La replicatio. Profili processuali e diritto sostanziale
(Univ. Teramo)EAN 9788849518764
1. – Di un ampio lavoro monografico sulla replicatio, in cui fossero organicamente analizzate le fonti in materia e approfonditamente discussa la letteratura accumulatasi al loro riguardo, si sentiva davvero il bisogno. Sicché dobbiamo essere grati a Giovanni Papa per aver concepito e realizzato un libro che, anche sotto l’aspetto della qualità del mezzo espressivo, corrisponde alle attese della romanistica. Articolato in otto capitoli e completo dei consueti indici degli autori e delle fonti, esso si apre con una serie di pagine (1-34) dedicate alla struttura e alla funzione del rimedio, quali risultano soprattutto da due celebri manuali dell’antichità. Stando a quanto si legge in Gai 4.126-126a, avverso un’eccezione di primo acchito iusta e tuttavia destinata a nuocere inique all’attore, a quest’ultimo era data «un’ulteriore aggiunta (alia adiectio)», denominata replicatio, volta, ovviamente se fondata, a superare l’eccezione stessa (p. 2), come accadeva nelle due fattispecie citate a titolo esemplificativo nel seguito del testo.
Analogamente, in I. 4.14 pr. Giustiniano afferma che laddove l’eccezione, a prima vista iusta, fosse contraria all’aequitas, si concedeva all’attore un’alia allegatio, chiamata replicatio, che mirava a dissolvere la vis della prima, conformemente a quanto avveniva nell’ipotesi, già ricordata da Gaio, in cui il creditore avesse concordato con il debitore di non richiedergli la somma dovuta e poi avesse pattuito con il medesimo il contrario: agendo per ottenere l’importo di sua spettanza, a lui era consentito, «avverso l’eccezione si non convenerit, ne eam pecuniam creditor petat, di replicare adducendo il successivo accordo teso all’eliminazione del precedente pactum» (p. 13). Tutt’altro che innocuo è peraltro l’uso, nelle Institutiones imperiali, del termine allegatio in luogo del vocabolo adiectio che compare in Gaio: come non manca di rilevare Papa, ciò «sta in qualche modo a dimostrare ... che si era definitivamente compiuto quel processo di attualizzazione dell’antica replicatio formulare» in virtù del quale «il nostro rimedio non veniva più a operare come adiectio, ‘aggiunta’ in posizione antitetica rispetto all’eccezione, ma si configurava quale allegazione difficilmente distinguibile da ogni altra adduzione difensiva fatta valere dai litiganti » (p. 14). Sinteticamente e icasticamente, comunque, la replicatio appare definita da Paolo, in D. 44.1.22.1, quale contraria exceptio, quasi exceptionis exceptio, ossia «come una sorta di eccezione all’eccezione» (p. 22).
Mentre Ulpiano, in D. 44.1.2.1-2, la qualifica, con più parole non meno pregnanti, come un’eccezione opponibile da colui che promuove l’azione e dotata di «efficacia elidente» o esclusoria, in quanto «appunto diretta a privare di fondamento l’eccezione, così come quest’ultima è tesa ad annullare la vis dell’azione» (p. 22). Un’efficacia che peraltro sbiadisce, fino al punto di smarrirsi secondo Papa, in un rescritto del 294 d. C., confluito in CI. 8.35(36).10, nel quale si osserva che non l’eccezione, la quale rappresenta il tipico rimedio utilizzabile dal convenuto per tutelare le proprie ragioni, ma la replicatio costituisce lo strumento attraverso il quale l’attore può corroborare la sua intentio, ossia la pretesa da lui fatta valere in giudizio. Per l’autore, invero, «la decisione imperatoria appare ... tesa a concedere all’attore di accrescere, attraverso appunto la replica, le possibilità di successo dell’azione proposta. Quasi a dire che le circostanze addotte in replica fossero dirette non solo a infirmare quanto eccepito dal convenuto, ma anche – e ... soprattutto – a rafforzare la posizione soggettiva invocata dall’attore» (pp. 25-26). Sottolineata la mancanza, in dottrina, di una trattazione complessiva della replicatio, presumibilmente dovuta alla sua stretta contiguità rispetto all’exceptio, di cui rappresenta «in qualche modo un’esplicazione (quasi exceptionis exceptio, secondo il pensiero di Paolo), o almeno una ‘propaggine’, giustificata dalla stessa logica» (p. 30), l’autore conclude il primo capitolo illustrando l’intento che ne ha animato la ricerca, che è poi quello di tratteggiare la storia dell’istituto e di recuperare i suoi lineamenti dogmatici, ed esponendo il successivo snodarsi dell’opera. Per cui il lettore viene a sapere che in ciascuno dei sei capitoli che seguono sono analizzate le concrete applicazioni della replicatio nei vari ambiti del sistema privatistico, a cominciare da quelle maggiormente antiche, mentre le pagine finali costituiscono la sede per «alcune considerazioni sulle clausole collegate alla replicatio» e ancor prima per «una serie di riflessioni di portata più generale relative ai fattori che, in momenti differenti per ciascuno di essi, ma spesso intersecandosi tra loro, vennero a condizionare la ‘manovra’, da parte dei prudentes e della cancelleria imperiale (o forse ancora una volta dei giuristi in essa operanti), del nostro mezzo» (p. 34).
