Cara Valeria
-Lettere sulla fede
(Orizzonti) [Libro in brossura]EAN 9788860890252
Difficile distinguere la suggestione della lettura dalla condizione dell’a., studioso di filosofia e handicappato. In una serie di ventiquattro lettere rivolte a un’amica si argomentano in forma piana le domande relative alla fede, e alla fede cattolica in particolare. Dove nasce la fede? Chi sono i suoi testimoni? Quale ruolo ha la Chiesa? Come risponde alle domande del cuore e della mente? Esperienze di vita, richiami alle persone, rimandi di approfondimento a teologi e filosofi, storie familiari, richiami storici e ambientali: tutto concorre a scolpire una sensibilità spirituale poco prevedibile e ricca dell’apporto di molte tradizioni.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 12/2008
(http://www.ilregno.it)
Chi è Valeria? È un’amica nel senso alto del termine. L’amicizia è una realtà umana che non è data subito, è una condizione che si conquista e, per definizione, non la si raggiunge mai da soli. Essa trova nel dialogo un suo alimento base. Queste lettere raccontano perciò un cammino di amicizia. Tuttavia resta il fatto che, per un lettore, il testo non si presenta come un epistolario. Non ci si trova di fronte alla situazione in cui c’è una lettera inviata a cui segue la risposta e così via. Ci sono due interlocutori, ambedue interagiscono in prima persona; il libro però è costituito solo dall’insieme di lettere «a Valeria». Vi è comunque una differenza non lieve rispetto a un genere letterario-pedagogico ormai fin troppo diffuso (lettera a mio figlio su questo, su quell’altro...). In questi casi la forma della comunicazione è davvero asimmetrica: chi scrive deve impartire qualche insegnamento a chi riceve. In Cara Valeria le cose stanno in modo diverso. I testi qui raccolti vogliono, come è proprio di ogni lettera, comunicare qualcosa; essi, però, non si muovono sul piano della pedagogia o dell’insegnamento. Si tratta piuttosto dell’eco di un dialogo effettivo in cui l’ascolto degli interventi altrui diventa sempre più incisivo: le parole di Valeria sono poche, ma, con il passare delle pagine, esse emergono in maniera sempre più incisiva. Per quale ragione avviene ciò? Un lettore è indotto a pensare, per ricorrere a un’espressione del card. Martini, che il testo rappresenti anche un dialogo con il «non credente che è in noi». Ciò non va inteso nel senso che Valeria abbia la funzione strumentale di non credente messa in campo solo per stimolare le risposte del credente Piergiorgio. Si tratta piuttosto di un dialogo, stimolato da parole sia interne sia esterne. Questo tipo di colloquio rappresenta un momento indispensabile perché la fede maturi e divenga capace non solo di ascolto ma anche di domande. La fede incapace di interrogarsi può, all’apparenza, sembrare granitica, in realtà è timida e paurosa. L’autore utilizza spesso in proposito la parola «dubbio». Qualcuno potrebbe trovarlo un termine non del tutto appropriato; tuttavia, a ben vedere, «dubbio» indica qui proprio la capacità di interrogarsi e di interrogare. Per questo Valeria, oltre a essere una persona reale, è anche una voce interiorizzata. La forma di lettere scritte da una parte sola fa sì che l’interlocutore diventi un’eco perenne che coinvolge pure il lettore. Cara Valeria è un libro che fa pensare. Ci sono pagine che, all’origine, non volevano essere lettere. Diventano però tali quando il lettore avverte quegli scritti come se fossero indirizzati proprio a lui. Non si resta mai indifferenti quando si può esclamare: «Queste righe sono state stese per me». Nell’ambito della fede si tratta di un’esperienza coinvolgente e, relativamente parlando, frequente. Ciò avviene non solo quando si tratta dei libri della fede, ma anche, sia pure in maniera giustamente minore, quando si tratta di scritti sulla fede. In quest’ambito un suo piccolo, quanto qualificato, spazio ha anche Cara Valeria. Nel libro, oltre a Valeria e Piergiorgio, compaiono vari altri personaggi. In parte sono persone direttamente conosciute dall’autore (come per esempio Paolo De Benedetti), altre sono figure filtrate attraverso parole diventate lettere rivolte a Piergiorgio. A questa seconda categoria appartiene sicuramente Sergio Quinzio. Ogni volta che si recita il Credo si proclama: «aspetto la risurrezione dei morti». Non si ripete «credo», si dice «aspetto». Tuttavia si ha l’impressione di trovarsi per lo più davanti a una formula destinata a incidere poco o nulla nella vita dei credenti. Ma quando uno si rende conto che quella parola è stata annunciata per lui, l’orizzonte muta radicalmente. Il discorso sulla fede presente nel libro acquisisce una grande intensità intorno alla parola risurrezione. In un passo di Cara Valeria è scritto: «Per i cristiani la morte non è mai qualcosa di naturale» (138). Obiezione: vi è qualcosa di più naturale della morte? Ci sono infinite ragioni