Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah
(Saggi)EAN 9788860302601
Finalmente, dopo quarant’anni, possiamo stringerci la mano e guardarci negli occhi. Finalmente due famiglie si ritrovano», affermava il 9 maggio la vedova del commissario Luigi Calabresi, incontrando Licia Rognini, moglie di Giuseppe Pinelli, nella Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Esempio italiano dell’attualità del rapporto – spesso doloroso – tra storia, memoria e giustizia: fili che s’intrecciano in un nodo gordiano di difficile dipanatura. Tra gli studiosi che si propongono di affrontare questi interrogativi, uno dei più noti e acuti è Antoine Garapon, magistrato, segretario generale dell’Institut des Hautes Etudes sur la Justice di Parigi e membro del comitato di redazione della rivista Esprit, già autore di importanti volumi.
Esce ora per il pubblico italiano l’ultimo testo dello studioso francese, pubblicato in Francia nel febbraio dello scorso anno. Un saggio che unisce considerazioni di stringente attualità all’analisi storica dell’evoluzione del diritto dalla modernità alla contemporaneità, da Westfalia alla Corte penale internazionale. La domanda attorno a cui ruota il testo («si può riparare la storia?») riassume in sé la questione delle modalità con cui affrontare il passato che non passa (secondo la formula di Henry Rousso), delle scelte politiche e giudiziarie che le istituzioni civili devono affrontare al termine di guerre, dittature, genocidi, ma anche delle vie con cui i cittadini possono ricostruire una comunità politica lacerata da conflitti e divisioni che attraversano case e strade. Da qui l’urgenza di una giustizia non più unicamente «retributiva», in cui al reato corrisponda una pena: come, infatti, dopo il genocidio ruandese, processare un’intera nazione? E, parallelamente, in che modo evitare che la giustizia appartenga ai vincitori, come avvenne a Norimberga e Tokyo? Proprio queste corti segnano, secondo Garapon, il primo atto della giuridicizzazione della storia.
I limiti di una giustizia diretta e di una storia scritta da coloro che in guerre e regimi hanno prevalso sono apparsi con tutta la loro forza nella seconda metà del Novecento. I processi a Maurice Papon e Klaus Barbie in Francia e a Erich Priebke in Italia hanno catalizzato aspre polemiche, mostrando l’attualità del dibattito sui crimini della seconda guerra mondiale, sul collaborazionismo e sull’amnistia, e – in ultima istanza – sui totalitarismi stessi di cui gli anziani personaggi alla sbarra costituivano gli ultimi simboli. Non è un caso che gli anni dal 1939 al 1945 segnino un crinale fondamentale anche in campo giuridico: per Garapon «il trauma costituito dalla Shoah si è trasformato progressivamente in una vera forza creatrice» che ha ridisegnato l’idea stessa di giustizia. La Shoah mostra l’impasse del diritto moderno e segna l’emergere dei crimini contro l’umanità e del principio della responsabilità individuale: un nuovo individualismo storico, spiega lo studioso, che spezza l’hegelismo presente nelle grandi narrazioni che hanno segnato il XIX secolo, marxismo e nazionalismo in primis. Nel corso della guerra fredda e in particolare nella nuova fase che si apre con la caduta del muro di Berlino gli interrogativi sul rapporto tra storia e giustizia assumono nuove forme e provenienze. La decolonizzazione e la globalizzazione aprono il campo a nuove forme di giustizia provenienti dall’America Latina, dall’Africa e dall’Asia. L’eurocentrismo viene scalzato anche in campo giuridico. Si afferma la giustizia «ricostruttiva», «restaurativa», fondata sulla testimonianza delle vittime, sulla creazione di una memoria condivisa sul passato, sul riconoscimento di riparazioni e sull’applicazione di misure politiche ed economiche che contrastino le disuguaglianze sociali.
La riconciliazione della nazione si accompagna, nella giustizia di transizione, all’urgenza di «riparare i crimini del passato». Un passato sempre di più affrontato e rivendicato in una prospettiva di lunga durata, come nel caso dei dibattiti sulla colonizzazione e la schiavitù. Se alcune ragioni storiche di conflitti contemporanei sono riconducibili al dominio europeo e alla tratta degli schiavi, paesi e minoranze immigrate in Europa esigono riparazioni monetarie, disposte anche a battersi nelle aule giudiziarie. In queste richieste anche il mestiere dello storico viene posto sotto processo, non solo metaforicamente. L’esempio più noto è quello della denuncia – poi ritirata – ai danni dello studioso francese Olivier Pétré-Grenouilleau che, nel suo volume La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, negava alla tratta atlantica il carattere di crimine contro l’umanità, come invece afferma in Francia la legge Taubira. Garapon inquadra il dibattito ricostruendo storicamente l’origine e l’evoluzione dell’idea di riparazione.
Al registro penale, che assegna al reo una pena, si affianca un riconoscimento monetario sancito dal diritto civile. Queste richieste si scontrano con tre ordini di elementi critici: in primo luogo, le riparazioni appaiono difficilmente quantificabili e soprattutto, aggiunge Garapon, «infinite»; in seconda istanza, esse si dispiegano «a senso unico»; infine rischiano di rivelarsi politicamente improduttive di fronte al possibile accentuarsi di divisioni, in quella che viene definita la «concorrenza delle vittime». Lo studioso analizza con profondità i limiti dell’equivalenza monetaria, ma al tempo stesso riconosce valore alle riparazioni come mediazione e strumento terzo per dirimere conflitti. La scommessa fondamentale appare dunque il difficile equilibrio tra «la giustizia dei beni e il riconoscimento degli uomini», tra i riconoscimenti monetari e il loro significato politico. Nella sovrapposizione tra storia e giustizia, Garapon propone la centralità di una sfera differente. La richiesta di indennizzi mostra infatti l’emergere di un nuovo spazio politico: il mondo.
Il mondo, continua l’autore, inteso come spazio finito, in un’era in cui non esistono più terre da conquistare, e come riferimento in cui ripensare e ridefinire la coesistenza umana. La sfida ultima, profilata nella conclusione del volume, non è dunque un’ipertrofia della storia o del diritto, ma la necessità di costruire politiche di giustizia che sostanzino le richieste di perdono e la ricostruzione del passato. Il fine, dopo l’«age of apology», deve essere la costruzione di una comunità politica in cui convivano «discendenti degli schiavi e discendenti dei negrieri», figli di collaborazionisti del regime di Vichy e di ebrei, eredi di colonizzatori e colonizzati. Una coesistenza maturata non all’interno di rivendicazioni identitarie, ma piuttosto in relazioni di mutuo riconoscimento (quella reconnaissance mutuelle di cui scriveva Paul Ricoeur). Un vivere insieme nella dimensione politica, senza sacrificare tutto in nome di essa.
Tratto dalla rivista Il Regno n. 20 del 2009
(http://www.ilregno.it)