Figure filosofiche della modernità ebraica
(Mediterranea)EAN 9788860261755
Primo volume di una collana intitolata «mediterranea», il libro di Stéphane Mosès (1931-2007), nella versione italiana a cura di Ottavio Di Grazia, raccoglie le sei conferenze tenute dal filosofo ebreo presso la cattedra Etienne Gilson dell’Istituto Cattolico di Parigi nel gennaio del 2006. Rispetto all’edizione francese, pubblicata per Les Editions du Cerf a Parigi nel 2011, questo volume italiano si distingue per la scelta, condivisibile, di omettere al termine di ogni lezione il dibattito che ne era scaturito.
Diciamo subito che questo suo carattere, in parte estemporaneo, rappresenta anche il limite principale del volume stesso, il quale, se da un lato esibisce alcune folgoranti intuizioni teoretiche e storiografiche del pensiero di Mosès, dall’altra mantiene quei tratti acerbi dell’oralità che nel complesso non rendono giustizia alla vigorosa e brillante pagina del Mosès scrittore quale, ad esempio, emerge in L’eros e la legge: letture bibliche (Firenze 2000) oppure in Al di là della guerra: tre saggi su Lévinas (Genova 2007). Limite che in questo caso è accentuato sia dal fatto che lo stesso Mosés non poté revisionare il testo originale, sia ancora perché l’edizione italiana è inficiata, spiace rilevarlo, da tali e tanti refusi tipografici che a volte la stessa lettura ne viene scoraggiata. Ciononostante, il libro presenta non pochi meriti che qui cercheremo di sunteggiare.
Intanto esso rappresenta una sorta di «summa» del pensiero e del lavoro critico di Mosés, il quale non solo è stato uno dei grandi divulgatori del pensiero di Lévinas, ma ha svolto pure una fondamentale opera di mediazione e interpretazione della cultura ebraico-tedesca. Si pensi solo alla fondazione del Franz Rosenzweig Research Center for German-Jewish Culture and Literary History, ancora oggi uno dei centri d’eccellenza dell’Università ebraica di Gerusalemme. In secondo luogo, sia la Prefazione di Philippe Capelle-Dumont (pp. 19-26) che l’Introduzione dello stesso Di Grazia (pp. 5-16), sono essenziali per comprendere queste pagine che, nella sostanza, affrontano la crisi della metafisica classica da una prospettiva completamente originale.
La prima «lezione», che considererei introduttiva e fondamentale (pp. 27-42), è dedicata all’esposizione di due categorie storiografiche e teoretiche del «moderno» rivendicate e messe a punto dallo stesso Mosés: la «modernità normativa» e la «modernità critica». Si tratta di una duplice chiave di lettura applicata alla produzione di una generazione di studiosi che avevano pagato sulla propria pelle il distacco dei padri dalla tradizione classica dell’ebraismo. Da qui la messa in discussione di un’educazione che li aveva lasciati privi degli strumenti fondamentali per la comprensione e l’elaborazione della loro identità. Com’è noto, infatti, a partire dall’Illuminismo, e in ambito ebraico dopo Moses Mendelssohn (1729-1786), quest’insieme coerente di risorse a cui attingere per declinare il proprio orientamento nella vita è venuto meno.
Le varie sfaccettature dell’ebraismo «liberale» o «riformato», la netta separazione fra dimensione religiosa e politica, nonché la nascita di una vera e propria ri-lettura critica della tradizione ebraica (Wissenschaft des Judentums) avevano contribuito a spingere gran parte dell’ebraismo continentale verso l’assimilazione. Un’assimilazione che aveva allentato o addirittura spezzato le modalità vitali di alimentazione della propria identità ebraica e a cui appunto reagiscono a loro modo personalità quali Rosenzweig, Kafka o Scholem. Da un lato vi è il tentativo di risalire contro corrente alla ricerca delle fonti autentiche dell’ebraismo per riscriverle in forme totalmente inedite («modernità normativa» di cui esempi possono essere Cohen, Buber o Lévinas) e, dall’altro, la convinzione invece che il legame tra esperienze di vita e significati depositati in quel patrimonio testuale tramandato e difeso per secoli, si fosse completamente spezzato, lasciando accessibile o riutilizzabile solo la «forma» di quei discorsi («modernità critica» di cui esempi possono essere considerati Benjamin, Kafka o Celan). Le restanti lezioni sono appunto un’esemplificazione virtuosa e profonda dell’applicazione di questa duplice chiave di lettura a vari temi e autori. La seconda conferenza, ad esempio (pp. 43-63), è dedicata alla critica dell’ontologia in Franz Rosenzweig (1886-1929).
