Difficile per noi abbandonare il quando delle cose e riflettere sul come. Difficile per noi che siamo ora linguisticamente muti e non sappiamo dire senza tempo.
Proviamo a vedere, per poi sapere. Proviamo a capire l’aspetto, per poi dire. Perché il tempo e senza parole, ma l’aspetto no. Le parole si trovano, si devono trovare sempre. Per chi non ha mai studiato il greco a scuola, provare a comprendere l’aspetto sarà un esercizio di libertà linguistica. Per chi, invece, ha studiato il greco al liceo o all’università, sarà forse come ricevere risposta a domande che mai erano state fatte. Sara qualcosa di più di un esercizio di libertà linguistica – forse sarà una liberazione linguistica. Per alcuni, una rivoluzione. Per tutti, una sorta di rimborso tardivo per gli anni trascorsi ad imparare verbi a memoria senza nemmeno comprenderne il senso.
La categoria dell’aspetto greco occupa, nei manuali scolastici ad uso corrente, da zero a mezza pagina, facendo una media al rialzo. Le tavole di verbi da imparare a memoria, invece, ne occupano centinaia, facendo una media al ribasso. So bene che per apprendere una lingua straniera – e il greco, vivo o morto che sia, lo e – ci vogliono studio, costanza, tenacia. Molta memoria occorre per ricordare ciò che non e linguisticamente nostro (forse che imparare il giapponese e tanto differente?). Tuttavia, senza comprensione e senza senso della lingua ogni sforzo risulta fine a se stesso – o al compito in classe. E senza senso c’è solo incomprensione, della lingua che si sta studiando e, soprattutto, del perché la si studia. Chi ha studiato il greco, forse di greco oggi non ricorderà nulla, ma certo ricorderà i pomeriggi trascorsi a ripetere paradigmi su paradigmi. Ecco la conseguenza dell’apprendimento a memoria senza comprendere il senso di ciò che si fa. Ecco il risultato di applicare categorie della nostra lingua – il tempo – a lingue che ne erano sprovviste: l’oblio coatto. Nulla sopravvive se non il ricordo delle sofferenze patite nei pomeriggi di primavera a studiare ciò che si e voluto dimenticare il prima possibile: per i più, il momento esatto della dimenticanza si colloca un minuto dopo aver consegnato la versione di maturità.
Proverò a spiegare l’aspetto celebrando la mia gioventù passata a intonare cantilene di paradigmi a memoria: sentivo il suono, ma non ne capivo il senso. Li ripetevo religiosamente senza averne consapevolezza alcuna: fossero stati versi vedici, mantra buddisti, sure del Corano, sarebbe stato lo stesso. Ancora oggi al solo sentire ???? rispondo pavlovianamente ???? e così via. Durante il compito in classe trascrivevo i verbi sulla pagina facendo voti (e scongiuri) e tutta la mia comprensione linguistica finiva li. Non sono stata la prima né l’ultima. Anzi, so che sta accadendo lo stesso in centinaia di licei classici d’Italia a ragazzi nati nel Duemila (d.C.) e che hanno imparato ad utilizzare un cellulare prima di una biro.
Quindi cercherò di spiegare soprattutto per chi e ora alle prese con la gioventù sempre un po’ bruciata del liceo classico per dare, nel 2016, almeno un po’ di senso ai loro pomeriggi e, soprattutto, alle loro notti bianche così lontane da Pietroburgo: fidatevi, c’è del senso, del senso bellissimo in ciò che state imparando, anche se mi ci sono voluti quindici anni ed una laurea in lettere classiche per capirlo. Cocciuta.
Partiamo da una storia, visto che ci piace immaginare e, nel caso di una lingua non nostra, per di più morta, di immaginazione ne serve molta, moltissima; esempi più accademici non mancheranno, qualora i lettori più avvertiti ne restassero turbati. 487 a.C. Tarda notte in uno dei peggiori bar del Pireo. Cielo velato, rumore delle onde che si frangono sulle triremi ancorate nel porto, la luce di poche lanterne. Luna crescente. Due amici hanno alzato un po’ troppo il gomito, stasera – l’uno ha i suoi problemi con una donna, l’altro con della merce che non si decide ad arrivare da Alicarnasso. Stanno valutando se andare o meno a chiedere consiglio all’oracolo di Delfi, l’indomani, l’umore e nero più della pece. Valuta e valuta, i due si ritrovano ebbri di quel vino greco fortissimo che i Greci bevevano sempre annacquato. Forse i nostri devono averlo annacquato troppo poco, e una di quelle sere in cui c’è bisogno di tirarsi su, come non capirli; ma alla fine, nella vita come all’osteria, il conto arriva sempre e sempre e salatissimo. Potrebbero pagarlo con eleganza e andarsene con onore, ma ai due amici viene in mente di scappare. Naturalmente, sono talmente ubriachi che l’oste li riacciufferà dietro l’angolo. Comunque, decidono di fuggire e ‘fuggire’ in greco antico si diceva ???????.
Ora, per capire la questione dell’aspetto, e necessario mettersi nei panni, nelle tasche e soprattutto nella lingua greca dell’oste che partecipa alla scena. In soli tre aspetti l’oste avrebbe potuto comunicare il suo disappunto, pescando – deliberatamente e non certo a casaccio – uno dei tre temi (a questo mi riferivo poc’anzi quando parlavo dell’eredità indoeuropea) del verbo ??????? (…)