Pagine che si leggono quasi in apnea, senza prendere fiato, queste di Sabino Acquaviva. E utili perché provocanti. Pagine di rivolta, capaci di rivoltare gli schemi, che ci aiutano a non subire il rischio di una damnatio memoriae esistenziale ed etica, nella misura in cui quotidianamente continuiamo a chiederci, come antidoto alla cronica impercezione nei confronti dell'altro, per che cosa desideriamo essere ricordati. Non siamo di fronte a un libro di etica. Non vi è la preoccupazione di offrire indicazioni etiche su eutanasia, direttive di fine vita, obbligo di rianimare/idratare/nutrire... Eppure questo testo è "etico", in quanto richiama tutti al Senso di una direzione, che spesso scordiamo di cercare e di perseguire. Se si vuole, è un libro sull'Eterno che - dalla finestra assente di una stanza d'ospedale - fa capolino nel nostro Tempo determinato, chiuso, delimitato, scadente perché già apparentemente pre-fissato. Un tempo desideroso di giustizia, di riscatto, di parola finalmente ascoltata. E allora, la parola finale, non detta ma evocata, non è solo ‘eternità' verso cui si tende, e nemmeno ‘giudizio' verso il passato da cui si fugge. La parola non detta, capace di riconciliare i tempi con l'eterno, il singolo con gli altri, è finalmente un'altra: gratitudine. Grati a Sabino Acquaviva, per aver dato cuore e bocca all'altro. Grati e così capaci di guardare con occhi diversi le persone, senza lasciarci sfuggire l'occasione di intravedere, dietro i mille legacci fisici e invisibili che le attorcigliano, un mistero da conoscere, e per il quale essere, qui e ora, riconoscenti.(Dalla Postfazione, di Giovanni Pernigotto)