Che cos'č la veritā
-I compiti di un'ermeneutica filosofica
(Piccola biblioteca pensiero occidentale)EAN 9788849834314
I quattro scritti pubblicati in questo volume, tradotti ex-novo da S. Marino e accompagnati da una ricca prefazione e da un ottimo apparato critico (note e glossario), pongono al centro dell’attenzione la domanda sulla verità in un arco di tempo estremamente ampio (40 anni), consentendo al lettore sia di risalire all’ispirazione di fondo sottesa a Verità e metodo, sia di approfondire gli sviluppi successivi determinati dal dibattito suscitato dall’ermeneutica di Gadamer. Il primo scritto, ?Ermeneutica classica e filosofica?, pubblicato per la prima volta nel 1974 e accessibile al pubblico italiano in una versione ampliata destinata all’Enciclopedia del Novecento (1977), presenta un carattere prevalentemente storico-ricostruttivo. Ciononostante emergono con efficacia sia la novità della svolta heideggeriana, sia il ruolo esercitato da Gadamer stesso in quella complessa operazione che ha trasformato l’ermeneutica da disciplina dell’interpretazione dei testi in riflessione specificamente filosofica. Il secondo scritto, ?Che cos’e verità? ? (in traduzione italiana già nel 1956), dopo aver ricostruito il modo in cui la scienza ha caratterizzato la specificità della civiltà occidentale, intende condurre al riconoscimento di un’esperienza di verità preesistente a qualsiasi oggettivazione. Il terzo scritto, ?Dalla parola al concetto?, nato come conferenza nel 1994 e presentato ora per la prima volta in italiano, esprime l’esigenza di percorrere sia la via che dalla parola conduce al concetto che quella che dal concetto riconduce alla parola vivente del dialogo. L’ultimo testo, ?Dialogo retrospettivo sulla raccolta delle opere e la sua storia degli effetti?, e una lunga intervista di Gadamer con J. Grondin svoltasi nel 1996, che presenta in modo efficace i temi principali dell’itinerario gadameriano. Mostrando la valenza speculativa dell’intervista filosofica, questo scritto chiarisce in modo inequivocabile la portata innovativa dell’ontologia ermeneutica e affronta alcuni dei fraintendimenti con cui essa e stata recepita nel dibattito filosofico italiano, soprattutto in relazione ad eventuali esiti relativistici e nichilistici.
Sebbene i quattro scritti siano diversi tra loro quanto a origine e data di composizione, la presentazione unitaria del tema del volume lascia cogliere meglio la densità della proposta teoretica. Come emerge dall’intervista, la riflessione ermeneutica sulla verità va incontro ad alcuni equivoci riconducibili ai tre nodi critici di ?estetismo, relativismo e linguismo? (169). Il ricorso all’esperienza estetica quale esperienza extrametodica di verità, esprime l’esigenza di prendere distanza dai miti dello scientismo e di un certo oggettivismo epistemologico che è penetrato talvolta anche nelle scienze umane. Il rapporto con l’opera d’arte inteso come evento di verità e la rilevanza della coscienza storica contribuiscono a evidenziare la svolta radicale portata a compimento da Heidegger: ?Viene qui raggiunto un punto, in cui il senso metodico strumentale del fenomeno ermeneutico doveva condurre a una svolta nel dominio dell’ontologia. Il “comprendere” non indica più un atteggiamento del pensiero umano fra gli altri, da disciplinare metodicamente e da trasformare in procedimento scientifico, bensì costituisce la motilità fondamentale dell’esserci umano? (72-73). La radicalizzazione del comprendere riconosciuto come tratto costitutivo dell’esistenza e non come un’attività tra le altre bisognosa di essere disciplinata metodicamente, apre la strada anche al superamento della confusione tra storicità e relativismo: ?La storicità non è più concepita come una fissazione di limiti per la ragione e la sua pretesa di cogliere la verità, bensì rappresenta una condizione positiva per la conoscenza della verità. In questo modo, l’argomentazione del relativismo storico viene a mancare di qualsiasi fondamento effettivo. Il conseguimento di un criterio per la verità assoluta si rivela essere nient’altro che un idolo astratto-metafisico e, cosi, esso perde ogni significato metodologico? (74). La storicità del comprendere induce a riconoscere che sia colui che comprende che ciò che viene compreso appartengono ad una tradizione e il contributo produttivo apportato dall’interprete e condizione preliminare per un’autentica comprensione, senza che ciò legittimi le prevaricazioni soggettive ed arbitrarie, giacche la “cosa” che e volta per volta in questione ?costituisce l’unica unità di misura da tenere in considerazione. […] Questo stato di cose può anche venir descritto nel modo seguente: interprete e testo possiedono ciascuno il proprio “orizzonte” e il comprendere rappresenta sempre una fusione di questi orizzonti? (85).
