed Ernst Bloch – condannata a essere fedele al cielo e alla terra. «Fine di un mondo e inizio di un altro» – ci esorta ancora oggi Capitini –, «escatologia»…
Tratto dalla rivista Il Regno n. 2/2010
(htto://www.ilregno.it)
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