per rispondere negativamente alla domanda. Tutto, da che mondo è mondo, si regge sul ciclo ininterrotto di nascita e, quindi, di morte. Nulla più della morte è inscritto nell’intimità della natura. Eppure la frase citata è assolutamente pertinente al dire e al credere del suo autore. Su questo tema due sono le note più ribattute. La prima si ricollega alla parola «amore ». Piergiorgio dichiara più volte che l’amore vero rompe il cerchio dell’egoismo. In questo senso esso non è naturale se, per natura, intendiamo l’insieme di regole che si ripetono in modo inesorabile e in cui è costante l’affermazione del più forte sul più debole e in cui l’egoismo, a tutela di sé o per la propria prole, è norma indefettibile. Tutto ciò che, nell’esistenza umana, si muove in una logica contraria a quella ora annunciata, attesta, contemporaneamente, il valore del nostro esistere e il bisogno che la vita, cara e buona, sia salvata. La seconda nota che spiega perché la morte è innaturale consiste nella forte percezione dell’inaccettabilità del male. Perché il male fa scandalo? Potrebbe essere considerato un fattore necessario conforme alla natura: l’uomo è «tristo». Occorre difendersi e prendere semplicemente atto che le cose stanno così. Gli uomini agiscono male perché la loro è una natura non buona. La volontà di rompere lo schema è semplice illusione. Perciò la constatazione che si dica no al male, inteso nel senso più ampio del termine, attesta, di per sé, il bisogno, non meno radicale di quello dell’amore, di affermare che al sopruso e alla morte non è riservata l’ultima parola. La nostra sorte mortale non è prospettiva né da cancellare né da accettare così com’è. In sintesi, questo è il punto in cui Cara Valeria riverbera maggiormente la lettera scritta da Sergio Quinzio a Piergiorgio. Ciò non toglie che nel libro ci sono anche forti accentuazioni personali, ricordi autobiografici, valenze che esprimono la propria sensibilità e le proprie esperienze: la famiglia, le feste, i nipoti, i ricordi d’infanzia, i giorni e le notti dei lunghi soggiorni estivi in Val di Non (…). La fede e la speranza non sono vissute a prescindere dalle proprie condizioni di vita, al contrario si colgono dentro di esse. Un tasto indimenticabile di Cara Valeria è la sobrietà con cui l’autore parla della propria condizione di vita. Il tema è praticamente consegnato a una sola lettera, la sedicesima. Di queste pagine va sottolineato un aspetto. Qui le lettere sulla fede diventano anche uno scritto sulla laicità o, per ricorrere a un’altra espressione del card. Martini, in Cara Valeria vi è anche spazio per una specie di «cattedra dei non credenti». Ciò accade quando il giovane autore, nell’unico squarcio autobiografico incentrato sulla propria distrofia muscolare, ci racconta che i laici lo hanno sempre considerato un essere umano con i suoi difetti, i suoi pregi, lo hanno giudicato e trattato come una persona paragonabile a loro; di contro, nel mondo cattolico, in passato ma, in parte, anche ora, è emersa una tendenza a far appello a un uso strumentale dell’amore, a dar corso a un investimento utilitaristico della sofferenza: tu sei chiamato a dare testimonianza, nonostante la tua condizione credi in Dio, sei sereno e avanti così. Piergiorgio ha sempre rifiutato queste offerte e preso le distanze dalla carità pelosa. Il problema centrale resta quello del dolore, non quello del proprio dolore. Nel libro si parla del problema della sofferenza del mondo, ma non lo si fa partendo dalla propria condizione. L’autore parla del dolore partendo da quello altrui: si tratta di un insegnamento prezioso. Non solo. C’è un altro elemento che diventa una grande testimonianza: in Cara Valeria viene resa centrale la dimensione della gioia altrui. Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto » (Rm 12,15). Il monito legittima entrambi gli atteggiamenti, ma non lo fa pensando all’alternanza di cui parla, con distacco, Qoèlet: «un tempo per piangere, un tempo per ridere » (Qo 3,4). In Paolo gioia e dolore sono momenti compenetranti. Ciò avviene perché la dimensione portante è quella dell’«altro»: si è chiamati a conformarsi alla gioia e al dolore altrui. Quanto è decisivo non è tanto il gioire quanto il con-gioire, non è tanto il piangere quanto il con-piangere. Nel libro di Piergiorgio c’è certamente Valeria, ma c’è anche Nicola, l’amico di sempre. L’arco di un anno e mezzo lungo il quale si distendono le lettere è segnato dall’annuncio delle nozze tra Nicola e Valeria, dalla celebrazione del matrimonio di cui Piergiorgio fu uno dei testimoni e dalla descrizione del periodo a esso immediatamente successivo. Il riferimento a quelle nozze è una costante. Tutte le ventiquattro lettere sono legate al con-gioire e in ciò è racchiuso uno dei messaggi fondamentali di Cara Valeria.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 14/2008
(http://www.ilregno.it)