La missione salvifica della Chiesa. I fondamenti teologici della dichiarazione «Dominus Iesus» nel magistero del Concilio Vaticano II
(Centro Studi Verbum) [Libro in brossura]EAN 9788849819021
Con il quarto volume della collana Verbum, il gruppo di teologi che la cura si apre sul versante del dibattito contemporaneo più acceso, quello del dialogo interreligioso. Senza impedire, però, che l’esperienza conciliare del Vaticano II agisca come orizzonte fecondo sullo sfondo, per mezzo di quel suo stile pastorale, argomentativo e veritativo che lo caratterizzò. Esso produsse due costituzioni dogmatiche che ebbero a cuore di affrontare temi centrali della fede, quali appunto la Chiesa, mediante la Lumen Gentium, e la rivelazione, con la Dei Verbum. In special modo la seconda sessione si caratterizzò per un corposo dibattito ecclesiologico, a partire da uno schema totalmente rivisitato ed ispirantesi ad una visione misterica della Chiesa dai connotati cristologici e pneumatologici (Lumen Gentium, 1-8). Per cui se da un lato è certamente vero che un Concilio non esaurisce tutt’intero il depositum fidei, è vero anche che il Vaticano II, non mancò di dare indicazioni chiare e puntuali sui temi accennati per mezzo di una formulazione autorevole. In questo complesso percorso storico-teologico s’introduce l’opera monografica di Alessandro Carioti, il quale ha ricostruito, nelle pagine che presentiamo, proprio i fondamenti conciliari della Dichiarazione Dominus Iesus, con la quale la Congregazione della Dottrina della Fede si è pronunciata nel corso dell’Anno giubilare sulla missione salvifica della Chiesa. L’itinerario non manca di riprendere anche le tappe magisteriali che videro i pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, impegnarsi sul tema a più riprese (88ss.). Tuttavia l’opera non si caratterizza meramente per questa, pur necessaria, “risalita alle fonti” della Dominus Iesus, volendo donare al lettore una chiave ermeneutica autentica del documento e veramente teologica. Ed è precisamente in questa prospettiva che bisogna muoversi, evidenziando in particolare quelle che sembrano due delle principali intuizioni teologiche, teoreticamente meritevoli di essere messe in rilievo. Il clima rovente che ha determinato e determina un confronto a più voci, spesso assai serrato, tra teologia, storia e Magistero, oggi è profondamente caratterizzato da un aspro scontro. La ventata di relativismo che si vorrebbe, sovente surrettiziamente, far passare come espressione di un vitale pluralismo teologico, cui il Novecento ha definitivamente fatto approdare il sapere della fede, ha posto e sta ponendo alla coscienza ed all’intelligenza credente non pochi problemi. Li sta ponendo soprattutto in ordine alla concezione della salvezza come anche in ordine alla vita missionaria della Chiesa e, non ultimo, in ordine alla sua identità di Corpo di Cristo. Subito una precisazione va fatta a proposito di questo contributo di Carioti, e così entriamo nel merito dell’opera. Non sono lontani i tempi in cui alla teologia, perlomeno a quella detta “di scuola”, veniva rimproverato la carenza di contatto vivo con la fonte per eccellenza della sua speculazione, la Parola di Dio. Si parlava con toni non certo lusinghieri di Denzingertheologie, alludendo a quel ruolo subalterno che la teologia incominciò ad assumere dai tempi della teologia controversista post-tridentina e continuò a vivere nei riguardi della Tradizione ecclesiale e soprattutto del Magistero, ripetendone, propagandandone, difendendone, spiegandone esclusivamente le dottrine (cf. B. Lonergan, Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma 2001, 302, 362). Il gesuita canadese, nell’opera citata, spiega bene i limiti ed i vantaggi di quel modo di teologare. Ma subito aggiunge, in modo autentico e vero, come al teologo sia chiesto, all’interno della fede, di