Il lavoro dal volto umano
(Cathedra)EAN 9788846502780
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DETTAGLI DI «Il lavoro dal volto umano»
Tipo
Libro
Titolo
Il lavoro dal volto umano
Autore
Manzone Gianni
Editore
Lateran University Press
EAN
9788846502780
Pagine
46
Data
2003
Peso
75 grammi
Dimensioni
15 x 19 cm
Collana
Cathedra
COMMENTI DEI LETTORI A «Il lavoro dal volto umano»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Il lavoro dal volto umano»
Recensione di Giampaolo Dianin della rivista Studia Patavina
Non si deve giudicare un libro dalla sua voluminosità e anche un piccolo testo può contenere tesori preziosi. Questo vale sicuramente per l’opera di Gianni Manzone che raccoglie in poche pagine alcune significative riflessioni sul lavoro, tema che, in questi ultimi anni, sembra relegato ai margini della riflessione teologico-pastorale rispetto alle sfide urgenti poste dalla globalizzazione e dall’economia. In realtà dietro queste pagine sintetiche ci sono i due volumi che hanno reso Manzone un importante interlocutore per la riflessione sui temi sociali: Il mercato: teorie economiche e dottrina sociale della Chiesa (Queriniana, Brescia 2001) e La responsabilità dell’impresa (Queriniana, Brescia 2002).
Ci sembra che la chiave di lettura del testo possa essere il tema dell’alienazione che Manzone declina in riferimento a diversi aspetti del lavoro. In riferimento alla persona possiamo parlare di una alienazione soggettiva quando il lavoratore non trova quella soddisfazione personale nel lavoro che compie. Può così succedere che una persona si senta alienata anche se oggettivamente questo non si può dire (p. 11). Una seconda alienazione è legata all’autonomia dell’uomo che nel lavoro dovrebbe poter esprimere se stesso, realizzare la sua libertà e cogliere il senso del vivere. Una lavoratore che non ha nessun rapporto col prodotto finale del suo lavoro diventa un mezzo e non può non sentire come alienante il suo compito. Una terza alienazione può esserci in riferimento alla tecnica che se da una parte ha prodotto un enorme crescita del benessere, dall’altra mira a massimizzare l’efficienza subordinando ad essa il lavoratore e i suoi talenti.
La risposta di Manzone a questi interrogativi vuole essere teologica e insieme morale; teologica perché cerca di inquadrare correttamente la questione dell’alienazione, morale perché cerca con competenza delle risposte operative.
A livello teologico il nostro autore ricorda che per l’antropologia cristiana la fondamentale alienazione è quella da Dio per cui a livello storico dovremo sempre fare i conti con la parzialità di ogni miglioramento delle condizioni lavorative. Se per Marx il superamento dell’alienazione del lavoro è condizione per la realizzazione umana, Manzone suggerisce una via più realista ricordando che si deve inevitabilmente convivere con l’inesorabile ambivalenza del lavoro senza che questo significhi rassegnazione. Si tratta concretamente di fare i conti col limite: ci sono limiti inerenti al lavoro stesso che per definizione è legato al bisogno e a metodi ereditati. Ci sono poi limiti legati al contesto economico e alle sue molteplici interdipendenze. Ci sono, soprattutto nell’industria, limiti imposti dall’efficienza e specializzazione. Ma riconoscere forme di limite e di dipendenza significa ammettere la particolarità della libertà umana che nell’ambito del lavoro è chiamata a coniugare bisogni materiali e ricerca di senso.
Detto questo la riflessione morale mette in evidenza alcuni principi di riferimento del “lavoro umano” e nello stesso tempo suggerisce delle soluzioni pratiche per la loro realizzazione. Sono tre i principi suggeriti e analizzati da Manzone: il lavoro è attività personale, va riferito al bene comune, è un fine in se stesso.
Se il lavoro è attività personale nella quale l’uomo realizza se stesso va affrontata con serietà la questione dell’autonomia della persona che lavora e cioè la possibilità che il lavoratore entri in contatto col prodotto finale della sua opera. Quali strade percorrere? Si tratta, in sostanza, di incoraggiare la partecipazione e lo sviluppo personale creando ruoli lavorativi che diano spazio all’autogestione e allo sviluppo dei talenti. Si tratta anche di diminuire le differenze tra lavoratori, dirigenti e proprietari non solo con incentivi salariali ma anche con l’azionariato diffuso, la partecipazione ai profitti, lo sviluppo di organizzazioni su piccola scala che favoriscano la partecipazione alle decisioni. Approcci inadeguati sarebbero invece la rotazione dei compiti (questo potrebbe allargare la sfera di responsabilità ma non fa ancora partecipare alle decisioni); pensare al lavoro secondo il modello della creazione artistica (sarebbe un approccio irrealista); strutturare le imprese in organizzazioni autogestite (questo semplificherebbe la piramide gerarchica ma lascia immutata la gerarchia verticale e potrebbe trasformare i lavoratori in “persone di vetro” monitorate in tutto). Ci sono anche delle minacce per la partecipazione, prima fra tutte la precarietà che si nasconde dietro la flessibilità imposta dal mercato globale.