2. – Di notevole interesse, all’interno del gruppo di capitoli cui ho poc’anzi accennato, è quello relativo ai primi impieghi della replicatio (pp. 35-123). Qui Papa, dopo aver individuato, grazie a un minuzioso scrutinio delle fonti letterarie, il significato comune del termine latino, che rimanda all’idea del ritorcere, ed essersi altresì soffermato sulla rilevanza forse assunta dalla replicatio processuale nell’ambito della retorica, ne esclude perentoriamente l’originarsi in seno al lege agere, ricollegando l’emersione del rimedio al posteriore agere per formulas. È invero, egli scrive, «attraverso la concessione dell’actio e delle altre (eventuali) adiectiones, quali exceptio e replicatio, che il magistrato giusdicente offre, al fine di ‘rendere giustizia’, un ‘regolamento concreto’ della lite, di guisa che il iudicium risulta composto, oltre che dal si paret ... condemnato, si non paret absolvito, anche da tutto quanto è inserito tra l’intentio e la condemnatio» (p. 49).
Ponendosi poi sulle tracce delle più risalenti tra le peculiari fattispecie in relazione alle quali il pretore era solito accordare all’attore l’aggiunta nella formula di una replicatio, l’autore ipotizza che esse siano quelle di cui si parla in D. 13.7.3, Fr. Vat. 259 e D. 12.2.9.4. Chiare nei loro contorni almeno a partire dall’«ultimo sessantennio del I secolo a. C.» (p. 96), si caratterizzano per l’operare rispettivamente di una replicatio doli et fraudis (voluta da Labeone a protezione del creditore che, esercitando l’actio pigneraticia contraria, si vedesse opporre dal convenuto l’exceptio de pignore sibi reddito, nonostante alla restituzione del bene pignorato avesse proceduto perché tratto in inganno dal debitore, mostratosi falsamente pronto al pagamento), di una replicatio basata sulla lex Cincia e di una replicatio fondata sulla lex Laetoria, ambedue leges non perfectae. L’esistenza di queste due ultime replicationes, d’altro canto, induce Papa a immaginare che il rimedio oggetto della sua indagine «affondasse le proprie radici anzitutto nell’esigenza di creare uno strumento idoneo a sanzionare, in sede di controrisposta all’exceptio, l’operatività di provvedimenti legislativi che – data la loro particolare configurazione di leges imperfectae [meglio, se si ha presente il tenore della lex Laetoria, non perfectae] ... – non avrebbero altrimenti avuto occasione di tutela» (p. 96).