Una succinta ma basilare introduzione biografica, basata soprattutto sui diari e le lettere, consente a Mosés di legare con coerenza l’evoluzione del pensiero di Rosenzweig al suo «precipitato» nella Stella della redenzione. Segue il saggio dedicato a Ebraismo e cristianesimo in Franz Rosenzweig: due forme di eternità (pp. 65-83). Anche qui, al centro della riflessione di Mosés troviamo il carteggio con Eugen Rosenstock, già definito nel capitolo precedente «un paradigma del dialogo ebraico-cristiano» (p. 48), e i consueti richiami a La Stella. L’originalità della riflessione di Rosenzweig consisterebbe nell’aver ripensato il senso e la missione delle due grandi religioni monoteiste – che per Rosenzweig rivestono «pari importanza e valore» (p. 66) – a partire da un’analisi dei rispettivi calendari liturgici, ossia da una concezione religiosa del tempo.
La quarta lezione è dedicata a Walter Benjamin (1892-1940) e alla «crisi della tradizione» (pp. 85-108). Benjamin esemplifica in maniera paradigmatica la cosiddetta corrente della «modernità critica» e Mosés ne analizza con acume il carteggio con l’amico Gershom Scholem (1897-1982) dedicato agli studi su Kafka. Segue non a caso la quinta lezione intitolata Gershom Scholem: quale futuro per la teologia? (pp. 109-128) dove l’A. evidenzia l’uso specifico della parola «teologia» da parte di Scholem riferendola alla «situazione dell’ebraismo e della sua tradizione in un mondo secolarizzato e dominato dalla tecnica» (p. 110). In polemica con Rosenzweig, Scholem ritiene ormai quasi irrecuperabili le esperienze che legano il popolo ebraico alle sue scritture e reinterpreta i dati essenziali della tradizione (ad esempio, creazione e redenzione) in chiave di «eventi permanenti», unico modo, a suo giudizio, per salvarli dall’oblío. In tal modo, anche in una completa secolarizzazione di Israele, la fede in Dio può essere ripensata come «realtà umana fondamentale» (p. 128).
Conclude il volume una lezione dedicata interamente a Emmanuel Levinas e l’al di là dell’essere (pp. 129-155): con l’ausilio di una penetrante analisi svolta da Derrida su Totalità e infinito, Mosés spiega come il pensatore lituano sia di fatto «evaso» dalla tradizione filosofica occidentale con il paradosso di utilizzarne gli stessi codici (pp. 136-137) recuperando l’adesione a quel dettato biblico la cui autorità però non viene mai invocata in ambito filosofico.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 2/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Il curatore e traduttore fa un grande regalo al mondo della cultura filosofico-teologica italiana, rendendo disponibile nella nostra lingua – con felici scelte lessicali e anche con qualche interessante opzione filologica, soprattutto nel caso di citazioni dirette, nel rendere le quali si discosta talvolta dalle correnti traduzioni – il testo delle conferenze, precisamente delle sei lezioni serali (p. 129), tenute da Stéphane Mosès (1931-2007) nel gennaio del 2006 – un anno prima della sua dipartita – all’Institut Catholique de Paris. Qui Mosès, come c’informa nella sua Prefazione (pp. 19-26) il professor Philippe Capelle-Dumont (un nome noto nella nostra Sezione di Facoltà, dove tenne una memorabile Lectio Thomae, poi raccolta in volume nella collana Quaderni di Filosofia), «era titolare della cattedra Étienne Gilson» (p. 19). Vi era stato chiamato, come ci dice il filosofo stesso, con una decisione assunta in modo non del tutto semplice, invitando lui ebreo per una cattedra intitolata a un “filosofo cristiano” «in occasione del decimo anniversario della creazione di questa cattedra, in quanto pensatore ebreo» (p. 27). I dati biografici di Mosès, proposti da Capelle, evocano un pensatore robusto, un cattedratico (collega di Ricoeur all’Università di Nanterre dal 1964, poi, dal 1969, nell’Università ebraica di Gerusalemme, dove, diventato professore ordinario, fonda un Dipartimento di lingua e letteratura tedesca e il Centro di ricerca