svolgere un ministero peculiare a servizio della comunità credente. Egli deve essere colui che la Parola l’attualizza nell’oggi della storia, fornendone una comprensione nuova o rinnovata, nel senso di più piena, in conformità all’opera dello Spirito che guida «alla verità tutta intera» (Gv 16, 13). Egli non può essere un mero ripetitore di quanto già è stato detto, pur in modo significativo ed autorevole, ma «ha un contributo suo proprio da recare» (Lonergan, 363) sempre collocandosi all’interno dell’unica Tradizione. Questa premessa pare essenziale per liberare il campo, in un ambito così delicato come quello della materia trattata dal libro, da pericolosissime e pregiudiziali precomprensioni, che potrebbero a priori generare in chi tra gli “esperti” si dovesse trovare davanti a questo libro, rigetti preconcetti ed infondati. Quella dell’Autore è vera opera teologica poiché egli, prima ancora di cimentarsi con i documenti magisteriali, della cui conoscenza effettiva e del cui studio approfondito pure da prova, è in un costante ed evidente dialogo con la Parola di Dio. Per cui l’opera in questione è teologica per le ragioni espresse dallo stesso: «La centralità della Parola di Cristo, […] come una filigrana percorre le pagine di questo libro», (ivi, 19); è teologica perché l’intera ed integrale Parola di Dio è la vera anima del libro (Dei Verbum, 24); ed ancora lo è perché la Parola di Dio viene fatta emergere in tutta la sua fecondità come la vera ed unica chiave ermeneutica degli stessi documenti magisteriali (cf. W. Kasper, Il dogma sotto la parola di Dio, Queriniana, Brescia 1979, 127ss), che altro non sono se non l’interpretazione autentica di essa. Certamente si tratta di un’interpretazione storica; per cui vi è un bisogno perenne che la teologia costantemente avanzi, e speculi nell’esplorazione del mistero; ma anche autentica, nel senso che il Magistero sa assumere e ritenere ciò che è vero progresso nella comprensione teologica della Parola di Dio, come invece respingere quanto è espressivo di un pericoloso regresso o annullamento di essa, per quel «carisma certo di verità» che con la successione episcopale hanno ricevuto i Pastori della Chiesa (Dei Verbum, 8). Vi è, perciò, un ritorno costante che bisogna operare e che il libro suggerisce come itinerario speculativo perenne e salutare, ed è quello che vede la teologia sapientemente mediare tra dato rivelato e dato interpretato (anche autorevolmente), ed ancora tra dato rivelato, dato interpretato e di nuovo dato rivelato alla ricerca di un’intelligenza superiore e più perfetta di essi. Delle due note teoreticamente rilevanti da un punto di vista teologico, cui si accennava, la prima è quella che mette in evidenza come all’interno di queste forme di teologia “pluralista” delle religioni vi sia una grossolana aporia, che è, paradossalmente, l’assenza o il travisamento della Parola di Dio, verso cui il documento della Congregazione ha preso posizione. Laddove, infatti, si leggerà con attenzione la Prefazione a firma di Mons. Di Bruno, si potrà constatare in modo tangibile che la Parola di Dio, lungi dal depotenziare o lasciare nel vago l’unicità della mediazione di Cristo e della Chiesa in ordine alla salvezza, l’attesta con una chiarezza lampante. Al recupero di questo primato della Parola l’opera che presentiamo, esorta costantemente, facendo proprio lo spirito conciliare: «Partire dalla Parola per un autentico rinnovamento della persona, della Chiesa e della società è, quindi, la via tracciata dal Concilio Vaticano II» (155). Bisogna porre ogni attenzione, perciò, affinché vengano evitate comprensioni eterodosse e persino ereticali della Parola di Dio, dove con l’utilizzo di quest’ultimo termine intendiamo attingere ed esprimere proprio il significato etimologico della parola (a†resij: scelta, elezione; derivante dal verbo greco aƒršomai: scelgo, preferisco), e cioè la selezione, all’interno della verità della fede, di verità parziali, sottratte al loro vero significato, una volta che sono state separate dalla Verità integrale. Per cui si opera secondo una chiave di lettura ideologica, non teologica, una “comprensione guidata” e, sovente travisata, della Parola di Dio. Da qui scaturiscono inevitabili ed ulteriori aporie, come quella che riduce il problema della salvezza alla questione del destino eterno di una persona. Siamo così al secondo contributo teoreticamente rilevante del libro. Il mistero di Cristo, che si attua per mezzo della sua redenzione, è cristificazione, filializzazione, divinizzazione, trionfo sul peccato, vittoria sulla disobbedienza umana, che si compie oggi, ed in seguito, anche nell’eternità. Pensare la salvezza come solo esito ultraterreno di una vita condotta secondo canoni di giustizia dettati dalla coscienza umana, banalizza oltremodo il concetto cristiano di salvezza. Emancipando la coscienza dalla verità rivelata, quasi fosse un accessorio, un accidente irrilevante circa il compimento della persona e la piena maturazione della stessa, si misconosce lo stesso operato divino in Cristo. Che la coscienza sia “via di salvezza” per il Concilio non significa che la coscienza non ha bisogno della rivelazione o che essa sia superflua o che la Chiesa non debba dare la verità di cui è custode. Ne, tanto meno, che la persona non abbia bisogno di Cristo e dei beni messianici da lui portati e dalla Chiesa custoditi in pienezza. La questione della salvezza va inserita nell’intera economia vetero e neotestamentaria, accogliendo quanto la rivelazione manifesta fin dal primo libro della Genesi. Vi è una “situazione antropologica ontologica ed esistenziale” di “morte”, di frantumazione, di divisione dell’uomo in se stesso (cf. Gaudium et spes, 13), cui solo Cristo Gesù, nuovo Adamo può porre rimedio. E questo proprio in ragione dell’unicità del suo statuto ontologico. Il libro mette in luce il nodo centrale che la Dominus Iesus solleva. Ad essere mal compreso non è primariamente lo statuto ecclesiale, ma lo statuto ontologico di Gesù (11-16), il suo mistero personale di unione ipostatica, ed a partire da essa, l’opera della sua redenzione, come incorporazione delle singole persone in questo corpo mistico che è la Chiesa, strumento e sacramento di salvezza (Lumen Gentium, 1). Negare la “strumentalità particolare ed unica della Chiesa”, ha conseguenze antropologiche, morali, soteriologiche, perché, tra le tante mediazioni operate dalle varie religioni si stabilisce un’equivalenza nell’efficacia, che di fatto non rispecchia la rivelazione. Sulla scorta di questo pensiero ambiguo ma velato di una più grande tolleranza, si nega a moltitudini di uomini quella pienezza di grazia e di verità che Cristo dispensa per mezzo della Chiesa che Lui si è fondato (142ss.; ma fondamentali risulteranno 156ss.). Come giustamente ricorda l’Autore: «all’uomo non serve una verità generica, né una verità parziale, né un seme o un germe di verità: a lui serve la verità salvifica nella sua interezza […] l’uomo ha bisogno di tutta la verità su Dio e di tutta la verità su se stesso per entrare nel proprio mistero e compiersi, secondo il piano della salvezza che Dio ha stabilito per lui fin dall’eternità. Ora tutta la verità su Dio e sull’uomo si trova esclusivamente in Cristo Gesù» (213). Il testo di Carioti ha il merito di aiutare il lettore a focalizzare i veri problemi soggiacenti il pronunciamento della Congregazione della Dottrina della Fede, senza derive emozionali o ideologiche, e senza enfasi apologetiche che trascurino di dare risposta ad interrogativi che legittimamente possono sorgere alla coscienza credente.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2008
(http://www.pul.it)
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