Ammesso che non sia l’ambito del dolo ad aver suggerito le originarie applicazioni della replicatio, certo è comunque, osserva ulteriormente lo studioso, che l’utilizzazione del mezzo a soccorso dell’attore vittima di tale illecito si era presto notevolmente ampliata, se già Labeone disquisiva intorno alla questione, che avrebbe poi affaticato Marcello e Ulpiano, concernente la facoltà di chi intentasse un processo di neutralizzare l’exceptio doli avversaria attraverso «una replicatio volta a far valere comportamenti dolosi del reus» (p. 59): questione risolta negativamente da tutti i giuristi appena richiamati, come attesta D. 44.4.4.13 e conferma, per Ulpiano, D. 50.17.154. Né, continua Papa, sarebbe plausibile pensare a uno sviluppo storico che veda la concessione della replicatio a opera del pretore come il sostituto tecnico della precedente denegatio exceptionis da parte di tale organo, «allo stesso modo di quanto accadde per l’exceptio in relazione alla denegatio actionis» (p. 96). Un’accurata e convincente disamina di una nutrita serie di testi, tra i quali – seguendo l’ordine in cui risultano affrontati – D. 23.4.12.2, 44.1.18, 9.4.23, 14.6.9 pr. in rapporto a 44.4.4.14, CI. 4.28.1 e D. 46.2.19, unitamente a un’adeguata rielaborazione dei dati ricavati per questa via, portano l’autore a prospettare come «verosimile che all’attore, per paralizzare l’efficacia dell’eccezione proposta dal convenuto, fosse solitamente accordata una duplice alternativa: chiedere al pretore di emettere un decreto di rigetto dell’exceptio ovvero di essere autorizzato ad allegare nel iudicium una replicatio» (p. 121).
Laddove il magistrato si sarebbe orientato per la pronuncia del decreto se l’iniquità cui avrebbe dato luogo la concessione dell’eccezione risultasse inequivocabilmente dimostrata ai suoi occhi, optando invece per l’inserzione della replicatio nella formula nel caso opposto, che ricorreva per esempio quando «la confutazione delle circostanze addotte dal convenuto imponeva un’indagine più approfondita» (p. 123). Compendiato così il contenuto del secondo capitolo, ritengo sufficiente ricordare, con riguardo a quanto si legge nel terzo, quarto, quinto, sesto e settimo, che in essi Papa passa in rassegna le fonti in cui è menzione della replicatio, attenendosi, anche in considerazione del loro «cospicuo numero», a un «criterio sistematico » (p. 125). L’esegesi investe, più precisamente, i passi che danno conto dell’impiego del rimedio nel campo delle vicende traslative (pp. 125-167), delle garanzie personali e reali (pp. 169-209), delle donazioni (pp. 211-236), del giuramento (pp. 237-264) e dei giudizi di buona fede (pp. 265-323). Soltanto in relazione a questi ultimi, che integrano per vero un ambito non omogeneo rispetto agli altri individuati dall’autore, credo opportuno soffermarmi brevemente, dal momento che può apparire sorprendente, abituati come siamo a considerare che a essi fossero coessenziali l’exceptio pacti e l’exceptio doli, trovarvi operanti sia l’una che l’altra e per giunta la replicatio pacti e doli. D. 2.14.35 di Modestino e gli ulteriori testi valorizzati da Papa sono però probanti al proposito, sicché non rimane che ridimensionare la portata del canone detto dell’inerenza, come del resto taluni romanisti – e tra questi Paola Lambrini, puntualmente richiamata da Papa (p. 277, nt. 26) – vanno da qualche tempo consigliando.
Per esempio, ove si aderisca alla proposta ricostruttiva avanzata dallo studioso con riferimento all’exceptio e alla replicatio doli, supponendo che «la cosiddetta ‘rilevabilità d’ufficio’ di eventuali atteggiamenti dolosi posti in essere dalle parti in sede di conclusione ed esecuzione del negozio comportasse soltanto che il iudex avrebbe potuto (non dovuto) valutare tali circostanze senza essere necessariamente vincolato da un’exceptio o da una replicatio»: per cui chi era interessato a colpire il dolo dell’altro litigante – ravvisabile anche nel fatto di opporre, mediante la relativa eccezione, un patto che aveva perso efficacia – avrebbe potuto «farsi ‘parte diligente’ e chiedere – appunto, ab initio – l’inserzione nel iudicium degli opportuni strumenti apprestati a tal fine. E questo magari per prevenire eventuali comportamenti di giudici poco attenti nell’esaminare i fatti di causa» (p. 276). 3. – Chiude la monografia di Papa un capitolo, l’ottavo (pp. 325-369), in cui l’autore, conformemente al piano di lavoro enunciato all’inizio dell’opera (da rileggere, sul punto, è la già ricordata p. 34), concatena «alcune riflessioni di portata più generale in ordine ai fattori che ... vennero a condizionare l’evoluzione ... della replicatio, fino al punto da consentirne la sopravvivenza nel titolo quattordicesimo del quarto libro delle Istituzioni di Giustiniano, quale appendice alla disamina sull’exceptio» (p. 325), per poi trattare, per vero un po’ troppo cursoriamente, delle «clausole ulteriori alla replicatio (p. 358). Quanto a queste, che mi sarei aspettato di veder investigate, se non in un autonomo capitolo, almeno prima delle considerazioni finali cui sono invece posposte, lo studioso muove da Gai 4.127-129, dove si trova affermato che, qualora l’adiectio attorea, pur di primo acchito iusta, risultasse tuttavia iniquamente pregiudizievole per il convenuto, a costui era concesso di paralizzarne l’efficacia attraverso una clausola, analoga per struttura e funzione alla replicatio, denominata duplicatio.