Un secondo principio colloca il lavoro nella prospettiva del bene comune. Mentre il famoso teorema della mano invisibile afferma che il miglior modo di lavorare per gli altri è lavorare per sé stessi, Manzone ricorda che la teologia cristiana del lavoro insiste sull’intenzionalità. Si dovrebbe lavorare coscientemente per gli altri perché il lavoro non è solo utilità ma contiene anche un significato morale. Tra il proprio interesse e il bene degli altri (l’umanità intera, le future generazioni) ci deve essere una complementarietà che non riesce comunque a eliminare il conflitto. Questo chiede non solo che il lavoratore sia in relazione col prodotto finale del proprio lavoro e conosca come questo sia legato al bene comune, ma anche la creazione di strutture che non favoriscano l’egoismo.
L’ultimo principio è quello che maggiormente evidenzia la visione cristiana del lavoro ricordando che si tratta di un fine in se stesso e non solo strumentale alla sopravvivenza. Ci chiediamo, afferma Manzone, se non possa essere possibile pensare al lavoro come un fine, senza negare la sua dimensione strumentale. Il lavoro può essere un piacere solo se è percepito come un fine in sé. Dio ha creato l’uomo affidandogli il compito di custodire e coltivare la terra attraverso il lavoro. “Se io sono creato per lavorare, allora devo trattare il lavoro come qualcosa per cui sono creato e quindi trattarlo almeno parzialmente come un fine in sé” (p. 33). L’enfasi odierna sul lavoro è legata al “culto” del prodotto. L’ideale oggi è riuscire ad avere il prodotto senza lavorare. Ma se il lavoro è un fine allora il processo del lavoro è più importante del prodotto del lavoro. Se il lavoro è un fine allora si resiste alla tentazione della frenesia e si trova il tempo per gioire del lavoro. Il fine del lavoro deve essere sempre presente nel processo del lavoro. Un lavoro è umano quando la persona non agisce solo per vendere e fare profitto, ma anche per la gioia di realizzare quel prodotto.
Manzone ha il merito di riaprire quella riflessione teologica sul lavoro che si impone anche oggi perché da una parte la fede chiede di fare i conti con una prassi che continua a mutare, dall’altra lo stesso lavoro pone nuove domande di senso. Ci sembra che un limite, inevitabile in un testo di poche pagine, sia quello di aver messo a tema solo il lavoro dipendente e industriale mentre oggi il mondo del lavoro spazia in ambiti nuovi nei quali la stessa riflessione morale non si è ancora avventurata.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
Ci sembra che la chiave di lettura del testo possa essere il tema dell’alienazione che Manzone declina in riferimento a diversi aspetti del lavoro. In riferimento alla persona possiamo parlare di una alienazione soggettiva quando il lavoratore non trova quella soddisfazione personale nel lavoro che compie. Può così succedere che una persona si senta alienata anche se oggettivamente questo non si può dire (p. 11). Una seconda alienazione è legata all’autonomia dell’uomo che nel lavoro dovrebbe poter esprimere se stesso, realizzare la sua libertà e cogliere il senso del vivere. Una lavoratore che non ha nessun rapporto col prodotto finale del suo lavoro diventa un mezzo e non può non sentire come alienante il suo compito. Una terza alienazione può esserci in riferimento alla tecnica che se da una parte ha prodotto un enorme crescita del benessere, dall’altra mira a massimizzare l’efficienza subordinando ad essa il lavoratore e i suoi talenti.
La risposta di Manzone a questi interrogativi vuole essere teologica e insieme morale; teologica perché cerca di inquadrare correttamente la questione dell’alienazione, morale perché cerca con competenza delle risposte operative.
A livello teologico il nostro autore ricorda che per l’antropologia cristiana la fondamentale alienazione è quella da Dio per cui a livello storico dovremo sempre fare i conti con la parzialità di ogni miglioramento delle condizioni lavorative. Se per Marx il superamento dell’alienazione del lavoro è condizione per la realizzazione umana, Manzone suggerisce una via più realista ricordando che si deve inevitabilmente convivere con l’inesorabile ambivalenza del lavoro senza che questo significhi rassegnazione. Si tratta concretamente di fare i conti col limite: ci sono limiti inerenti al lavoro stesso che per definizione è legato al bisogno e a metodi ereditati. Ci sono poi limiti legati al contesto economico e alle sue molteplici interdipendenze. Ci sono, soprattutto nell’industria, limiti imposti dall’efficienza e specializzazione. Ma riconoscere forme di limite e di dipendenza significa ammettere la particolarità della libertà umana che nell’ambito del lavoro è chiamata a coniugare bisogni materiali e ricerca di senso.
