Secondo natura. Un poema degli elementi
(Biblioteca Adelphi)EAN 9788845924156
Le osservazioni più acute sulla pala d’altare di Isenheim, dipinta agli inizi del Cinquecento da Matthias Grünewald per i malati dell’ospizio di Sant’Antonio, le dobbiamo probabilmente a Elias Canetti, per il quale il compito dell’arte non era né la catarsi né la consolazione né il dono del lieto fine. Fermo di fronte al capolavoro del pittore tedesco, inchiodato alla visione dal dito di san Giovanni – dito sproporzionatamente grande e perfettamente visibile nella sua chiarezza ad indicare che così è e così sarà, e che tutti gli orrori incombenti sull’umanità erano anticipati da quel dipinto – Elias Canetti continuava a guardare, preso dalla sconvolgente prospettiva che l’unica salvezza di fronte a quelle figure contorte consistesse nel non distogliere lo sguardo. Grünewald, pittore tedesco della cui vita si sono conservate scarse e contraddittorie informazioni, aveva certamente la percezione che il lieto fine non ci sarebbe stato e che «la vita è redenta quando l’uomo da essa si redime».
Così, almeno, lo ritroviamo sotto la penna di W.G. Sebald, in Secondo Natura, «poema elementare» in tre parti finalmente offerto al lettore italiano da A. Vigliani che ci propone la traduzione di Nach der Natur, la prima opera propriamente letteraria che Sebald diede alle stampe nel 1988. In questo percorso poetico si ritrovano tutte le ossessioni tipiche della scrittura sebaldiana, che è capace di cogliere, attraverso insoliti excursus, la parabola della modernità e l’insensata ostinatezza umana fino al loro apogeo nella seconda guerra mondiale e nel nazismo, quando la rovina presente da sempre negli ondeggiamenti della storia umana aveva solo raggiunto il suo massimo grado di perfezione e di efficacia. Tratteggiando un mondo innalzato sul finire della storia della distruzione, Sebald non cessa di indagarne le contraddizioni persino nelle forme più grottesche ricordandoci, con il suo labirintico peregrinare, un Wanderer che si aggira tra le macerie del progresso, quelle stesse che l’Angelo della Storia di Benjamin osservava prodursi sotto l’impeto di una bufera.
Per ripercorrere questo iter, Sebald prende le mosse dalla vita del pittore Grünewald che aveva mostrato nella sua pala la distruzione nel suo aspetto più corporale – in essa i colli torti offrivano infatti, in maniera quasi sacrificale, il proprio volto e la gola scoperta a una luce abbacinante – e che, probabilmente scosso e atterrito dalla sua stessa preveggenza (volendosi almeno fidare di Elias Canetti), dopo il massacro dei contadini a Frankenhausen («i cui corpi s’ammucchiavano in un’ecatombe») decise di far fronte alla visione insopportabile, non trovandone scampo, bendandosi gli occhi. Il percorso prosegue poi con il corpo a corpo che l’esploratore Steller conduce con la natura nel XVIII secolo, chiudendosi con il ritratto di un giovane tedesco che, somigliante per la cornice biografica a Sebald stesso e nato anche lui sotto il segno di Saturno sul finire della seconda guerra mondiale, osserva la realtà, incline alla melanconia, cullato dall’inquietante silenzio e dall’oblio della morte su cui la società tedesca del secondo dopoguerra si era forgiata. Come infatti Sebald aveva cercato di far notare nelle sue lezioni zurighesi (tradotte con il titolo Storia naturale della distruzione), il mondo del dopoguerra si era percepito non come il frutto della disfatta, ma come l’anno zero della ricostruzione da compiere, mettendo alla prova ancora una volta il forte animo tedesco e ponendo così a proprio fondamento un oblio, una sorta di lunga ombra nera alla quale egli stesso era incapace di sottrarsi.
Al di là di queste tre figure, la vera protagonista di questo poema elementare è tuttavia la natura che, «ignara di equilibri e insano bricoleur» si serve di noi, delle composizioni e dei congegni delle nostre menti al fine di riprodursi e perpetuarsi. Tutto avviene «secondo natura» che, come un «luterano senza Dio», governa la storia producendo «opere» che non possono essere messe sul conto di nessuno, in un avanzamento inarrestabile le cui cesure sono nulla più che infirmitas e arresti del suo ordinario e opaco corso, cesure che però appaiono all'uomo come tregue, come vere meraviglie prodotte da una folle per intervalla insaniae. Confrontati a questa inarrestabile storia secondo natura che pure non cessa di inviare segni all’essere umano, i ritratti di questi personaggi ci sono consegnati nella loro lucida coscienza di un onnipresente svolgimento della distruzione. Assomigliano, Grünewald, Steller e il giovane tedesco (che contempla dalla sua finestra la realtà «in attesa che la sofferenza scemasse / e senza far nulla per ore se non guardar fuori» nella persuasione «di una catastrofe silenziosa che si compie, / priva di echi, davanti allo spettatore») a quegli uomini che avevano attraversato silenziosamente la prima guerra mondiale e che, come colpiti da una visione del futuro, gli occhi del tutto sparuti, ne erano ritornati «guariti», secondo una descrizione di Walter Benjamin. Apertosi con le visioni di Grünewald, il percorso si conclude con un’altra immagine, quella del ricordo, così come campeggiava nell’aula scolastica del giovane tedesco, del quadro di Altdorfer, La battaglia di Alessandro che, nelle intenzioni del pittore, spalancava all’Europa l’ingresso nella modernità e in un futuro dominabile. Ritornando all’immagine retrospettivamente, dietro la fiumana umana che si diffonde al centro del campo di battaglia, lo sguardo viene catturato da qualcosa oltre i ben più che centomila morti «sui quali imperversa la battaglia per la salvezza dell’Occidente».
Al di là del combattimento e dei minuscoli corpi minuziosamente disegnati, corpi impegnati in una lunga lotta di una presunta escatologia occidentale, si intravedevano «distese nello splendore del tramonto / le bianche tende di un accampamento persiano e una città sulla riva». E ancora la Natura che assiste silenziosa e padrona dei suoi fini: la terra d’Egitto, il delta del Nilo, il mar Rosso e ancora più in lontananza un «massiccio di neve e di ghiaccio / che svetta nella luce scemante dello sconosciuto e inesplorato continente d’Africa». Chi osserva l’immagine – o, meglio, chi la osserva nel proprio ricordo – esercita lo sguardo per cercare di ritrovare, dietro le figure, «la nervatura della vita trascorsa », convinto che questo abbia a che fare con la verità. Eppure, «d’altra parte il cervello / lavora inesausto su tracce / ancorché labili, di auto-organizzazione, / e talvolta ne risulta / un ordine, a tratti bello / e rappacificante, ma anche più crudele / del tempo passato, il tempo dell’ignoranza. / Fin dove bisogna dunque retrocedere / per incontrare l’inizio?»
Tratto dalla rivista Humanitas 65 (1/2010) 169-171
(http://www.morcelliana.it/ita/MENU/Le_Riviste/Humanitas)
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