La quale, se a prima vista iusta, ma in realtà iniquamente lesiva rispetto all’attore, poteva essere a sua volta neutralizzata da un’altra clausola, da inserirsi parimenti nella formula, chiamata triplicatio. Fermo restando, per quanto ancora si legge nel luogo citato, che la varietà dei rapporti negoziali comportava la possibilità di un impiego delle adiectiones persino più composito di quello appena prospettato: con il che, nota Papa, il giurista antoniniano «allude alla configurabilità nel iudicium di successive clausole dopo la duplicatio e la triplicatio sulla base della complessità di fattispecie» implicanti «più articolate serie di contrapposte deduzioni delle parti (ciascuna bisognosa di prova)» (p. 359). L’impianto delineato da Gaio, prosegue l’autore, è confermato da Ulpiano, il quale, in D. 44.1.2.3, evoca «i segmenti di un dibattito giudiziale ancora vivo e pienamente operante», destinati ad accrescersi quando le parti avessero fruttuosamente chiesto al pretore l’inclusione nella formula, «subito dopo la replicatio, di ulteriori clausole condizionali al fine di offrire al giudice un’esposizione esauriente e ordinata della materia del contendere» (p. 360). Implicito in ciò è naturalmente che il magistrato avrebbe potuto respingere l’istanza dell’una o dell’altra parte relativa a una di tali clausole, così come gli era permesso di pronunciarsi per «il diniego del rimedio invocato per ribattere all’eccezione, allorché emergesse che la circostanza dedotta con la replicatio fosse in palese contrasto con quei principi di giustizia ed equità sostanziale di cui il pretore era il principale custode» (p. 361).
E ovviamente, quando l’organo giusdicente imboccava la strada del diniego, come nei casi di cui a D. 44.1.15 di Giuliano e D. 44.4.4.13 di Ulpiano, all’attore spettava di decidere se rinunciare all’azione oppure se edere iudicium senza replicatio, consapevole tuttavia del fatto che l’eccezione proposta, in quanto nemmeno astrattamente ostacolata dalla successiva adiectio, avrebbe portato, se fondata, all’assoluzione del convenuto. Principi di giustizia ed equità sostanziale, d’altro canto, secondo Papa reggevano anche la concessione delle adiectiones ulteriori rispetto alla replicatio, pur se talune fonti – e in particolare D. 27.10.7.2 di Giuliano e Fr. Vat. 259 di Papiniano – sembrano dare rilievo, per le peculiari ipotesi in esse contemplate, a ragioni giustificatrici più specifiche. Passando a Giustiniano, l’autore sottolinea che in I. 4.14.1-3 troviamo indicazioni che «ricalcano quasi fedelmente il dettato di quelle gaiane», salvo che «all’interno del testo imperiale le clausole che si annodano alla replicatio, pur essendo formalmente conservate ciascuna nella propria individualità, vengono nella sostanza raffigurate come allegazioni difensive difficilmente distinguibili tra di loro» (p. 364). E invero qui si parla non solo di allegatio anziché di adiectio, come nel più vecchio manuale, ma anche e soprattutto, in apertura del terzo paragrafo, di exceptiones in luogo delle adiectiones di Gaio: a significare che, «nella piena vigenza del processo cognitorio, era pressoché impossibile differenziare l’eccezione da ogni altra adduzione» (pp. 364-365).