Per quanto riguarda il nodo critico del linguismo, particolarmente avvertito in Italia a causa di una lettura riduttiva del famoso asserto gadameriano secondo cui ?l’essere, che può essere compreso, e linguaggio?, Gadamer stesso afferma senza esitazioni: ?Ma no, questo non l’ho mai pensato e nemmeno detto, che cioè tutto sia linguaggio. L’essere, che può venir compreso, e linguaggio. In questo vi è una limitazione. Cio che, quindi, non può venir compreso, può rappresentare un compito infinito: quello di trovare la parola che, perlomeno, arrivi un po’ più in prossimità della cosa? (178). Centralità del linguaggio significa riconoscimento del dialogo quale luogo manifestativo del senso. Da questo punto di vista, ?tutta la conoscenza umana del mondo e linguisticamente mediata? (91), così da poter dire che la linguisicita caratterizza l’intero ambito dell’esperienza. Nella misura in cui l’ermeneutica include sempre una forma di incontro con le opinioni altrui, essa comporta che ?in ogni comprensione di un’alterità (che si tratti di qualcosa o qualcuno “altro”), si verifica una forma di autocritica. Chi comprende, non pretende di poter assumere una posizione di superiorità, bensì accetta che la propria presunta verità venga messa alla prova? (99-100). Ricondotta alla sua radice etica e dialogica, l’ermeneutica induce a dilatare la nozione di “testo” da interpretare fino ad includervi qualsiasi traccia di alterità. Centralità del linguaggio, inoltre, comporta anche la presa di coscienza dei limiti del linguaggio: il non detto, il pre-verbale, il simbolico, l’ultralinguistico costituiscono altrettanti elementi fondamentali per il comprendere. Acquista cosi un senso particolare l’esigenza di ricostruire non solo il percorso che va dalla parola al concetto, ma anche il cammino inverso che dal concetto riconduce alla parola e al luogo sorgivo del dialogo. L’istanza sottesa a questa riflessione, oltre ad esprimere un consenso di fondo all’apporto della riflessione fenomenologica e al primato del mondo della vita, sollecita a capire quanto siano importanti tanto la capacita di accostarsi alle cose per misurarle e enderle disponibili, quanto quella di cogliere il giusto criterio, la “qualità” delle cose. Perché questo accada, e necessario imparare a far parlare i concetti in modo che raggiungano effettivamente l’altro: ?La via procede “dalla parola al concetto” – ma, se vogliamo davvero raggiungere l’altro, dobbiamo riuscire a percorrere anche la via inversa, dal concetto alla parola. E soltanto così che si ottiene una ragionevole comprensione reciproca. Solo così abbiamo la possibilità di mettere noi stessi in secondo piano, per far valere anche il punto di vista dell’altro? (160).
Per quanto il lettore degli scritti di Gadamer trovi difficilmente una trattazione sistematica del tema della verità, non può sfuggire che la fluidità stessa del suo pensiero consente di cogliere una continua dilatazione del tema, che favorisce il riconoscimento di un’esperienza di verità originaria. La nota domanda di Pilato induce, a distanza di secoli, a smascherare l’inganno che porta ad associare verità e potere. Il cammino verso la verità sollecita in primo luogo a mettere in discussione pregiudizi non provati e a riformulare la propria concezione del reale, cosi come insegna il cammino della scienza, a dispetto di quanti riducono l’ermeneutica ad un’ostilità verso i saperi rigorosi. Richiamandosi ad alcuni pilastri della tradizione, in particolare ad Aristotele, Gadamer sostiene che la verità del discorso si determina ?come adeguatezza del discorso alla cosa, vale a dire come adeguatezza del lasciar giacere-davanti col discorso alla cosa giacente-davanti. Deriva da qui la definizione della verità, ben nota a partire dalla logica, come adaequatio intellectus ad rem? (113). Sebbene la scienza moderna abbia poi intrapreso il cammino che restringe il sapere al verificabile, aprendo la strada al predominio della pianificazione e della tecnica, resta urgente il compito di ?risalire a ciò che sta dietro al sapere tematizzato nelle scienze? (116). Per quanto difficile, ciò e possibile solo se si riesce a risalire alla domanda rispetto alla quale un enunciato rappresenta una risposta: ?Ogni enunciato ha il suo orizzonte di senso nel fatto di scaturire da una situazione “domandante”, d’interrogazione? (126). In questo orizzonte di pensiero, verità, appello e relazione interpersonale formano un’unita inestricabile: ?Ciò che percepiamo con stupore, in ogni nostro curarci per la questione della verità, e il fatto che non potremmo dire la verità senza l’appello, senza la risposta e, dunque, senza la comunanza dovuta all’accordo che abbiamo raggiunto. Ma ciò che è più stupefacente, riguardo all’essenza del linguaggio e del colloquio, e che io stesso, quando parlo di qualcosa con altri, non rimango vincolato a ciò che intendo; che nessuno di noi, nel proprio intendere, racchiude l’intera verità, ma che cionondimeno la verità nella sua interezza ci abbraccia entrambi nel nostro singolo intendimento? (133).
Tratto dalla rivista "Rassegna di Teologia" n. 1/2014
(http://www.rassegnaditeologia.it)
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