Franz Rosenzweig), un apprezzato conferenziere e, soprattutto, il teorico della traiettoria del pensiero ebraico moderno, dopo Mendelssohn (1729-1786), a cui viene da Mosès dedicata la prima lezione (pp. 27-42). In essa egli mette a fuoco l’enucleazione di una peculiare modernità ebraica, teorizzata, appunto, dal «primo pensatore ebreo… ortodosso – che ha conciliato la tradizione ebraica con lo spirito dei Lumi» (p. 28). L’editore, a sua volta, nella convinta e misurata Introduzione (pp. 5-16), apostrofa pertinentemente Mosès «un grande filosofo ebreo» (p. 5), in quanto, dal punto di vista storico-filosofico e filosofico-religioso, egli contribuisce a sollevare un ebraismo europeo del XX secolo «che versava in condizioni disperate» (ivi), fino a poter degnamente associare il suo nome all’opera di ricostruzione linguistica e culturale intrapresa dai più noti Emmanuel Levinas, André Neher, Leon Askénazi. Mosès, infatti, oltre alle sue frequentazioni con altri grandi intellettuali europei (più volte, ad esempio, in questo testo si legge «Emmanuel Levinas mi ha detto», p. 56, oppure «devo a padre Xavier Tilliette», p. 57, n. 55, un’idea) riesce a ripensare, con una sua peculiare modalità prospettica, sia la grande cultura ebraico-tedesca del secolo d’oro, come ci suggerisce Di Grazia «paragonabile a quello arabo-ebraico in Spagna prima della riconquista» (p. 7), sia quella espressa da ebrei non assimilati, o come dice Rosenzweig dissimilati (p. 34), che da quelli che, viventi nell’est europeo sfuggirono invece all’assimilazione ri-andando a una modalità non traumatica rispetto alla modernità, seguendo cioè le vie dei chassidim e, di fatto, fino a influenzare in questa direzione Buber, Kafka, Rosenzweig e tanti altri.
Dal punto di vista dei contenuti del volume, oltre alla lezione dedicata a Mendelsshon, il lettore ne può leggere una seconda, che offre «alcune ardue analisi speculative» (p. 43) sull’ebreo tedesco Franz Rosenweig, con particolare attenzione alla sua opera maggiore, La stella della Redenzione (pp. 4363); una terza lezione (pp. 65-83), rivolta ancora «alla visione del cristianesimo di Franz Rosenzweig», o più esattamente alla «relazione tra il cristianesimo e l’ebraismo» nell’autore indagato (p. 65); una quarta (pp. 85-108) che, all’interno della categoria ermeneutica di “modernità critica” – coniata da Mosès –, esamina «il dialogo tra Walter Benjamin e Gershom Scholem sull’opera di Kafka» (p. 86); la quinta lezione (pp. 109-128) studia «un testo di Scholem intitolato Considerazioni sulla teologia ebraica, una conferenza tenuta nel 1973 a Santa Barbara negli Stati Uniti» (p. 109); la lezione conclusiva (pp. 129-155) chiude il notevole percorso «con Levinas e, in particolare con la sua critica dell’ontologia» (p. 129).
Gli spunti sono numerosi e tutti da leggere e rimeditare. Tuttavia, ci piace indugiare almeno sulle due, o forse più propriamente tre, categorie ermeneutiche, inventate da Mosès (cf p. 36), con le quali ci descrive la modernità ebraica così come si è sviluppata nella cultura europea. Essa, da un lato, ha conciliato la tradizione ebraica (anche quella biblica e religiosa) con lo spirito dei Lumi, a volte integrandosi completamente nella cultura ospitante, come quella tedesca (anche se Rosenzweig ritiene che sia soltanto una corteccia esterna: cf p. 75), altre volte, invece, mantenendosene differente, nella modalità che categorialmente Mosès, già dal 2008 (cf. p. 34, n. 17), denominava «modernità critica»: «una categoria elaborata da me» (p. 36), scrive testualmente in questo libro. Un’altra ben diversa modalità – definita dallo stesso Mosès modernità normativa – traduce nella lingua della filosofia occidentale la saggezza del Talmud, ovvero rivela «un contenuto ortodosso della tradizione ebraica» (p. 35), riformulato con linguaggio filosofico, per esempio da un Rosenzweig e da un Lévinas, oppure capovolgendo «alcune forme di letteratura tradizionale ebraiche» (p. 41), come avviene in Celan.