Non in tutte le fonti, osserva ancora Papa, le clausole susseguenti alla replicatio vengono ordinatamente designate come duplicatio, triplicatio e quadruplicatio, essendovene talune che danno al convenuto la facoltà di rispondere «alla replica dell’attore con una triplicatio» (p. 367). Si tratta, per l’autore, di una discrasia che certo può avere alla base un’alterazione testuale patita dal secondo gruppo di fonti, ma che meglio si spiega pensando al coesistere di due diversi orientamenti terminologici patrocinati in seno alla giurisprudenza romana: i quali potrebbero essersi formati in ragione del fatto che, «quando dall’actio si passa all’exceptio, da questa alla replicatio e così via, fino a giungere a clausole sempre più lontane dallo schema abituale del iudicium, il tecnicismo e soprattutto la denominazione rispecchiante la diversità morfologica di ciascun rimedio dell’agere per formulas viene ... a subire un graduale processo di scolorimento, corrispondente forse alla rarità delle ultime fattispecie nella prassi processuale» (pp. 368-369). Venendo ora al «discorso» di Papa «relativo all’intersecarsi dei diversi fattori di produzione giuridica e alla loro rilevanza nella storia della replicatio» (p. 330), è da ricordare che per l’autore l’impulso più forte all’impiego del mezzo in un numero crescente di fattispecie si registra sul terreno dell’aequitas, intesa, sulla scia di Filippo Gallo, come tensione verso l’uguaglianza proporzionale, che ha sempre ispirato il pretore nell’esplicazione della funzione giusdicente e ha poi trovato i suoi interpreti privilegiati nei giuristi e nei principi.
Pur non mancando, come già si è constatato, «ipotesi di replicationes», che potrebbero essere le più risalenti, suscettibili di «definirsi di ius civile», in quanto dirette a dare rilievo a leges publicae che non erano perfectae e necessitavano perciò «delle ‘stampelle’ dell’exceptio ovvero ... della replicatio» (p. 332). Proprio all’aequitas, che imponeva di rispettare i pacta e giustificava l’exceptio pacti, nota ancora Papa, si rifà la replicatio pacti, volta a bloccare quell’exceptio laddove la stessa, rivelandosi iniqua, «mirasse a paralizzare l’azione in forza di un accordo a sua volta superato da intese successive» (p. 333). E parimenti all’aequitas si ispirano le replicationes veicolanti circostanze diverse, come, tra le altre, il dolo ovvero «la mancata prestazione sia della satisdatio rem furiosi salvam fore che della cautio ususfructuaria e, all’interno di un processo diverso e successivo, l’esistenza e vieppiù il contenuto di una sentenza già pronunciata» (pp. 333-335). Pur espressione dell’aequitas, il rimedio in parola non aveva, nell’editto codificato da Giuliano e presumibilmente neanche nelle versioni precedenti del medesimo, «un apposito titolo, magari a seguire quello dell’eccezione, e nemmeno un capitolo all’interno di quest’ultimo, non ravvisato ... neppure da Lenel nella sua restituzione» (p. 342). Né, secondo l’autore, potrebbe indurre a supporre il contrario il richiamo, in alcune fonti, a replicationes in factum, ove intese come replicationes decretales da aversi allora per contrapposte alle replicationes in edicto propositae. Il che, aggiunge Papa, non porta necessariamente a immaginare come del tutto atipiche le applicazioni del mezzo processuale in considerazione.