Detto questo la riflessione morale mette in evidenza alcuni principi di riferimento del “lavoro umano” e nello stesso tempo suggerisce delle soluzioni pratiche per la loro realizzazione. Sono tre i principi suggeriti e analizzati da Manzone: il lavoro è attività personale, va riferito al bene comune, è un fine in se stesso.
Se il lavoro è attività personale nella quale l’uomo realizza se stesso va affrontata con serietà la questione dell’autonomia della persona che lavora e cioè la possibilità che il lavoratore entri in contatto col prodotto finale della sua opera. Quali strade percorrere? Si tratta, in sostanza, di incoraggiare la partecipazione e lo sviluppo personale creando ruoli lavorativi che diano spazio all’autogestione e allo sviluppo dei talenti. Si tratta anche di diminuire le differenze tra lavoratori, dirigenti e proprietari non solo con incentivi salariali ma anche con l’azionariato diffuso, la partecipazione ai profitti, lo sviluppo di organizzazioni su piccola scala che favoriscano la partecipazione alle decisioni. Approcci inadeguati sarebbero invece la rotazione dei compiti (questo potrebbe allargare la sfera di responsabilità ma non fa ancora partecipare alle decisioni); pensare al lavoro secondo il modello della creazione artistica (sarebbe un approccio irrealista); strutturare le imprese in organizzazioni autogestite (questo semplificherebbe la piramide gerarchica ma lascia immutata la gerarchia verticale e potrebbe trasformare i lavoratori in “persone di vetro” monitorate in tutto). Ci sono anche delle minacce per la partecipazione, prima fra tutte la precarietà che si nasconde dietro la flessibilità imposta dal mercato globale.
Un secondo principio colloca il lavoro nella prospettiva del bene comune. Mentre il famoso teorema della mano invisibile afferma che il miglior modo di lavorare per gli altri è lavorare per sé stessi, Manzone ricorda che la teologia cristiana del lavoro insiste sull’intenzionalità. Si dovrebbe lavorare coscientemente per gli altri perché il lavoro non è solo utilità ma contiene anche un significato morale. Tra il proprio interesse e il bene degli altri (l’umanità intera, le future generazioni) ci deve essere una complementarietà che non riesce comunque a eliminare il conflitto. Questo chiede non solo che il lavoratore sia in relazione col prodotto finale del proprio lavoro e conosca come questo sia legato al bene comune, ma anche la creazione di strutture che non favoriscano l’egoismo.
L’ultimo principio è quello che maggiormente evidenzia la visione cristiana del lavoro ricordando che si tratta di un fine in se stesso e non solo strumentale alla sopravvivenza. Ci chiediamo, afferma Manzone, se non possa essere possibile pensare al lavoro come un fine, senza negare la sua dimensione strumentale. Il lavoro può essere un piacere solo se è percepito come un fine in sé. Dio ha creato l’uomo affidandogli il compito di custodire e coltivare la terra attraverso il lavoro. “Se io sono creato per lavorare, allora devo trattare il lavoro come qualcosa per cui sono creato e quindi trattarlo almeno parzialmente come un fine in sé” (p. 33). L’enfasi odierna sul lavoro è legata al “culto” del prodotto. L’ideale oggi è riuscire ad avere il prodotto senza lavorare. Ma se il lavoro è un fine allora il processo del lavoro è più importante del prodotto del lavoro. Se il lavoro è un fine allora si resiste alla tentazione della frenesia e si trova il tempo per gioire del lavoro. Il fine del lavoro deve essere sempre presente nel processo del lavoro. Un lavoro è umano quando la persona non agisce solo per vendere e fare profitto, ma anche per la gioia di realizzare quel prodotto.
Manzone ha il merito di riaprire quella riflessione teologica sul lavoro che si impone anche oggi perché da una parte la fede chiede di fare i conti con una prassi che continua a mutare, dall’altra lo stesso lavoro pone nuove domande di senso. Ci sembra che un limite, inevitabile in un testo di poche pagine, sia quello di aver messo a tema solo il lavoro dipendente e industriale mentre oggi il mondo del lavoro spazia in ambiti nuovi nei quali la stessa riflessione morale non si è ancora avventurata.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2004, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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