Etica ed esperienza. Levinas politico
(Novecento)EAN 9788857502212
Etica ed Esperienza. Lévinas politico è il titolo del libro di Gérard Bensussan, pubblicato nella collana “Novecento” dall’editore Mimesis di Milano, tradotto e curato da Silvia Geraci. Prima opera di Bensussan edita in Italia, il volume raccoglie i testi di interventi e di conferenze, tenute da Bensussan nel 2005, anno del centenario della nascita di Lévinas; testi che valgono come momenti di un percorso di riflessione articolato intorno alla questione politica, così come essa è posta all’interno della filosofia levinasiana.
Il lettore che sappia dell’origine di queste pagine, che sappia, cioè che si tratta di scritti destinati a incontri pubblici e che dunque sono stati pensati per essere detti e non per esser letti, rimane senz’altro colpito dalla compiutezza della trattazione, dalla letterarietà della composizione e dall’indubbia efficacia della stesura argomentativa. Di certo il merito di questa scrittura vigorosa va ascritto anche all’ottima traduzione che dei testi di Bensussan fa Silvia Geraci, curatrice del volume; traduzione che amplifica il fascino di una redazione filosofica, quella di Bensussan, che è certo sulle tracce del maestro Lévinas, ma che pure ha una sua propria identità. Tant’è che la pagina, pur se concepita partendo dai temi aperti della filosofia levinasiana, mostra tutta la autonomia speculativa e la forza di problematizzazione di Bensussan stesso.
Il saggio introduttivo - «L’Etica in senso extramorale» - ricapitola i temi decisivi della filosofia di Lévinas, riportando il lettore da subito alle ragioni dell’originalità speculativa del filosofo e al significato più proprio dell’etica levinasiana, che Bensussan colloca in quello spazio appropriatamente definito extramorale; spazio vuoto, prima che Lévinas lo occupasse. Il confronto, infatti, con altri pensatori e altri indirizzi filosofici, così come è proposto da Bensussan, mostra che nulla della loro specifica riflessione vale l’assolutezza di questa definizione, definizione che il rigore interpretativo dell’autore lascia trasparire come adeguata esclusivamente al pensiero del filosofo di Kaunas. Etica in senso extramorale, filosofia prima, dunque, come la definì lo stesso Lévinas e come si avvia ad essere, in realtà, ogni filosofia che sappia sciogliere l’inganno sistematico, che annoda essere e pensiero e toglie alla verità l’infinito della significazione.
L’etica di Lévinas non designa mai la sistematizzazione, più o meno coerente, dell’insieme delle regole di condotta di un gruppo umano. Non fonda nemmeno la possibilità di una giustificazione razionale delle norme morali attraverso o sotto un principio unificatore: al contrario, essa va intesa e interpretata nel suo senso extramorale. Ma qual è la questione che interpella Bensussan e che regola l’andamento del volume? “Necessaria” è la giustizia, necessaria dopo il “non-luogo della soggettività” e dopo quel fuori-luogo da ogni luogo della responsabilità. Bisogna chiedersi, dunque, qual è il legame tra l’essere-insieme e il volto? Come procedere dall’intimità del faccia a faccia e dall’”infinizione” della responsabilità che questa intimità significa, alla giustizia che infrange l’immediatezza di questa prossimità e aggiunge terzi alla scena? È la domanda che apre Intransitività dell’etica e paradigma traduttivo del politico, saggio che funziona da asse tematico intorno al quale ruotano gli altri ricchissimi contributi.
