Se v’è un pensiero non sistematico cui corrisponda una ricca densità teoretica, esemplare pare essere quello della filosofa andalusa María Zambrano (1904-1991), non da pochi ritenuta una fra le maggiori pensatrici contemporanee. A renderla nota in Italia fu, quasi vent’anni fa, Massimo Cacciari, che propiziò per Feltrinelli (1991) la prima edizione italiana dei Chiari del bosco, una delle opere più enigmatiche. Eppure, se anche non sistematica, la sua filosofia, nel transitare fra registri stilistici essenziali e una espressività intessuta di suggestioni, scruta i più problematici orizzonti filosofici, capovolgendo l’heideggeriana riflessione sull’essere per la morte in essere per la nascita, la ragione astrattiva in ragione poetica, innestando il divino nel sacro, l’etica nell’estetica – temi singolarmente esplorati dai suoi interpreti in numerose monografie. Lo sguardo di Silvano Zucal, proprio a partire dalle peculiari categorie della filosofia zambraniana, passando dall’impegno politico e intellettuale della pensatrice (cfr. pp. 7-21 e 94-108) in una Spagna divisa tra franchisti e repubblicani, specchio di un’Europa sull’orlo del baratro, alla sua riflessione sui totalitarismi e sulla vocazione politica, meditando i temi dell’aurora del pensiero, della parola (pp. 22- 32) e della persona (pp. 73-93), e ancora indagando la dialettica fra sacro e divino (pp. 108-137), sviluppa un’originale interpretazione “dialogica” che conferisce alla lettura di Zambrano un fondamento filosofico-teologico.
Si tratta di quel fiume carsico del “pensiero dialogico” da anni esplorato da Zucal nel suo fronte d’Oltralpe – in autori come Martin Buber, Franz Rosenzweig, Romano Guardini, Ferdinand Ebner – che tocca anche María Zambrano, e del quale ha affrescato una sintesi nel volume Lineamenti di pensiero dialogico (Morcelliana, Brescia 2004). Là già presente come voce per la Rivelazione e nascita della parola (pp. 11-28), qui Zambrano diventa protagonista della parola come categoria del “dirsi” e del “darsi”. Nella parola l’uomo si dà all’altro, e in questo modo la parola si fa “dono”. In questo libro Zucal teorizza una filosofia del linguaggio nella quale Zambrano sarebbe acuta «diagnosta, profetessa e terapeuta» di quella «deriva della parola come cifra decisiva della storia dell’Occidente filosofico» (p. 11). L’operazione di Zucal si spinge oltre la ripetuta definizione di ragione poetica da opporsi alla ragione filosofica, e riconduce il pensiero di María Zambrano alla dimensione aurorale della parola. Una funzione quasi rabdomantica della filosofia, capace di cogliere il senso dell’essere nella fecondità della parola: parola che diventa luogo teoretico del rivelarsi dell’io nell’altro – una rivelazione dove in gioco è la persona, una «promessa di realizzazione creatrice». La parola non è luogo del suo manifestarsi come in un’oggettività simmetrica, ma luogo di un rivelarsi che rompe con l’univocità, urta con la convenzionalità del linguaggio, facendo germinare nuovi sensi: «quando ci si accosta al prossimo come persona si spera sempre in lui, si attende che quella promessa si realizzi davvero», rare sono le «persone viventi», esse «sanno pronunciare parole che assomigliano al silenzio e abitano “silenzi sonori”» (p. 93). È una risposta al nichilismo di parole e ragione chiassose ma ammutolite dal non-senso (dal non sentire) di una sterile razionalità: «quando l’uomo tradisce se stesso indossa una maschera» (p. 93).
Partecipare della trascendenza per Zambrano è, invece, essere «trasparenti a se stessi», e pensare è anzitutto «decifrare se stessi», in un incessante intrecciarsi «tra la passività e il conoscere, l’essere e la vita». I grandi sistemi di pensiero, le argomentazioni della filosofia spesso soffocano le ragioni del cuore, quelle ragioni provenienti dall’oscurità non discorsiva delle viscere, ma non per questo meno forti. Tradurle in linguaggio significa riscattare la relazione io-altro nella parola e dar voce a quella trascendenza patita sin nelle viscere: una passività condivisa nella relazione con le altre creature. La passività in Zambrano è un luogo teoretico dirimente, approfondito nel capitolo La “passività” del Verbo (pp. 50-72): è luogo aurorale, perché dal patire come condizione esistentiva, e filosoficamente come condizione ontologica dell’uomo, si genera senso. Nella dimensione della relazione orizzontale io-l’altro si annuncia la dimensione verticale con un’alterità trascendente: è il sacro di cui l’altro è segno, e che dà traccia visibile di sé nell’arte. Ecco perché la sua riflessione estetica va ben oltre la critica d’arte e si inoltra in sentieri più propriamente filosofici e teologici come metafora della nascita del sacro – nelle raffigurazioni di buffoni, idioti, personaggi storici destituiti di regalità, nello studio della luce come segno della pietas (su questi aspetti cfr. la monografia di Nunzio Bombaci, La pietà della luce. María Zambrano dinanzi ai luoghi della pittura, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007). In María Zambrano si scorge una dimensione teologica che ha un volto cristocentrico, sondato da Zucal nel capitolo conclusivo Il Cristo come il Verbo “inaudito” (pp. 138-160), dove l’interpretazione giovannea del Logos – «In principio era il Verbo» – conferma che «questa dimensione di principialità è sempre fondamentale per la pensatrice spagnola, filosofa (per antonomasia) dell’Originario e della Nascita» (p. 138).
Una profondità teologico-sapienziale che affonda nei mistici, da lei tanto studiati ed evocati: soprattutto san Giovanni della Croce e santa Teresa D’Avila, esempi di “guide” spirituali. Non a caso nella Postfazione Annarosa Buttarelli, studiosa del pensiero zambraniano, ha evidenziato la centralità, accanto ai grandi “dialogici” come Guardini ed Ebner sottesi a questo percorso, «del maestro sapienziale per eccellenza, del Cristo umano-divino cui l’autore dedica le pagine riconoscenti e conclusive del suo studio» (p. 163) – quasi fosse un’indicazione di lettura con cui fruire dell’itinerario interpretativo delineato da Silvano Zucal. Una lettura che senz’altro si inserisce, secondo Buttarelli, nell’àmbito dei suoi studi di fenomenologia del linguaggio, ma che si intreccia anche all’interesse etico-politico dell’autore: se impegno politico è ricerca «di una pratica efficace di dialogo con l’altro», in fondo, a questo orizzonte è riconducibile il senso stesso dello scavo di Zucal sull’opera di María Zambrano. Un’indagine che, forzando un poco la lettera di Zucal, potrebbe tradursi in un esercizio filosofico-politico inteso come dialogo autentico fra l’uno e l’altro, ma per “amore della differenza”.
Tratto dalla rivista Humanitas 64 (4-5/2009) 838-840
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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