La duplice-triplice categoria allude anche a un secondo aspetto, di carattere speculativo, con cui Mosès raccoglie e rilancia nel dibattito contemporaneo, il tema delle «due fonti di verità… la ragione universale, accessibile a tutti gli uomini» e «la Torah in quanto essenzialmente fonte della legge, ossia in quanto legislazione rivelata» (p. 29). Un certo tipo di ebraismo, infatti, «oppone religione e ragione» (p. 10), contribuendo, per esempio con Hermann Cohen, all’emancipazione sociale degli ebrei, talvolta fino al distacco rispetto «alla legge e alla credenza religiosa» (p. 31); talaltra dando luogo, invece, all’«apparizione in Germania di ciò che si chiama ebraismo liberale […] del tutto parallelo al liberalismo protestante» (p. 31); altre volte ancora configurandosi come «Wissenschaft des Judentums» (ivi). Un altro tipo di ebraismo, a sua volta, segnala la «permanenza di un ebraismo della fede», soprattutto in Europa centrale e orientale, nel quale permane «una letteratura teologica e speculativa di estrema importanza» (p. 32), di cui in Occidente la voce più nota è senza dubbio quella di Martin Buber. Egli, appunto, è colui che «ha reintrodotto questo ebraismo della fede, sconosciuto in Europa occidentale, con questi racconti chassidici» (p. 33). A lato, Mosès può parlare di un terzo ulteriore punto, un vero e proprio terzo aspetto della modernità ebraica, «costituito dalla dissociazione, all’interno dell’emancipazione ebraica, tra i conflitti religiosi e l’identità collettiva» (p. 34).
Queste diverse modalità di essere di tale cultura ebraica sul suolo europeo consentono a Mosès di porre quello che, ci pare, anche il vero nodo speculativo della sua posizione, peraltro espressa dall’alto della cattedra Gilson e, proprio per questo, rilevante anche ai fini di una filosofia della religione intesa come filosofia della rivelazione veritativa: gli sembra, infatti, opportuno il confronto tra le due modalità religiose dell’ebraismo e del cristianesimo nell’orizzonte della cultura europea moderna; da non porre «in un contesto di concorrenza, ma di differenza» (p. 34): ognuna delle due fedi è sui generis, irriducibile all’altra, ma attende il confronto, come accade, per esempio, in Rosenzweig a partire dal momento della “conversione” – la data fissata da Mosès è il 1913 –, ovvero il momento del ritorno dallo scetticismo iniziale, influenzato da Nietzsche e dalla «religione dominante in Occidente» (p. 46), all’orizzonte del «dialogo ebraico-cristiano» (p. 45), o più precisamente all’orizzonte della rivelazione, grazie alla quale «le due religioni sorelle, ebraismo e cristianesimo» sono poste in scena come «assolutamente alla pari davanti alla verità» (p. 47). Per certi aspetti la stessa critica di Rosenzweig alla guerra – la cui esperienza Mosès, in dissenso con altre interpretazioni, ritiene decisiva per capire Rosenzweig – è una critica alla pretesa totalizzante che qualifica sia la guerra, sia tutta la filosofia occidentale (cf p. 49), funzionale ad aprire la questione della fenomenologia di ebraismo e cristianesimo «partendo non dai loro dogmi o dai loro contenuti concettuali, ma dai loro calendari (liturgici), dalla loro concezione del tempo» (p. 50), per approdare alla teoria – che «non ha precedenti nella teologia ortodossa di queste due religioni monoteiste» (p. 66) – di due religioni in «simmetria formale» (ivi), ovvero alla pari (pur nelle differenze) in quanto entrambe precedute dall’idea di verità (cf p. 50). Religioni e comunità, insomma, aventi «pari importanza e valore» (p. 66). Contro tentazioni ricorrenti di qualificarsi come verità assolute, le due fedi possiederebbero «due missioni, due vocazioni provvidenzialmente uguali» (p. 69). Di qui un’osservazione conclusiva di Mosès circa La stella della Redenzione: «Ebraismo e cristianesimo sono, nello stesso modo, due grandi utopie, due grandi utopie religiose che dominano la cultura religiosa in Occidente, proponendo due paradigmi diversi di redenzione, ossia della relazione dell’uomo con il mondo» (p. 74): il cristianesimo come redenzione nel mondo, l’ebraismo come redenzione fuori dal mondo. In tal modo, riprende vigore, grazie a queste belle pagine, la domanda che era al centro del dialogo epistolare tra Benjamin e Scholem circa il significato dell’opera di Kafka: «La tradizione ebraica è ancora attuale nel mondo moderno?»
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2013
(http://www.pftim.it)
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