Disturbante, dunque, l’ingresso di coloro che tolgono la relazione duale e l’etica che la significa all’ordine dell’incomparabilità; essi, riconoscibili per l’imprecisione del loro essere plurale, hanno sembianza spettrale: i terzi, più di tre, dunque, moltiplicazione di altri, tutti gli altri dall’altro, che, indesiberabili, gridano giustizia e ossessionano la relazione etica e la sua non traducibilità, nel modo della loro imprecisione, della loro inquietante consistenza fantasmatica. In questo scritto e in più luoghi del volume Bensussan considera i termini della critica rivolta a Lévinas, il quale avrebbe dovuto disporre la propria riflessione nel verso della filosofia politica, assecondandone l’autonomia, riconoscendone l’imprescindibilità e tematizzandone i contenuti. Questa che sarebbe la strutturale debolezza del pensiero levinasiano, si rivela, a parere di Bensussan, un’apertura euristica d’importanza non trascurabile. Per la radicalità di questa mancanza, per questa indiscutibile fragilità del suo punto di vista, Lévinas offre un pensiero della politica capace di rispondere dell’intransitività dell’etica, che è lo straordinario della sua filosofia, e conduce, così, a mostrare l’impossibilità assoluta di dedurre una politica a partire dal sito dell’etica. Quando l’alleanza tra logica e politica è stretta, quando acquista identità la filosofia in quanto filosofia politica, si soddisfa ciò che il pensiero razionale chiede per sé, ossia che sia appagata la necessità della formazione di concetti affinché la dismisura sia misurata; concetti che, cioè, subordinino i particolari determinati al compimento che è frutto del movimento della ragione, dell’assoluto della ragione, della storia.
L’ordine della comparazione, che è l’ordine della ragione politica, ossia della ragione che, concettualizzando, conduce alla sistematicità categoriale, e, così, di conseguenza, alla sistemazione dell’indeducibile extracategoriale, alla sua universalizzazione, all’unità dell’indistinzione, è l’ordine della transitività della morale e della politica, ordine che viene meno all’assolutezza del volto, traducendo il soggetto con la comunità e la comunità col soggetto, i quali, soggetto e comunità, così dialettizzati, sono inesorabilmente traditi. Il libro di Bensussan lascia inalterata la tensione filosofica del problema levinasiano, della domanda che chiede come sia possibile non lasciare a se stessa la politica e come, contemporaneamente, si possa sottrarre l’etica all’entrata nel principio, ossia alla traduzione politica dell’etica, alla deduzione da essa della giustizia. Eppure a Lévinas non sfugge la necessità di pensare un modo di condurre l’intraducibile extraordinario dell’etica alla prassi di giustizia, l’asimmetrico e l’ineguale dell’imperativo, che è il Volto d’Altri, alla uguaglianza di tutti e alla prassi d’equità. Metafisica dell’etica levinasiana, che non si presta a divenire fondamento dell’atto di giustizia, nè può essere premessa e condizione di possibilità di quella ontopolitica che non può rispondere mai della responsabilità etica. Il passaggio è delicato e Bansussan apre un varco agevolissimo nella comprensione della questione intorno alla quale l’etica levinasiana sperimenta la propria difficile assolutezza.
E così ecco ripresa la descrizione del senso extramorale dell’etica levinasiana: agire eticamente significa esser preda di un tempo diacronico, di un’immediatezza, di un tempo che passa e si sorpassa prima di ogni presa di coscienza, prima di ogni presenza di spirito: l’istante in cui, senza preparazione preliminare, senza sapere, senza potere, senza volere, un uomo si lascia sconvolgere dalla trascendenza d’altri, dalla sua irruzione inattesa che esige, in maniera imperativa e imperiosa, una risposta di responsabilità, un’esposizione del soggetto all’evento che lo attraversa, lo obbliga e lo trasporta . o che, al contrario, lo paralizza. E allora come può questo fare istantaneo, questa soggettività privata di sé, questa passività originaria, eppure anarchica e immemoriale, che è l’essere umano, dare forma alla politica partendo dall’etica, visto che il fare è etico se risponde infinitamente dell’appello d’altri, se questo fare mai si forma né mai si ferma nella legge e nell’istituzione, se questo fare non finisce in esse? Instabile. Instante. Eppure leggi e istituzioni sono poste in essere, devono essere poste in essere, eppure la giustizia reclama per sé ordine e definizione. Anche se - e sembra paradossale - essa sospende l’infinità dell’agire etico e della responsabilità d’altri. Ma la questione rimane quella di rispondere di una giustizia che supera la giustizia; la questione è il paradosso di non lasciare a se stessa la politica e contemporaneamente di non tradurla dall’etica, o, meglio ancora, di esibire lo scarto inesauribile tra il particolare sempre nuovo e l’universale sempre identico a sé, di mantenere l’evidenza della trascendenza di alterità e misura. “Politica comunque”! dice Bensussan con Lévinas.