E questo perché alla replicatio, reputata dalla giurisprudenza quasi exceptionis exceptio, era agevole estendere «le stesse classificazioni dell’eccezione», per cui si può pensare a una sorta di «tipicità indiretta (anzi, derivata) per le replicationes corrispondenti a exceptiones edictales» (p. 345). In tal senso orienta non solo l’assenza nelle fonti di indizi a favore di un puntuale inserimento nell’editto del testo delle replicationes, ma anche e specialmente il fatto che le varianti minime della formulazione delle replicationes rispetto alle eccezioni presenti nell’editto rendono ben poco credibile che il pretore vi riportasse espressamente pure le prime. Senza poi dire che ragionando al contrario «bisognerebbe pensare a previsioni edittali anche della duplicatio e della triplicatio», per limitarci a queste adiectiones (p. 345). Significativa è poi la sistematica del Digesto, atteso che nel libro quarantaquattresimo ai vari titoli sulle exceptiones non fanno riscontro altrettanti titoli sulle replicationes, trovandosi la gran parte dei frammenti concernenti queste ultime inserita nei luoghi riguardanti l’una o l’altra eccezione. Visto quale strumento idoneo a conseguire ciò che l’aequitas reclamava, la replicatio, afferma poi Papa, viene a configurarsi, «nella prospettiva dei giuristi tardoclassici, anche quale tipico rimedio per operare interventi correttivi degli atti di normazione che, nel I secolo d. C., si esplicavano nelle forme del senatusconsultum, ispirato dal princeps» (pp. 347-348).
È infatti attraverso l’adiectio in esame che si giungeva a «modificare gli effetti delle norme senatorie ritenute oramai inadatte alle nuove esigenze, svuotandole, appunto, di contenuti o quanto meno riducendone fortemente la portata intrinseca» (p. 348). Come, per esempio, conferma Ulpiano, il quale, in D. 44.4.4.14, concede la replicatio doli avverso l’exceptio fondata sul senatusconsultum Macedonianum, onde far valere «la mancanza di consapevolezza da parte del mutuante in ordine alla condizione di filius familias del mutuatario» (p. 349). Un’ulteriore spinta verso un ampliamento dei casi in cui l’attore poteva ricorrere alla replicatio si deve a quegli imperatori e a quei giuristi che, sul declinare dell’età classica, guardavano proprio al mezzo in questione al fine di incidere negativamente su antiche previsioni legislative, quali per esempio quelle della lex Cincia, considerate in tutto o in parte non più attuali. Basti pensare, scrive al proposito Papa, che è mediante una replicatio che il donatario nei cui confronti gli eredi del donante, da lui chiamati in giudizio per l’esecuzione dell’atto di liberalità, avessero sollevato l’eccezione volta a dare rilievo al divieto sancito dalla legge del 204 a. C., superava questa eccezione, adducendo che il donante era morto «senza mutare la propria volontà in ordine alla donazione medesima» (p. 349). Peraltro, conclude sull’argomento Papa, grazie a un uso sapiente della replicatio la giurisprudenza e i principi riuscivano, a partire dal II secolo d. C., a favorire anche «il graduale adeguamento delle strutture formulari alla cognitio extra ordinem», garantendo nel contempo «la sopravvivenza all’interno delle nuove strutture processuali imperiali della stessa replicatio, nonché della ‘sorella maggiore’ e di quelle ‘minori’, anche se ovviamente non più quali partes formularum» (pp. 352-353).
Il che è per l’autore tra l’altro testimoniato dal principio replicatio doli opposita bonae fidei iudicium facit, con cui Caracalla termina il rescritto conservato in CI. 8.35(36).3. 4. – Il taglio che ho dato a queste pagine non consente di percepire con immediatezza l’impegno esegetico profuso da Giovanni Papa in tutta la sua monografia: che è davvero notevole sia per la quantità dei testi antichi esaminati, per giunta attinenti a campi molteplici del diritto privato romano, sia per il livello di approfondimento raggiunto con riguardo alla più parte di essi. Confido però che da quanto sono venuto dicendo traspaia la solidità della ricerca condotta da uno studioso già apprezzato per i suoi precedenti scritti, nella quale la rilettura critica delle fonti s’intreccia di continuo con la serrata discussione dell’ampia dottrina che ha avuto modo di occuparsene, seguendo un filo conduttore sempre visibile e solo di rado opinabile. Ciò che fa del libro di Papa un buon libro, capace di offrire al lettore, che – come accennato all’inizio – ne avvertiva la mancanza, una panoramica completa della replicatio, non priva di spunti ricostruttivi originali. Per di più, e il merito non è affatto secondario, attraverso una scrittura piana e lineare, che mai obbliga a indugiare nel tentativo di decifrare il pensiero dell’autore.
Tratto dalla rivista "Studia et Documenta" n. 1/2011
(http://e-lup.com)
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