E come è possibile la politica e quale politica allora è possibile, se nessuna autonomia le può essere concessa e se essa non va tradotta dall’etica, se il soggetto in nessun luogo, che è uomo inoggettivabile, non deve diventare tutti i soggetti insieme in un luogo, se il Volto deve rimanere, senza trasfigurarsi in comunità?
Tutto il libro di Bensussan si muove intorno a questo interrogativo, lasciando scorgere risposte, e insieme rilanciando, intatta, l’inconclusività di ogni risposta. Nonostante tutto, è necessario fare politica, nonostante tutto - come insegna Rosenzweig - rimane l’urgenza senza norma dell’atto di giustizia che la prassi politica deve compiere: essa, che deve far traduzione dell’intraducibile, sarà debole, sarà, cioè, una politica che non detiene la certezza dei suoi fondamenti, nè la certezza dei suoi effetti. Una politica debole è una politica sia limitata che fattibile. Limitata come lo è una lingua in cui si traduce un capolavoro. Fattibile nel senso in cui si dice “si può fare”: difficile, incerto, ma verso cui si può decidere di incamminarsi. È per questo che la politica possibile sarà soltanto la politica dello straniero, e non quella dell’identità; lo straniero che è l’interruzione vivente dell’essere a sé medesimo del soggetto, pensato essenzialmente e fenomenologicamente. .Gli uomini si cercano..... Politica dell’identità e politica dello straniero, è il saggio che discute questo che sembra essere l’esito coerente del domandare levinasiano, della sua critica alla filosofia politica, alla filosofia in quanto politica.
Il soggetto ideale è l’unico interlocutore a cui sa rispondere la politica del diritto in-differente, è il soggetto sostanziale, senza volto, con tutti i volti possibili, tutti sconosciuti, tutti uguali. Politica che costringe alla simmetrizzazione ogni rapporto, quella politica che è sola con se stessa, autonoma e mortifera per questa sua autonomia, essa che fortifica la soggettività piena di sé, piena del sé, e dimentica che mai esiste soggettività, che solo soggezione è soggettività, che inesistente è la soggettività, perché manca a se stessa originariamente, essa che è un uomo reale, vivente e prima ancora indigente, lacerato, senza riparo presso di sé, senza riparo prima ancora di venire ad essere. Uomo straniero, che proprio per questa sua estraneità, viene ad essere. Ciascuno è questa realtà vivente, ciascuno è l’altro nel medesimo. La politica questa estraneità deve ascoltare, estraneità che sempre accade, che impone alla politica di confrontarsi con questa infinità eveniente e le impone di non fissarsi nell’oggettività finita della legge, che parla la lingua dell’omogeneità, che difende la soggettività sola con se stessa, soggettività irreale pericolosamente.
Politica debole, dunque, e per questo giusta. La risposta alla questione intorno a cui il libro di Bensussan è costruito - e che, in verità, come è ovvio che sia, può essere letto da chi già conosce approfonditamente il pensiero di Lévinas - è data da questa evidenza, che la storia istantanea offre: esiste, ed è la realtà dell’umano, la giustizia che supera la giustizia, necessariamente incontenuta e incontenibile dalla politica. Politica istantaneamente interpellata, come dovrebbe accadere adesso, mentre scrivo, e leggo che cinquantaquattro uomini sono morti di sete in mare, nel golfo di Sicilia, nel tentativo di raggiungere l’Europa. Cinquantaquattro stranieri che non avranno mai giustizia.
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 1/2013
(www.rassegnaditeologia.it)